Franco Arminio, la poesia come unica politica possibile
Sarebbe difficile affrontare il lavoro di Franco Arminio senza una notazione preliminare che tenti in primo luogo di delimitare i termini della sua poetica, che si fonda sull’incontro costante con il lettore, un incontro che si svolge sempre in uno spazio di confine, in quelle zone periferiche — anche fisicamente intese — in cui si può compiere in un modo o nell’altro un passo oltre noi stessi.
Cantavano i morti nello studio di Federico Ruysch. Cantavano la loro estraneità alla vita, «cosa arcana e stupenda». Parlavano e cantavano in coro, e nel farli parlare oltre quella condizione di vivi per loro incomprensibile, Leopardi lasciava in dono ai vivi che lessero e che avrebbero letto la bellezza fragile e solenne della loro elegia. Come da una frattura posta tra due mondi, traspirano le sensazioni leggere che connettono l’esperienza dei vivi, i dubbi e i pensieri appena sussurrati a sé stessi a proposito della morte, e le inafferrabili certezze di chi vivo non è più, del morto che va a formarsi la sua psicologia al negativo. Qui, un attimo oltre la fine e un passo prima che essa sia compiuta, in quella zona di confine che è lo spazio sospeso della pagina, si incontrano dunque il lettore e il poeta, l’uomo vivo e l’uomo morto al mondo. E questo è anche il punto di partenza di un percorso di attraversamento di alcuni testi di Franco Arminio, nel tentativo di definire, per progressiva approssimazione, gli esiti della sua poetica, in particolare rispetto alla ricerca di un ruolo sociale alla poesia.
È il 2010 quando Arminio pubblica Cartoline dai morti (qui si cita dall’edizione 2017, in cui sono confluiti anche testi successivi). Si tratta di una raccolta di brevi prose, anch’esse un po’ sospese. Prose con la vocazione della poesia, e quindi un po’ con la vocazione della morte. Il libro si presenta all’apparenza come un insieme di piccoli affreschi, in cui a scrivere sono appunto i morti, che affidano a poche righe lapidarie il racconto del momento del loro trapasso. Le situazioni sono innumerevoli, come le figure ritratte. Le descrizioni sono essenziali ma vivide:
«Io mi chiamavo Alfredo. Ero stato trent’anni in Germania. Ero tornato al paese con la pensione. Sono morto la sera del terremoto, dentro il bar. Quello che stava giocando a carte con me si è salvato».
«Io vivevo ad Asti, ma quando tornavo al paese dicevo sempre che vivevo a Torino. Sono morto ad Asti».
«Avevo la cirrosi epatica, ma fino a un paio di giorni prima di morire me ne andavo in giro, con il Corriere dello Sport sotto il braccio e la sciarpa del Napoli».
E tuttavia non si può cogliere il significato di questi testi se si resta a una lettura impressionistica e ci si ferma a guardare ai personaggi come fossero un campionario di tipi psicologici, quasi macchiette. Certamente lo sguardo del poeta insiste in una posa che a tratti sembra quasi volerlo suggerire, come se egli stesso volesse invitare il lettore a equivocare, facendogli credere che oltre queste notazioni a margine della morte non ci sia poi nient’altro da considerare. A orientare la lettura nel modo giusto interviene l’ironia amarissima e discreta, ma irriverente anche («Ero un prete. Francamente dalla morte mi aspettavo qualcosa di più») che nasce dal paradosso sotteso a ogni cartolina. Così, attraverso ogni personaggio, Arminio esorcizza anche la sua morte e tiene a bada la sua ipocondria. In sostanza ognuna delle morti descritte potrebbe essere la sua, o anche la nostra. I dettagli, i gesti nei quali sono colti i personaggi, le piccole grandi ossessioni, i malintesi, le incomprensioni, le solitudini e i vuoti più o meno pesanti («La morte è solo l’ultima cosa che ci succede nella vita. Per me è stata anche la prima») rappresentano spesso i tratti essenziali di un’intera esistenza, la raccontano e la rivelano all’«osso» più che descriverla, dischiudono lo spazio dell’interiorità, alludendo costantemente a quel senso di umana precarietà nella quale chiunque si può riconoscere e che riconnette le esperienze in una dimensione di coralità. Ascoltare, ascoltare con empatia la voce dei morti, implica un’operazione di recupero di quella parte di noi che quotidianamente va in disfacimento e rischia di morire, di ciò che in noi e fuori di noi scivola verso l’inconsapevolezza. Così il discorso impone attenzione a noi stessi, e all’altro. «Il bene è sempre dalla parte di chi è intenso» scrive il poeta, ma questa intensità non va intesa in termini contemplativi, anche quando Arminio sembra invitare apertamente alla contemplazione.
Tre anni dopo le prime Cartoline Arminio pubblica Geografia commossa dell’Italia interna (2013) dove l’operazione di recupero sopra descritta si estende alla fisicità del mondo, ai luoghi in abbandono e in via di spopolamento dell’entroterra italiano, prevalentemente meridionale. Si tratta di luoghi spesso già comparsi in Cartoline, la piazza di un paese, un campetto di calcio poco frequentato, la chiesa, una strada, angoli sperduti dentro qualche borgo all’apparenza senza tempo. Solo che stavolta questi luoghi sono nominati e inseriti dentro porzioni di territorio, dentro regioni. I luoghi sono anche città.
In Geografia commossa, raccolta di prose dall’andamento a tratti lirico a tratti meditativo, Arminio mette a fuoco il concetto di paesologia e dichiara in apertura le sue intenzioni: «La ricognizione dei luoghi è il frutto di uno spostamento di attenzione, dal sintomo del corpo al sintomo del luogo, dall’ipocondria alla desolazione». Anche in questo caso, proprio come accade in Cartoline, l’operazione che compie il poeta non è descrittiva. Intanto inizia a realizzarsi uno slittamento tra corpo e luogo, preludio a una vera e propria identificazione, anche se qui questo slittamento è ancora limitato a una prima presa di coscienza, quella della lettura dei sintomi sul territorio. Visti attraverso questo filtro, anche quando sono nominati e individuati nella loro concretezza con tanto di toponomastica, è come se i luoghi in qualche modo venissero nominati per la prima volta, svelati anch’essi come i morti di Cartoline fino all’osso, messi a nudo attraverso i tratti che fanno emergere l’essenza della loro storia. Ostinatamente il poeta ne ausculta la vita profonda e nota sulla pagina la sua diagnosi. Valga su tutti l’esempio di Taranto «città apocalittica» di «un’apocalisse grigia, a lento rilascio». Per Arminio questa apocalisse, prima ancora che nel dramma dei morti a causa dell’inquinamento, sta nella mutazione di forma della città (e si avverte forte la lezione di Pasolini), nello snaturamento che è venuto dal falso mito del progresso e che l’ha stretta nell’abbraccio mortale con la fabbrica, così che oggi ci sono tre città: quella nuova, la città-fabbrica e la città-isola, cioè quella vecchia, connessa alla sua identità ionica, che sta appunto come un’isola con tutto il resto intorno. A queste mutazioni tutt’altro che innocue oggi il nuovo capitalismo aggiunge un’altra perversione, quella della rimozione. I territori violati non vengono mostrati e in questo modo non siamo spinti a conoscerli veramente, a farne esperienza. È il tabù della nuova modernità, l’ennesima privazione di spazio e di verità. Valga di nuovo un altro caso limite, quello delle zone terremotate, del tutto sottratte al nostro sguardo. Le possibili situazioni di solito sono due: o restano in terra cumuli e cumuli di macerie come una pietra tombale posta sull’esistenza di un paese, o l’imperizia e la sostanziale mancanza di consapevolezza portano alla realizzazione di nuovi alloggi funzionali che restituiscono un’abitazione alle persone ma che di fatto tolgono loro per sempre il paese. La rete con la sua virtualità ha concluso l’opera, abolendo letteralmente i luoghi e i tempi della realtà, in definitiva gli stessi pilastri sui quali la modernità aveva costruito la propria esistenza. In questo panorama di progressiva e sostanziale desertificazione, inteso come vera e propria «penuria di esperienza», Arminio riconosce esplicitamente l’importanza di quel gesto, oggi in qualche modo rivoluzionario, che è camminare (e non è un caso che il poeta sia ospite fisso ad alcune feste di viandanti e camminanti), proprio perché l’andare a piedi consente di integrare nella nostra percezione porzioni di mondo, e in definitiva di noi stessi. Il cammino porta inesorabilmente verso i luoghi sfrangiati, dimessi, perché è qui ai margini, dove manca il presidio degli umani che si avvertono più forza e verità, dove cioè il pensiero unico ha «i suoi colpi a vuoto» e l’essenziale è più scopertamente in vista. Ed è sempre qui, proprio dentro la desolazione, nella presa d’atto di ciò che è fallito, che si ritrova annidata la poesia. Nel «Mediterraneo interiore» di Arminio, in quei paesi dell’entroterra e in particolare del Sud, nei paesi della Lucania ad esempio, oltre il tradimento della modernità, il poeta riscopre l’opportunità di sentirsi ancora esseri viventi e non consumanti, e la possibilità di costruire contesti che possano ancora avere la dimensione della comunità. Non si tratta di un recupero nostalgico, né di andare malinconicamente verso un passato che non tornerà. Si tratta di estrarre un significato potenzialmente esportabile e in questo non perdere una preziosa allusione al futuro. Ecco quindi che la paesologia, questa precaria disciplina, scopre qui la sua ragione d’essere, trova il suo scopo e la sua utilità.
Da questo accostamento tra desolazione e poesia nascono dunque come eventi naturali i libri successivi, Cedi la strada agli alberi: poesie d’amore e di terra (2017) e Resteranno i canti (2018). I testi sono raggruppati in sezioni, nelle quali il poeta attraversa ancora i temi ormai consueti e lascia spazio anche a qualche prosa lirica. Il punto di osservazione arretra di nuovo all’interno, ma questo interno ora è duplice, è contestualmente l’interiorità del poeta e di chi legge ed è anche l’interiorità del nostro paese, di un territorio. Non solo, l’entroterra è al tempo stesso luogo da osservare e punto di osservazione («Io sono la parte invisibile/ del mio sguardo,/ l’entroterra/ dei miei occhi»).
L’occhio si sofferma di nuovo su ciò che è stato dimenticato come su tutto ciò che resta occultato nelle pieghe dei luoghi e delle esistenze. In L’entroterra degli occhi appunto i protagonisti sono ancora i paesi, i loro abitanti, gli angoli remoti, i vivi e i morti:
«Oscilla assiderata la stella di Natale.
Da un bar all’altro inutili traslochi.
Ogni volto è un luogo di confine,
ognuno fa i suoi cenni
completamente incustodito.
Faccio quaranta passi e torno a casa.
Conosco quest’aria e i suoi rancori,
torna ogni anno sempre uguale
come le palle dell’albero e i pastori».
Nell’andatura prosaica il testo, che procede senza strappi con ordine sintattico, vibra leggermene quasi sempre in modo inatteso nel momento in cui accade qualche piccolo imprevisto testuale, a volte un’assonanza, più spesso una rima, come in questo caso (rancori: pastori). Punti di minime collisioni attraverso cui emerge tenue un significato.
In Brevità dell’amore (la seconda sezione della prima raccolta) e nella parte più corposa della seconda — Intimità provvisorie — i tentativi sono orientati verso la ricerca di una consistenza quasi carnale anche alle parole, attraverso le quali il poeta invita a mettere al centro dell’esperienza sensi più acuti, una percezione che ci disseppellisca («sentivo zone lontane del mio corpo/ che tornavano a casa»). L’altro diventa luogo fisico da esplorare e origine della propria riscoperta e nella relazione si passa così dall’interiorità all’intimità, anche se può trattarsi di un’intimità provvisoria. Lo slittamento tra luogo e corpo si è concluso ed è esplicitamente enunciato:
«Amare è un impegno da geografi,
esploratori che mentre vengono accolti
si fanno terra da esplorare».
E ancora: «… noi stessi siamo geografia,/ basta pensare al rumore di mare/ che abbiamo nel petto, al prato del pube,/ alla neve che portiamo sulle spalle». L’identificazione che si realizza modifica dunque anche l’attitudine dell’amante-geografo, al quale resterà al termine della sua esplorazione lo stesso stupore di una rivelazione. Resteranno i canti. La poesia. Qualcosa cioè di fisicamente esperibile.
Ebbene, quando infine si è trovata la poesia — la poesia, e non necessariamente la poesia di Arminio — che cosa si può fare di tutta questa meraviglia? Cosa si può costruire oggi, a partire dalla poesia? Per Arminio la domanda non è retorica e non resta racchiusa entro i confini di un libro o nello spazio di una presentazione. La poesia per Arminio è la nuova politica di cui ha bisogno il mondo. Qualche giorno fa Walter Siti ripercorreva analizzandole le fasi della scrittura letteraria di Roberto Saviano e ravvisava nei cedimenti anche stilistici dello scrittore un pericoloso derogare rispetto alla consapevolezza che la letteratura sia una forma di conoscenza. È una considerazione valida anche per la poesia, anzi forse per la poesia lo è ancora di più. La poesia, sia che la si pratichi come poeta, lettore, critico, divulgatore, organizzatore di eventi perfino e così via, si origina da un posizionamento interiore che ha anche inevitabilmente un valore politico. Ora, è proprio da un posizionamento interiore, definito nelle forme che qui si è tentato di descrivere, che per Arminio può originarsi un agire libero e si può provare a costruire momenti di incontro esplicitamente fondati su questi presupposti, senza rincorrere il rumore mediatico, che incatena i pensieri a false necessità. Una politica non convenzionale, attraverso un’arma non convenzionale come la poesia. Il festival “La luna e i calanchi” di Aliano che il poeta organizza tutti gli anni d’estate e la Casa della Paesologia ne sono solo degli esempi. Si potrebbe obiettare che in fondo non c’è differenza tra simili esperienze ed altri momenti di condivisione dedicati alla musica o all’arte. Si potrebbe rispondere che la differenza sta nel fatto che i festival sono solitamente prodotti culturali e quindi commercializzabili, per quanto validi. Il che va bene, ma l’invito di Arminio è apertamente politico. Costruire spazi che possano riconnettere le persone per un tempo più o meno breve attraverso delle esperienze in cui si possa condividere una poetica, una visione del mondo, una comunanza di intenti nell’abitarlo. Momenti di costruzione di senso e di nuove identità collettive, intimità provvisorie. Non importa quanto possano essere estesi questi tentativi, ciò che importa è che riaffermino in primo luogo un’istanza, quella di incontrarsi su basi rinnovate, per scelta. Si tratta soprattutto di mantenere accesa una linea di tensione, per essere noi ad andare dove (un dove fisico e interiore, intellettuale) vogliamo andare, avere fiducia nel fatto che altri stiano compiendo il nostro stesso movimento, i nostri stessi tentativi di recupero con la stessa pienezza e intensità di significato. Mettersi in cammino anche concretamente verso questo orizzonte, come verso un futuro ancora possibile.
Foto di Franco Arminio
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