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diretto da Romano Luperini

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Tra narrazione e argomentazione

  Tracce di argomentazione

Il profilo della nuova prima prova, così come emerge dal disegno della commissione ministeriale guidata da Serianni, sembra ribadire e tutelare, in ciascuna delle tipologie, il valore dell’argomentazione. Ma, dalle proposte del Ministero relative alle “tracce” d’esame, si direbbe che quel valore esca come rintuzzato, ridimensionato. E’ strano. E’ trascorso appena qualche anno da quando lo stesso Ministero si fece promotore e finanziò nelle scuole italiane un progetto indirizzato proprio allo “sviluppo delle capacità argomentative”[1]. Le scuole si cimentarono in un lavoro di ricerca e di sperimentazione i cui esiti furono importanti e ampiamente documentati. Il Ministero non può averne perso memoria. Forse dunque potrebbe tornare utile agli estensori delle tracce riprendere in mano quei risultati. Qualcuno proverò a illustrarlo qui di seguito.

La letteratura nell’Italiano delle competenze integrate

“Insegnare Lettere” oggi, per un docente della secondaria di secondo grado, significa muoversi sul terreno non sempre piano delle “competenze integrate dell’Italiano”: leggere, scrivere, pensare, argomentare. Su questo terreno la letteratura si accampa presidiata sempre più stancamente dal canone e da una storia “dalle origini ai giorni nostri” che, quando insegue i giorni nostri, rischia di smarrire le origini e, quando recupera le origini, perde di vista i giorni nostri. Talvolta la ricerca-azione interviene efficacemente non solo a salvaguardarne lo statuto epistemologico, ma a rilanciarne i significati e la funzione: non più esclusivamente repertorio consolidato di modelli compositivi e soluzioni formali, ma strumento rivelatore di crisi, istanze, ipotesi, prospettive esistenziali e attivatore della rappresentazione simbolica di esse. Questa che proverò a ripercorrere – nelle sue fasi essenziali – è un’esperienza felice di ricerca-azione; mi sembra che lo sia stata, infatti: nella cosiddetta “ricaduta” sugli studenti, ma anche nella mia prassi di docente.

Un percorso di ricerca-azione[2]

Il percorso ha preso le mosse dall’indagine delle strutture argomentative di tre testi molto noti del Novecento italiano, diversi nell’orchestrazione, intimamente vicini nei contenuti: E. Morante, Pro o contro la bomba atomica (1965); L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, (1975); I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1985). Attraverso la lettura e l’analisi di questi testi è stato proposto agli studenti un nucleo tematico molto forte di riflessione: la condizione esistenziale della generazione del “terzo millennio” a confronto con quella della generazione che visse la lacerazione materiale, morale, intellettuale del millennio conclusosi con l’evento-simbolo dello scoppio della bomba atomica. Ma – cosa non meno rilevante – è stata offerta loro la possibilità di misurarsi con tre modelli argomentativi dotati di strutture compatibili ma non sovrapponibili, sulle quali allievi e allieve sono stati chiamati a interrogarsi, allo scopo di cogliere i nessi inscindibili tra forma e contenuto. E su questo torneremo.

Questo lavoro è stato supportato dal confronto con altri testi argomentativi e dalla valutazione critica di documenti di varia natura: video, film, testimonianze fotografiche e iconografiche; testi narrativi, uno fra tutti La rancura di Luperini, destinato a diventare nel corso dell’anno una sorta di cult; testi saggistici, uno fra tutti Botta e risposta di Cattani; testi poetici: tutti proposti – com’è proprio della ricerca-azione – seguendo le coordinate di riflessione che si andavano definendo con lo svolgersi del percorso, o sollecitandone scarti e deviazioni. Per fare qualche esempio, lavorando con una quarta liceo scientifico, mi sono servita di testi e autori che il curriculum mi metteva davanti: Galilei, per dirne uno, o anche Lucrezio, così presenti pure nelle calviniane Lezioni americane, o ancora Cicerone; ma, via via, ho preso a servirmi dei materiali che i miei studenti mi proponevano (per esempio alcuni film-culto, Full metal Jacket o Palombella rossa o L’onda). Tutti i materiali sono stati messi in comune e fatti oggetto prima di dibattito (allargatosi grazie anche al coinvolgimento dei docenti di Storia e Filosofia), per divenire poi la documentazione di riferimento di laboratori di scrittura argomentativa orientati secondo i modelli affrontati. A conclusione del percorso, è stato chiesto agli studenti di stendere, sempre in forma argomentativa, le loro “proposte per il prossimo millennio”, così come Calvino volle fare alle soglie del Duemila. Ognuno ha redatto la sua proposta muovendo da una disamina quanto più oggettiva della propria condizione esistenziale, in questa società, in questo millennio.

Tutte le argomentazioni sono state raccolte in un ebook che è un campionario prezioso: se ne ricava una mappatura di domande esistenziali, paure, slanci, aspettative e un gran bisogno, per questa giovane generazione, di “esserci”, di non negarsi al confronto con la storia. Le argomentazioni sono organizzate in sei categorie (sei, come le Proposte di Calvino), individuate dagli studenti sulla base delle costanti tematiche emerse con maggiore insistenza e per noi chiavi di accesso al loro bisogno di senso che, più che ogni altro bisogno, siamo tenuti a comprendere, motivare, rilanciare:

  1. Gratuità, “agire e compiere scelte senza motivazioni utilitaristiche ed economiche”
  2. Empatia, “allenamento dei sensi e della sensibilità a ciò che ci circonda con strumenti alla portata di tutti”
  3. Profondità, “in antitesi alla superficialità; interesse, impegno, cura per qualcuno o per qualcosa”
  4. Responsabilità, “capacità di scegliere di fronte ai grandi eventi”
  5. Conoscenza, “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”
  6. Creatività, “ipotizzare alternative agli stereotipi e alle convenzioni”

Ora, è indubbio che la realizzazione di un “prodotto” possa servire da incentivo, soprattutto per quanto concerne il coinvolgimento degli studenti e la “tenuta” dell’attenzione. Tuttavia non credo che il conseguimento della competenza letteraria stia nel prodotto, nel “gioco” più o meno variegato che riusciamo a mettere in piedi per i nostri studenti, nella spettacolarizzazione dei risultati; in breve: non credo che la competenza stia nel fare.

Fare esperienze simboliche

A un Convegno MOD (Catania, giugno 2016), ascoltai Pietro Cataldi ricondurre le difficoltà di approccio dei giovani alla Letteratura a una sostanziale povertà di “esperienze simboliche”. E’ un’indicazione forte, utile a tratteggiare il profilo di una generazione appiattita su una dimensione esistenziale che (certamente non per sua esclusiva responsabilità, ma qui l’analisi, pur necessaria, ci porterebbe lontano) dell’esistenza sembra smarrire proprio l’ipotesi prospettica delle “sei proposte” di Calvino. Non è un caso che fra le Proposte degli studenti una sia intitolata “Profondità in antitesi a superficialità”. A me sembra che, se ci sia un risultato realmente spendibile in questo percorso, esso risieda nell’opportunità vorrei dire esistenziale che è stata data agli studenti di rimettere in prospettiva gli eventi della loro vita, di “ribaltare le convenzioni culturali”, “i luoghi comuni sensoriali”, per dirla con Walter Siti[3], di vedere quello che Ernst Bloch chiamava “il rovescio delle cose”, di fare delle “esperienze simboliche”; un’opportunità che giace almeno su due livelli. 

La forma dell’argomentazione/1: a lezione da Elsa Morante

Il primo è formale. E’ la forma – prima di tutto – che è stata presentata ai nostri studenti come strumento di simbolizzazione di un’esperienza. Talvolta i libri di testo, soprattutto quelli destinati al primo biennio, quando gli strumenti argomentativi andrebbero somministrati, sono – se non fuorvianti – di una rigidità imbarazzante riguardo alla prassi della argomentazione, quasi che “argomentare” significasse soltanto sostenere una tesi in contrapposizione a un’antitesi e che, annientata l’antitesi, trionfasse deterministicamente la tesi; quasi che l’annullamento dell’antitesi significasse necessariamente la solidità della tesi.

Ora, il saggio di Morante nel titolo si presenta esattamente con i caratteri oppositivi di cui si diceva. E tuttavia, procedendo nella lettura guidata, lo studente si accorge presto che l’argomentazione non c’è: messo sull’avviso dall’impianto oppositivo, s’aspetta di trovare ragioni solide e buoniste contro l’atomica e di leggere quelle scandalose pro.  E non ce le trova, perché in realtà la domanda del titolo è solo esteriore, ne sottintende altre ben più sostanziali, cioè le domande sul “rovescio delle cose”. Non è la bomba atomica o il nucleare il centro d’emanazione dell’interrogativo, ma i processi che hanno condotto a ritenere il nucleare la “soluzione definitiva”. E’ su questi processi che la generazione che chiude il secolo breve è chiamata a interrogarsi e a schierarsi: la bomba atomica non è che l’esito vistoso e terrificante di un processo di disgregazione materiale e morale. La struttura argomentativa di Morante pertanto scardina le forme della logica simmetrica (“ribalta le convenzioni culturali”) che gli studenti s’aspettano e insegna loro le linee di percorrenza oblique, spezzate, segmentate di un ragionamento che deliberatamente infrange la compostezza dell’opposizione canonica tesi/antitesi, spesso legata ai “luoghi comuni sensoriali”, per scardinarli formalmente e contenutisticamente alla ricerca del “rovescio delle cose”.

La forma dell’argomentazione/2: a lezione da Leonardo Sciascia

Apparentemente meno spiazzante sotto il profilo della forma è stata per gli studenti la lettura di Sciascia; qui la struttura argomentativa si mostrava loro mascherata sotto l’impianto narrativo, apparentemente destinato a un’indagine, a una ricostruzione quasi da investigatore: quanto di più razionale e deterministico uno studente riesca a immaginare, confermato dall’aggettivo “illuminista” che ancora spesso si associa a Sciascia, confondendone passioni e inclinazioni. Ma Sciascia (scriveva Moravia) “era un illuminista paradossale”: “procedeva con il metodo opposto a quello dei suoi amati illuministi: questi andavano dal mistero alla verità e alla razionalità; Sciascia andava invece dalla verità e dalla razionalità al mistero”. [4]  E a confermare il paradosso basti la lettura del sottofinale dell’indagine vera o presunta, quello che dovrebbe convincere con prove solide e schiaccianti chiamando in causa testimoni-chiave, nomi eccellenti eppure incredibili – Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda – colpevoli a loro volta, come l’Ulisse dantesco, del reato di mito.

Preparandosi a «una» morte o «alla» morte, preparandosi a una condizione in cui dimenticare, dimenticare ed essere dimenticato (che è della morte vera e propria ma può anche essere della morte soltanto anagrafica, se si ha l’accortezza o la vocazione di non tornare a intricarsi con «gli altri», […]; accortezza o vocazione di cui mancò del tutto Mattia Pascal ed ebbe invece, più di vent’anni dopo, Vitangelo Moscarda […]); preparando dunque la propria scomparsa, […] crediamo baluginasse in Majorana […] la coscienza che i dati della sua breve vita, messi in relazione al mistero della sua scomparsa, potessero costituirsi in mito. La scelta – di apparenza o reale – della «morte per acqua», è indicativa e ripetitiva di un mito: quello dell’Ulisse dantesco. E il non far ritrovare il corpo o il far credere che fosse in mare sparito, era un ribadire l’indicazione mitica. Già lo scomparire ha di per sé, e in ogni caso, un che di mitico. Il corpo che non si trova e la cui morte, non potendo essere celebrata, non è «vera» morte; o la diversa identità e vita – non «vera» identità, non «vera» vita – che lo scomparso altrove conduce, entrando nella sfera dell’invisibilità, che è essenza del mito, obbligano a una memoria, oltre che burocratica e giudiziaria (la «morte presunta» viene dichiarata a cinque anni dalla scomparsa), di pietà insoddisfatta, di implacati risentimenti. Se i morti sono, dice Pirandello, «i pensionati della memoria», gli scomparsi ne sono gli stipendiati: di un più ingente e lungo tributo di memoria.

La “dimostrazione” di Sciascia, insomma, in prima battuta rassicurante per gli studenti, perché costruita su quella che a loro pare la linea robusta e sequenziale di una narrazione quasi poliziesca, rivela invece – proprio là dove si tirano le somme – un profilo beffardo e sovversivo e insegna loro due cose fondamentali: in primo luogo che la argomentazione è anche (per non voler dire necessariamente) narrazione, poiché impone di fatto di ripercorrere gli eventi orchestrandoli in modo che, fatto salvo a garanzia del vero il “tempo della storia”, il “tempo del racconto” privilegi poi l’intreccio sulla trama, anticipando, posticipando o comunque attraversando gli eventi a secondo della ipotesi da formulare, più che della tesi da dimostrare. In secondo luogo – appunto – che la “dimostrazione”, il problem solving, non è l’unica finalità di un’argomentazione, come nei teoremi; piuttosto, nella sua accezione più squisita, essa consiste in un problem raising, nella formulazione – come già abbiamo visto con Morante – di altre domande, di ipotesi, di proposte.

La forma dell’argomentazione/3: a lezione da Italo Calvino

Le proposte sono espressamente menzionate nel sottotitolo delle Lezioni americane di Calvino, che, nella Premessa, ne precisa lo scopo. Questa è innanzi tutto un’indicazione metodologica molto forte per i nostri studenti, la maggior parte dei quali, messa di fronte alla prova argomentativa, al primo biennio risponde in prima battuta con una esposizione di “quello che sa” intorno al tema su cui è richiesto di esprimere un’opinione; atteggiamento che si mantiene anche quando – più grande – dispone dei cosiddetti “documenti”, di cui finisce col fare spesso un insensato patchwork. Calvino invece non solo fa una precisa dichiarazione di intenti (“Vorrei dunque dedicare queste mie conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio”), ma, nello svolgimento delle sue “argomentazioni”, mostra quale uso possa farsi dei “documenti”, nel suo caso dei documenti della letteratura, e lo fa in due modi: attraverso la narrazione della letteratura e attraverso la riappropriazione della letteratura. Non può sfuggirci il valore aggiunto che assumono tanto la prima quanto la seconda operazione nella nostra prassi di docenti. La prima ci insegna innanzi tutto quel che già abbiamo visto emergere in Morante e Sciascia, cioè che l’argomentazione in realtà è anche narrazione; la seconda ci induce a rivedere la categoria di “riappropriazione” che corre seriamente il rischio di svuotarsi, nella vulgata della didattica per competenze, del suo senso reale. Quel senso Calvino lo restituisce intatto al termine di ciascuna Lezione ed è cosa tutta diversa dai meccanismi blandamente identificativi o – parola sempre pericolosa – attualizzanti, che appiattiscono il passato sul presente senza restituirne lo spessore, in un’ottica narcisista priva di aperture prospettiche. Al contrario in Calvino, proprio come dichiarato quasi programmaticamente nella premessa, il racconto della letteratura serve a suggerirne proprio la dimensione prospettica, quasi fosse strumento di misurazione di un “vicino” e di un “lontano” che sfugge alla valutazione dei parametri comuni, sensoriali e contingenti. La riappropriazione della letteratura, vorrei dire dei materiali letterari, suggerita da Calvino lavora insomma proprio nella direzione della costruzione delle “esperienze simboliche”, aprendo agli studenti la strada non al ridimensionamento dell’evento-simbolo rappresentato dalla letteratura nel proprio piccolo e contingente evento privato, ma al contrario alla possibilità di rilancio della propria esperienza individuale dentro l’esperienza universale, come ci dicono molte pagine esemplari. Sempre, comunque, la riappropriazione calviniana dei materiali letterari lavora in direzione opposta alla autoreferenzialità del lettore, fino all’auspicio esplicito di

un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…

Quest’ultima citazione da Calvino mi offre lo spunto per passare velocemente al secondo piano, dopo quello formale e metodologico, sul quale mi pare sia stata offerta agli studenti l’opportunità di fare “un’esperienza simbolica”. Questo secondo piano lo definirei contenutistico.

Il contenuto di un’argomentazione

I tre saggi insistono su contenuti certamente limitrofi, ma non sovrapponibili: “parlano di cose simili” direbbero i nostri allievi, ma non dicono “la stessa cosa”; e la forma diversa che ognuno dei saggi assume conferma quale sia il nucleo reale di attenzione di ciascuno: “le origini biografiche”, “i riposti motivi” della disgregazione atomica (Morante), la scomparsa dello scienziato come prefigurazione del “mito del rifiuto della scienza” (Sciascia), gli universalizzanti – come abbiamo appena visto – “valori della letteratura”, situati nella “prospettiva del nuovo millennio” (Calvino). Eppure tutti e tre rappresentano altrettante risposte al vuoto esistenziale spalancatosi con l’esperienza devastante delle due Guerre, culminate nell’evento-simbolo della bomba atomica. Potremmo dire che ognuno ci consegna un aspetto, un profilo diverso di quell’esperienza nella misura in cui riesce a farne il simbolo di una condizione esistenziale.

Tutti sanno ormai che nella vicenda collettiva (come nella individuale) anche gli apparenti casi sono invece quasi sempre delle volontà inconsapevoli (che, se si vuole, si potranno pure chiamare destino) e, insomma, delle scelte. La nostra bomba è il fiore, ossia la espressione naturale della nostra società contemporanea, così come i Dialoghi di Platone lo sono della città greca; il Colosseo, dei Romani imperiali; le Madonne di Raffaello, dell’Umanesimo italiano; (…) si direbbe che la umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi. (E. Morante)

Il “portare” poi la scienza come parte di sé, come funzione vitale, come misura di vita, doveva essergli di angoscioso peso; e ancor più nell’intravvedere quel peso di morte che sentiva di portare, oggettivarsi nella particolare ricerca e scoperta di un segreto della natura: depositarsi, crescere, diffondersi nella vita umana come mortale. In una manciata di polvere ti mostrerò lo spavento, dice il poeta. E questo spavento crediamo abbia visto Majorana in una manciata di atomi. (L. Sciascia)

Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola (…). Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media-cultura. (…) Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e le storie delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita (…). (I. Calvino)

Il disagio calviniano “per la perdita della forma” è anche dei nostri studenti, come rivelano facilmente le loro argomentazioni. A loro questo percorso di ricerca-azione ha suggerito la possibilità di superare la contingenza “informe, casuale, confusa” delle loro microstorie trasformandole in altrettanti simboli di una condizione esistenziale condivisa. L’esperienza contingente di ognuno è comunque esperienza storica e può essere simbolizzata. Non è necessario aver vissuto la bomba atomica per capire la portata del simbolo: così dalla claustrofobica dimensiona narcisistica e autoreferenziale della propria condizione si può venir fuori cercando simboli attraverso cui rendere quella condizione universale, liberi dal qui e dall’adesso di una contingenza ridicola.

L’arte (e in particolare la Letteratura), già chiamata in causa da Morante come strumento per “impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo”, per “restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale”, si accredita in questa sua funzione inveratrice nel racconto dell’indagine di Sciascia per arrivare poi al suo riconoscimento più esplicito con Calvino, al quale consegno le conclusioni di questa riflessione e il senso riposto di un progetto di ricerca-azione.

L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo. La poesia è la grande nemica del caso, pur essendo anch’essa figlia del caso e sapendo che il caso in ultima istanza avrà partita vinta.

[1] Bando MIUR DM. 15/06/2015.

[2] L’articolo restituisce una parte di una più vasta esperienza di ricerca-azione, maturata in seno a un lavoro svolto in rete da cinque scuole aderenti al bando. Cfr. Atti XX Congresso nazionale ADI, La letteratura italiana e le arti, Napoli 7-10 settembre 2016.

[3] Cfr. W.Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, Roma 2013, pp.10-11

[4]  A. Moravia, Un illuminista alla rovescia, Il corriere della Sera, 21 novembre 1989

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