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diretto da Romano Luperini

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Rileggere un classico della critica letteraria /3 – Weinrich, Lete

 

 In Lete. Arte e critica dell’oblio (1999) Harald Weinrich, linguista e filologo romanzo, ripercorre il rapporto che la cultura occidentale ha istituito con l’oblio dall’antichità ad oggi. Si tratta di un saggio che esula, se si escludono le osservazioni di ordine linguistico contenute nell’Introduzione, dallo specifico campo di ricerca cui lo studioso tedesco si è dedicato ma che risulta particolarmente efficace per l’ampia panoramica cui dà vita e per l’errabonda curiosità con cui l’autore si muove tra svariate discipline: letterature europee antiche e moderne, filosofia, psicoanalisi.

La rilettura di questo classico può aiutare a riflettere non solo sui modi in cui è stato variamento interpretato nelle varie epoche il rapporto tra oblio e memoria, ma anche sul rapporto, spesso paradossale, che la contemporaneità istituisce nei confronti di entrambi. Il mondo ipermoderno è, infatti, tecnologicamente capace di stipare “in memorie” portatili, estraibili, virtuali un numero illimitato di documenti esibendo così, almeno in apparenza, una memoria elefantiaca e affidandosi fiducioso ad archivi sempre accessibili; viceversa, però, il nostro è spesso un tempo smemorato, in cui proprio la congestione di dati e di informazioni relativi a un dato evento lo saturano, condannandolo all’inesperienza.

Se, dunque, come un campo di forze dinamico, un discorso sulla dimenticanza non può darsi senza il polo opposto, la memoria, ripercorrere alcuni passaggi chiave del saggio di Weinrich potrà servire a ribadire quanto l’uno sia complementare all’altro, riconsiderandoli con una consapevolezza necessaria e rinnovata nella nostra attività di insegnamento e di studio.

 

L’ ars oblivionis e la celebrazione della memoria, fra antichità e medioevo

Weinrich pone al centro della sua indagine l’inversione di segno che avviene nella storia della cultura occidentale nella considerazione della memoria e dell’oblio. Alla connotazione assiologica classica della memoria che Weinrich fa risalire alla cultura greca si sostituisce dal Cinquecento in poi, in concomitanza con la diffusione della stampa, una rivalutazione dell’oblio che va di pari passo con una ridefinizione del ruolo dell’individualità, dell’uso autonomo della ragione, dell’analisi critica delle sue condizioni trascendentali.

L’epoca antica porta molte testimonianze a favore di Mnemosyne e della memoria. A partire da una serie di osservazioni lessicali, che sembrano istituire un ponte con la precedente ricerca grammaticale di Weinrich, salta agli occhi come molti termini europei esprimano l’atto del dimenticare in negativo: dai verbi italiani “scordarsi” (“perdere dal cuore”, sede della memoria) e “dimenticare” (”perdere dalla mente”, ancora in Dante sinonimo di memoria) all’inglese to forget (letteralmente “ricevere via qualcosa” nel senso di allontanare). Simile nella formazione e nel significato è il verbo tedesco vergessen.

L’importanza della memoria nel mondo antico come custode delle narrazioni mitiche ed epiche è ben nota: la scrittura stessa nasce come supporto alla memoria (cfr. E. A. Havelock, La Musa impara a scrivere, Bari, Laterza, 2005). Per questa ragione, oltre che per l’affinamento dell’oratoria pubblica, gli esercizi volti all’allenamento di tale facoltà erano parte saliente dell’educazione dei giovani greci e romani: lo attesta, per tutti, il noto aneddoto di Simonide di Ceo riferito da Cicerone nel De Oratore a proposito di una mnemotecnica basata sui loci.

Tuttavia non mancano voci autorevoli a favore dell’oblio: il titolo stesso del saggio è dedicato al fiume Lete dal quale, secondo gli autori antichi, «le anime bevono acqua […] per divenire libere, tramite l’oblio, dalla loro precedente esistenza e poter rinascere in un nuovo corpo» (Ivi, p.15).

Secondo Cicerone, a favore di un’ars oblivionis era Temistocle, dotato di una memoria che gli impediva di dimenticare qualunque cosa vedesse o sentisse; nei Remedia amoris, da parte sua, Ovidio propone una serie di memotecniche volte a dimenticare un rapporto amoroso che procura dolore. In questo caso l’oblio diventa una forma di psicoterapia di cui l’autore stesso – in precedenza cantore degli amori della mondana Roma augustea –  è l’unico depositario ed esperto.

Gli antichi nominano l’efficacia di certi pharmaka a favore dell’oblio: Omero, per bocca di Ulisse, ricorda ai Feaci la forza della dimenticanza provocata dalle droghe assunte dai  compagni nella terra dei Lotofagi e presso la maga Circe; il vino viene celebrato da Euripide e Alceo per il potere di scacciare le preoccupazioni.

L’epoca medievale si contraddistingue per una netta celebrazione della memoria: a partire da Sant’Agostino, che cerca di conciliare le reminescenze platoniche con la dottrina cristiana l’«arte della memoria, insegnata scolasticamente in moltissimi trattati come quarta parte della retorica, venne considerata […] per tutto il medioevo, e per buona parte dell’età moderna, fondamento indispensabile di ogni istruzione ed educazione» (p.61). In questo senso la Commedia rappresenta, almeno per la cultura europea, l’exemplum della potenza e della forza della memoria umana, capace di riportare non solo il ricordo meticoloso delle singole stazioni ultraterrene visitate dal poeta-viator ma perfino di mantenerne viva la risonanza emotiva.

Una memoria sterile

Fra XVII e XIX secolo le varie correnti culturali prendono diversamente posizione nei riguardi dell’oblio e della memoria: in particolare l’Illuminismo porterà avanti una serrata condanna rispetto a quest’ultima, intesa come facoltà da allenare ai fini di un apprendimento meccanico e privo di spirito critico.

In particolare Rousseau nell’Emile (1762) critica aspramente la base mnemonica su cui era costruita l’educazione dei giovani: «Se i bambini vengono […] obbligati a imparare a memoria tali favole e a imprimersene in testa la morale, verranno instillati in loro pensieri incontrollabili da parte della ragione, i quali finiranno per favorire “pericolosi pregiudizi” (dangereux préjugés)» (Ivi, p. 97). Non sarà un caso, allora, che l’autore della prima autobiografia moderna, le Confessioni (1782), ritenga di poter colmare i vuoti di memoria sul proprio passato con l’ausilio dell’immaginazione: «Tra gli avvenimenti di allora e la loro presentificazione attuale si è insinuata la legge dell’oblio […]. L’uomo mnemonico e l’uomo smemorato scriveranno insieme questo libro», conclude Weinrich (Ivi, p.95).

Le rivoluzioni proustiana e freudiana

Weinrich indica nella produzione letteraria e nella psicoanalisi del primo Novecento i contributi sulla dialettica memoria-oblio che portano a conseguenze culturali epocali: basti fare i nomi di Freud e di Proust. Grazie a loro l’esperienza dell’emergere del dimenticato è legata a una pratica linguistica e/o letteraria che permette di far riaffiorare la dimensione rimossa.

Per Freud, che lavora quotidianamente con la memoria altrui, è giocoforza occuparsi dell’oblio nel momento in cui incappa in casi di lapsus e in atti mancati.

Freud osserva come la fissazione di un ricordo possa essere più o meno labile e

per questo parla delle metafore più comuni utilizzate per nominare la memoria: la “lavagna” (supporto temporaneo, labile) contrapposto alla “carta” (supporto più resistente e duraturo). Ma negli anni delle sue ricerche si era diffuso un nuovo giocattolo, il cosiddetto “notes magico”, che «trattiene simultaneamente nel suo strato di cera una memoria effimera e una duratura» (Ivi, p.182). Il notes magico è equiparabile, secondo lo psicanalista viennese, all’inconscio, capace di mantenere in una sorta di memoria nascosta tutto ciò che è stato destinato all’oblio. Infatti ciò che è stato rimosso in virtù della “fuga dal dispiacere” non è dimenticato per sempre ma continua ad agire sotterraneamente nell’inconscio:

È qui che lo psicoanalista cerca di revocare l’oblio. Non possiamo più interpretare questo aspetto della psicoanalisi come espressione dell’oblio ma dobbiamo considerarlo invece parte dell’arte della memoria. In particolare il raccontare e il farsi-raccontare fanno parte di un’efficace strategia della memoria, come si può leggere con maggiori dettagli nel bel saggio di W. Benjamin Il narratore”. (Ivi, p.186)

Per Freud si tratta, insomma, di risvegliare l’oblio non pacificato –  preesistente al trattamento psicoanalitico – per renderlo cosciente grazie alla memoria e trasformarlo in una forma di oblio pacificato.

Anche Proust ha rivoluzionato il modo con cui pensiamo al rapporto memoria-oblio, fissandolo nella dialettica memoria volontaria/involontaria. Quest’ultima si attiva solo con il tempo, ripescando dal passato, per lo più mediante sollecitazioni sensoriali, ricordi che si credevano perduti per sempre:

Tutto questo si raccoglie insieme in Proust in una “memoria del corpo” (mémoire du corps), che va molto all’indietro nel passato, nella quale è conservato, senza che l’intelletto ne abbia coscienza, solo ciò che può essere colto dai sensi “inferiori”, molto più in grado di penetrare l’intimo della natura umana del senso della vista, troppo vicina all’intelletto(Ivi, p.209).

La mnemotecnica proustiana è una risorsa poetica e vitale, di segno positivo che può essere definita, secondo Weinrich, come «una poetica del ricordo dalle profondità dell’oblio» (Ivi, p. 210)

Auschwitz o l’oblio impossibile

Del capitolo ottavo si è riportato fedelmente la dicitura, non parafrasabile e solo in apparenza paradossale in un libro titolato Lete: per lo studioso, infatti, il «ricordo è, per i sopravvissuti, l’unico dovere autoimposto, per quanto doloroso possa essere» (p.266)

Al dovere della memoria di Wiesel («Mai dimenticherò», ripete ossessivamente in La notte, con la forza della doppia negazione dell’originale francese “Jamais je n’oublierai” ) che ha parlato dello sterminio di massa degli ebrei come di un mnemocidio, dal momento che “sono il popolo della memoria per eccellenza”, si affiancano la lotta contro l’oblio di Primo Levi e, a seguito della morte di quest’ultimo, di Jorge Semprun, scrittore spagnolo internato come oppositore politico che impiegò cinquant’anni a decidere se fissare per iscritto i ricordi della sua detenzione a Buchenwald o se scegliere una volta per tutte il silenzio e la dimenticanza: ne nacque La scrittura o la vita (1996, Guanda).

Il minuzioso esercizio della memoria di Primo Levi nel lager è attestato dalla precisione e dalla cura con cui registra mentalmente ogni particolare della «gigantesca esperienza biologica» che sta attraversando e a cui cerca di sopravvivere: lo stesso episodio del canto di Ulisse testimonia quanto la memoria sia stata salvifica nel lager per mantenere traccia della propria umanità.

La contemporaneità: cestinare o salvare in memoria?

Weinrich sottolinea come l’urgenza di alleggerire la mole crescente di informazioni storiche sia diventata nel corso del ’900 una sorta di necessità a fronte del sovraccarico di dati da memorizzare, per cui l’intelligenza deve imparare a liberarsi delle informazioni, scegliendo quelle da conservare.

Esemplare, in questo senso, appare il racconto-parabola di Heinrich Böll Il cestinatore (1957): il protagonista è un qualificato impiegato la cui mansione è l’eliminazione sistematica di tutta la posta superflua che arriva in ditta.

Del resto i luoghi di conservazione del sapere di oggi – gli archivi e le biblioteche – devono fare i conti con una proliferazione di materiale cartaceo da custodire che impone la cassazione o lo scarto di una parte di essi. Anche in questo caso ci viene in soccorso, in modo emblematico, il racconto fantastico di Jorge Luis Borges – La biblioteca di Babele (1941) –  deposito sterminato in grado di conservare tutti i libri, anche quelli che non sono ancora stati scritti. Contro questo luogo di conservazione nulla possono neppure gli adepti di una setta fanatica dell’oblio: si tratta di bibliotecari decisi a eliminare i libri considerati inutili ma che, alla fine della loro inesorabile opera di distruzione, si renderanno conto di aver eliminato solo una parte infinitesimale della biblioteca di Babele.

 Un monito a chi fa ricerca

Il saggio di Weinrich si chiude con un paragrafo di stringente attualità dedicato all’«oblivionismo della ricerca scientifica».

Se, infatti, come Weinrich stesso riconosce, «le biblioteche scientifiche […] sono cresciute fino a diventare centri impressionanti di informazione e di documentazione» (Ivi, p. 295), tuttavia un giovane ricercatore rischia di venire schiacciato dalla mole di informazioni accumulatesi anche negli anni più recenti. Per questo è auspicabile che adotti – compatibilmente con la disciplina di cui si occupa –  una serie di regole di comportamento che spingono in direzione dell’oblio:

Ciò che è pubblicato in una lingua diversa dall’inglese – forget it.

Ciò che è pubblicato in forma diversa da un articolo in una rivista – forget it.

Ciò che è non pubblicato in una delle prestigiose riviste x,y,z – forget it.

Ciò che è stato pubblicato da più di cinque anni circa – forget it. (Ivi, pp. 297-298)

Alcune piste di lavoro

In campo letterario, dopo le acquisizioni di Proust e di Freud, ogni opera modernista si costruisce a partire da uno spazio di oblio o da una perdita (basti ricordare il recupero memoriale su cui si fonda La coscienza di Zeno di Svevo (1925)) mentre è ormai assodato che ogni autobiografia è costruita sulla base della memoria, deformante e inaffidabile, «che un individuo ha della propria vita» (cfr. A. M. Mariani, Sull’autobiografia contemporanea, Roma, Carocci, 2011). Conoscere queste dinamiche permette una lettura più consapevole delle opere della contemporaneità.

Dal punto di vista storico, l’oblio come rimosso politico è censura o damnatio memoriae: si traduce nel silenzio che la violenza storica dei vincitori fa gravare sui vinti. Tuttavia è l’espressione artistica, spesso, a farsi carico della riemersione del rimosso: una «civitas narrativa» (P. Jedolowki, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri) trasferisce il ‘trauma collettivo’ in romanzi, film, opere teatrali e musicali dandogli finalmente diritto di cittadinanza.

Infine dal punto di vista giuridico, l’odierna, illimitata archiviazione dei dati digitali ha suscitato un vivace dibattito su identità digitale, informazione e diritto all’oblio: quest’ultimo ribadisce come il singolo soggetto sia divenuto portatore di diritti irrinunciabili compreso quello alla cancellazione del proprio nome dal web. Mentre un tempo era una comunità politica che poteva univocamente decretare la damnatio memoriae di un individuo, oggi è il soggetto a poter invocare il diritto a vedere il proprio nome libero dalla correlazione con specifici fatti e/o persone.

Dunque, per approfondire la complessità della relazione fra Lete e Mnemosyne – dee costitutive della nostra stessa umanità, tra loro complementari –  il libro di Weinrich offre, a vent’anni di distanza dalla sua pubblicazione – ancora molteplici spunti di lavoro.

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