Il disagio della dissomiglianza. Su Il Conoscente di Umberto Fiori
Sono trascorsi cinque anni dall’uscita della raccolta completa delle poesie di Umberto Fiori (Poesie. 1986-2014, Mondadori). In quel volume si poteva leggere un’anticipazione delle prime strofe del poemetto Il Conoscente, che quest’anno esce integralmente per i tipi di Marcos y Marcos (l’editore “storico” di Fiori). Fiori è un poeta – lo hanno osservato molti – in possesso fin dall’esordio di una voce pienamente dominata, compatta, sempre riconoscibile di raccolta in raccolta: in questo nuovo libro la sua poesia scarta invece inaspettatamente ed è quindi forte la tentazione di considerare Il Conoscente un nuovo inizio dopo la ricapitolazione mondadoriana. Sul piano dello stile, della struttura, dell’invenzione, il “nuovo corso” de Il Conoscente è innegabile; eppure le ossessioni gnoseologiche ed etiche del poeta sono rimaste le stesse. Ma partiamo dalle differenze con il Fiori cui siamo abituati.
Un personaggio realistico e allegorico
Il Conoscente è un romanzo in versi allegorico e la scelta del genere è la prima evidente novità. Fiori è stato fin qui poeta dalla misura quasi sempre breve, (anche se a ben vedere, fin dalle raccolte degli anni Novanta, Esempi e Chiarimenti, egli ha amato aprire o chiudere i propri libri con articolate serie di poesie e già La bella vista del 2002 era un compiuto poemetto, anche se più descrittivo e riflessivo che propriamente narrativo). Questo nuovo libro, al contrario, ha una vera e propria trama. Il protagonista, Umberto Fiori, rincontra per caso un personaggio del proprio passato, “Il Conoscente”, un ex compagno di lotte politiche negli anni Settanta, in realtà un infiltrato e una spia (è necessario precisare, dopo due decenni di letteratura di autofiction, che l’omonimia del protagonista con l’autore è un gioco di specchi, o a nascondino, tra vera e propria autobiografia e libera invenzione?).
Il Conoscente è attraente e repulsivo, giocoso e insinuante, gran retore ma semicolto, spiazzante per sincerità eppure ipocrita e macchinatore; mellifluo, volgare, irritante, benché dotato di un’energia vitale quasi ammirevole. È un personaggio dantesco: dettagliatamente realistico, ha però soprattutto un valore allegorico. Incarna il costante rovesciamento – spesso parodico, ma non necessariamente; comunque sempre nichilistico – di tutto ciò che il personaggio Umberto Fiori pensa ed è («Pochi al mondo, io credo, hanno il talento / che aveva il Conoscente / di ridurre le cose al loro fondo / più crudo e squallido»); e i due personaggi sono tanto avvinghiati nella lotta che talvolta al lettore riesce difficile distinguere chi abbia ragione e chi torto, nelle lunghissime diatribe che li oppongono e che affrontano i temi dell’impegno politico, della funzione della poesia, della potenza o impotenza del linguaggio, del rapporto tra solitudine del poeta e comunità umana. O meglio: sentiamo che il Conoscente non ha, non può avere ragione; ma Umberto Fiori si trova spesso con le spalle al muro e aver dato a questo avversario la parola finisce per essere indistinguibile dall’essersi sottomessi a un’auto-anamnesi spietata.
Una nuova concretezza
Nonostante il costante aggancio a scene quotidiane e realistiche, la poesia di Fiori è sempre stata iterativa, tendente all’emblema: situazioni e personaggi tipici, fondali essenziali, eventi ridottissimi. Il Conoscente prende invece la tangente di uno sviluppo narrativo pieno di svolte e di sorprese, sempre più stralunato, grottesco, feroce. Nel racconto spicca una geografia di luoghi perturbanti, verso i quali il protagonista è condotto dal Conoscente in veste di anti-Virgilio: l’Ente, una elegante residenza che può ricordare il misterioso e untuoso albergo di Todo modo di Sciascia; Urate, un inventato ma verosimile paesino dell’hinterland milanese dove Fiori conosce Olindo, arci-italiano qualunquista e fascistoide e, a detta del Conoscente, Grande Vecchio della politica italiana; la Convenzione, una convention insensata su un’isola del Mediterraneo (ispirata a Stromboli), in cui i “convenuti” si sfidano a infernali giochi – una specie di Musichiere, una gara di insulti – venendo non si sa se accuditi o torturati. Tuttavia in questa visionarietà allegorica i caratteri di realismo sono lampanti. Si tratta del primo libro di Fiori in assoluto nel quale compaiono nomi propri, di luoghi e persone (in primo luogo dell’alter ego omonimo del poeta), e in cui i personaggi abbiano un presente e un passato storicamente determinati. Si tratta di una novità di non poco conto per un poeta che aveva sempre fatto del ricorso ai nomi comuni, anzi ai nomi generali a oltranza (vigili, signore, passanti, altri), una delle sue cifre più caratteristiche: perfino il poeta era, altrove, «uno», «un tizio».
L’infinita dissomiglianza
Ma dove punta Fiori con questo libro? Ho detto che le sue “ossessioni” gnoseologiche ed etiche sono rimaste le stesse. Il Conoscente può essere letto – almeno a me così pare – come controcanto o verso della sua poesia: «Dentro lo sguardo opaco del Conoscente / dal pozzo senza fondo del suo ascolto, / mi salutava quello / che da sempre mi sfugge, il punto cieco / dove mi trovo, e non mi so».
Molta della poesia di Fiori, così naturale e prossima, nasce invece da un disagio, appunto da un oscuro «punto cieco»: quella angosciata perplessità sul mondo che gli uomini che si presumono a posto con la coscienza trattano sempre a paternalistiche pacche sulle spalle – smettila di essere così pesante e rigido, dice a Fiori il Conoscente – e che è invece, per parafrasare un suo verso, un’infinita dissomiglianza («Dalla forma più sua, / mentre la ascolta, allora, sente salire / un’infinita somiglianza», Una forma, in Tutti). Come Rilke, che constatava come il destino dell’uomo – unico in questo tra tutti gli animali – fosse di essere sempre e soltanto contro, mai dentro insieme con, i versi di Fiori sono una reiterata messa in scena dell’inappartenenza al mondo, agli altri, a noi stessi, «essere la mia faccia, / finalmente / liberata di me. […] / Non diventare più. Assomigliarmi» (Desiderio, in La bella vista), desiderio destinato a restare lettera morta: «solo la faccia mi resta. // Eccola: è vostra» (ultimi versi della raccolta Voi).
Questa condizione di estraneità degli uomini a se stessi non è psicologica, ma linguistica (quindi anche sociale). Il tema delle conversazioni a tavola, delle discussioni, dei litigi, del bisogno di chiarimenti si ritrova nelle pagine di Fiori praticamente ad apertura di libro (eccone un esempio: «Parlare / è sempre troppo / e non è mai abbastanza. // Di colpo ha chiaro il vuoto / e l’arroganza / di essere lì presente», Chiarimenti, nell’omonima raccolta).
Il nostro linguaggio, come ha scritto Paolo Virno (Saggio sulla negazione), nega gli altri e le cose del mondo per intima costituzione, perché ci ha staccato dalla realtà, differenziato da essa. Lo strumento che ci rende unici fra gli animali è anche quello che ci rende soli: le parole e i concetti non sono le cose, noi non siamo le parole che ci definiscono, noi non siamo la faccia che portiamo: «Fisso gli occhi / negli occhi del divano, / dell’opposto, del sempre, dell’altrimenti, / del senza, del peggio. Prego / nessuno, niente: proteggimi / dalla tua potenza» (No, in La bella vista).
È pur vero che in Fiori si trovano luminose soluzioni a questa condizione: un suo acuto lettore, Rocco Ronchi, ha osservato che il poeta si arresta davanti alla semplice presenza delle cose e delle persone e, pur sapendo che “in linea teorica” quella presenza potrebbe essere ulteriormente interrogata, che il senso di quell’esser lì non è lì ma sempre altrove, dietro, si fa bastare quel che c’è, quello che si offre al suo sguardo: «Devono pur finire, le domande. / Allora c’è il punto morto, / una calma enorme» (ma, subito dopo: «Poi col vento il ramo si muove. / Ritornano le spiegazioni»: Verità in costume, in Esempi). Da qui nasce l’amore di Fiori per i muri ciechi e le facciate delle case: essi stanno non contro a noi ma di fronte, a risponderci e corrisponderci. Nei versi di Fiori la commovente bellezza delle apparizioni e rivelazioni dei paesaggi cittadini o naturali, e degli incontri umani, sta proprio nella piena accettazione della loro evidenza fenomenica – ma è meglio dire: nello sforzo, nella lucida intenzione di accettarli pienamente –, prima che il linguaggio li dissolva in concetti e parole, in fantasmi.
Io, voi, il Conoscente
Questa soluzione estatica è però fragilissima: potrebbe essere ulteriormente messa in discussione. Chi ci garantisce, in effetti, che non sia l’ennesimo abbaglio di un soggetto che scambia per realtà la propria volontà di potenza? Nella rete del linguaggio nulla è certo. Ma ciò che rende la poesia di Fiori diversa da quella che si traduce in un’indagine esclusivamente interna al linguaggio stesso è la sua venatura etica e antropologica: la rete del linguaggio è per Fiori una conversazione tra il soggetto e gli altri, tra l’io e il voi. Il problema è che nessuno di questi due pronomi può vantare una maggior consistenza dell’altro: non c’è salvezza né nelle certezze personali né nel rifugio presso l’Altro, quell’imprendibile e spesso minaccioso “voi” che dà il titolo alla penultima raccolta di Fiori.
A volte l’io è niente, solo un vuoto e un senso di colpa, e sono gli altri ad essere interi: «uno è troppo poco. / È niente. È il suo rimorso» (questa e tutte le citazioni che seguono da Voi); «solo voi siete»; «comodo, essere gli altri. // In salvo, fuori tiro, / padroni di andare e venire / come vi pare. // Invece io – sempre qui, / a disposizione»). A volte sembra esser vero esattamente il contrario: «lo so, non ci sarete / mai abbastanza». A volte il “voi” è non solo intero, ma addirittura portatore para-divino di una verità assoluta che umilia la parziale individualità dell’io: «Non siete uno, voi, non avete / labbra, lingua, respiro. / Solo ragione». A volte la distinzione stessa tra soggetti è abolita: «Lo sapete: mi siete / molto più / di quanto io mi sia. Tanto intimi / che nemmeno io stesso». Ma su tutto vince la constatazione affranta della dissomiglianza: «Se siamo uguali, se / siamo lo stesso, / che cos’è questo male, / questo bene / che ci separa?».
Ma se in Voi questa lotta era offerta al lettore solo dopo aver operato su di essa un processo di distillazione, come a offrircene una forma pura, trascendentale, nell’ultimo libro essa si incarna ed è moltiplicata in specie diverse, storicamente circoscrivibili: il Conoscente è lo stesso interlocutore e avversario del “voi”, ma passa in rassegna con concreta minuzia la vita di Fiori, lo stana, non gli dà pace. Ad esempio, dimostra di conoscerne benissimo l’opera, ma sembra ripetere a pappagallo categorie critiche ormai consuete per descriverla (parodia della critica? Parodia di se stesso? Imbarazzo verso se stesso? Spia del disagio di vedersi infilzato come una farfalla dall’entomologo nelle riviste letterarie?): «”Ogni volta che leggo i tuoi libretti” / continua il Conoscente “ho l’impressione / che tutto si riduca a quattro o cinque / luoghi comuni. Scenette trite e ritrite, / come se niente ci fosse di misterioso / al mondo, di straordinario, di nobile. / […] Anche chiamarle poesie, / diciamolo, è un po’ troppo: nemmeno prosa… / sembrano barzellette da bambini, / o gli sproloqui di un tassista; non c’è una rima […]».
Ancora: di fronte all’accusa del Conoscente di sentirsi superiore ai molti versificatori dei nostri anni, il protagonista risponde con un’affermazione in perfetto stile fioriano «Non è / questione di confronti […]. / Scrivo quel che ho da scrivere» e il suo avversario lo oltraggia inchiodandolo alla sua irrilevanza sub specie aeternitatis: «Sì, scrivi, bravo, scrivi… Ma per chi? / Li conosco i tuoi sedici lettori […]. Già ma tu / pensi al dopo, lo so: pensi alla gloria / che verrà. Pensi alle generazioni / future… Me li vedo i ragazzini, / tra cinquant’anni, darsi appuntamento / ogni primo mercoledì del mese / sul sagrato del Duomo / per commentare – in arabo? in cinese? – / le tue opera omnia. / Se pure ci saranno ancora opere, / libri, carta, scrittura. Se ci saranno / ancora uomini / sulla terra… // Altrimenti, a celebrarti / saranno gnomi e folletti. Cosa ne dici? / O scarafaggi, topi…». Anche la ben nota riduzione dell’attrito della prima persona nella sua poesia è schernita: «Due cani, un ponte, un inceneritore… / Via, sii sincero: quel che ti preme, in loro / sei sempre tu». La pretesa di non parlare per gli altri e di non giudicarli è volta dall’anima nera del Conoscente nel suo contrario: disprezzo, incapacità di perdonare, odio e risentimento.
Il disagio di aver mancato la coincidenza con le cose invade anche la Storia e i sogni rivoluzionari della gioventù, che sono ovviamente annichiliti dal Conoscente: lui sa, sapeva già allora, la verità, che non era quella professata in slogan, striscioni, parole d’ordine, assemblee, volantini – quello era il teatrino che era lasciato credere agli ingenui da chi nell’ombra degli arcana imperii manovrava tutto. E la verità è quella che decenni di berlusconismo e impoliticità ci hanno sbattuto in faccia: che siamo soli, che ogni pretesa politica di costruire una comunità, un noi, è patetica, che agli altri, alla media degli altri, non solo non interessa quella comunità, ma che il problema è il nostro zelo: «chi ve l’ha chiesto? / Che presunzione!»; «lasciala in pace, l’Umanità; / piantale di addossarle / un problema che è tuo, / soltanto tuo. È solo a te che tocca / affrontarlo, affrontare la realtà».
Ed è proprio quello che alla fine Fiori sarà costretto a fare: la salvezza è solo sua, in una nave («la mia nave») che lo porta lontano, chissà dove, dopo una finale ascesa, un po’ infernale, un po’ purgatoriale, sulle pendici del vulcano che domina l’isola della Convenzione. Almeno, questo è lo scioglimento narrativo de Il Conoscente. La rete che tutto avvolge domani potrebbe riacciuffare anche quella nave.
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