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diretto da Romano Luperini

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L’uso della vita. Il ’68 di Romano Luperini

 

 A cinquant’anni di distanza da uno degli snodi più significativi della storia recente, l’editore Solfanelli pubblica il volume Il ’68. Costruzione e decostruzione di un mito, a cura di Sandro de Nobile. I sedici saggi compresi nel volume tentano da un lato di ricostruire l’eredità che il ’68 ha lasciato all’interno di particolari settori artistici (la poesia e il teatro), dall’altro di analizzare come il movimento sia stato osservato, metabolizzato e cristallizzato nel racconto dalla stessa poesia, dalla narrativa, dalla canzone d’autore, dal cinema, strumenti fondamentali nella costruzione di un mito che ancora oggi divide, tra esaltazioni, riduzioni e stigmatizzazioni. La redazione, per gentile concessione dell’editore, è lieta di pubblicare il saggio di Roberto Contu dedicato al romanzo di Romano Luperini, L’uso della vita, Transeuropa, 2013.

Il Sessantotto lontano

Nato nel 1976, appartengo a quella parte della mia generazione che ha ricevuto in dote con la prima giovinezza il mito[1] già trentennale e pronto per i due decenni a venire di un Sessantotto narrato, celebrato, immaginario formidabile di un tempo solo da benedire, fascinazione per una leva che visse l’eden dell’età ribelle, battagliera, militante, eden della rivoluzione che riflussi, muri andati in pezzi, televisioni private avrebbero poi a noi negato. Per quelli come me che iniziavano a tentare l’essere adulti in un mondo nostro malgrado post-ideologico, il richiamo di quel tempo fu forte, fortissimo, tanto da lasciarci indifesi e anzi docili alla sedimentazione di un patrimonio simbolico che ci avrebbe ammaliato nel suo splendore, che ci avrebbe blandito nella malinconia della sua irriproducibilità, che in ragione di un’epica della storia ostentata ci avrebbe per anni lasciati prigionieri dell’abbraccio letale che ogni epica può portare in sé: la perdita della complessità e della possibilità della conoscenza critica. Noi stessi ci saremmo fatti poi strumenti di questo paradosso, non solo come consumatori di quelle storie che continuavamo a chiedere a chi era assurto ad aedo del mito, ma iniziando ad accettare narrazioni di narrazioni[2], affreschi di suggestioni, mitologie letterarie, senza più ipotizzare la necessità del racconto oggettivo e libero di chi il Sessantotto l’aveva effettivamente fatto ma non aveva voluto farlo continuare a vivere di una vita che non fosse la sua. Quarantacinque anni dopo l’annus mirabilis sarebbe però comparsa una delle poche eccezioni, quello che Paolo Di Stefano[3] ha definito «l’unico vero romanzo storico sul Sessantotto», L’uso della vita. 1968 (Transeuropa, 2013) scritto da Romano Luperini, il quale attraverso la lente paradigmatica di uno dei Sessantotto più importanti a livello mondiale, quello pisano, indicava attraverso l’invenzione letteraria e la ricostruzione storica una porta d’accesso diretta alla conoscenza finalmente credibile dell’anno del maggio.    

 

La storia di Marcello

La terza prova narrativa di Romano Luperini, dopo I salici sono piante acquatiche (Manni, Lecce 2002) e L’età estrema (Sellerio, Palermo 2008), racconta le vicende fra il febbraio 1968 e gennaio 1969 di Marcello, ventiquattrenne appena laureato e supplente precario, che partecipa agli eventi del Sessantotto pisano. Il romanzo si apre con la stretta scrivania dietro la quale sono seduti tre dirigenti comunisti che processano il giovane, reo avere attaccato la linea del partito. Marcello volta loro simbolicamente le spalle e si lascia andare all’abbraccio totale verso il mondo nuovo che sta esplodendo. Le assemblee affollate e gli amici, il conflitto delle idee e il mistero complicato del sesso, gli operai diffidenti e i cortei insieme agli studenti, tutto concorre soprattutto nella prima parte del libro (e dell’anno) a fare sentire Marcello dentro quell’intensità, quel concentrato di eventi straordinari essi stessi forma e sostanza del «pieno della vita»:

C’era una corrente nel mondo e lui ne faceva parte. Tutto il mondo era coinvolto e si muoveva, l’offensiva dei vietcong in Vietnam, la Cuba di Castro e di Che Guevara, la Cina di Mao, gli studenti e i neri americani, la manifestazione pacifista di Washington, la primavera di Praga, i Beatles e i Rolling Stone, la scuola di Barbiana e i cattolici del dissenso, lo sciopero attivo di Trento, e poi la battaglia di Valle Giulia, la reazione all’assalto dei fascisti all’università di Roma…(…) Ecco pensava Marcello, ho sempre cercato l’intensità e l’intensità ora è qui, a portata di mano.[4]  

La leggerezza e la gioia di esserci diventano addirittura plastiche nella scena degli studenti che si fanno sgomberare a peso morto dalla facoltà, tra intrecci di gambe e braccia all’aria, sussulti di risa e sberleffi ai poliziotti. È il momento dell’idillio tra Marcello e Ilaria, studentessa romana e musa kirchneriana arrivata per conoscere il movimento toscano, ma è anche il momento della crisi del rapporto bloccato tra Marcello e la militante severa (ancora prima che fidanzata) Sandra; è infine il momento della notte perfetta e delicata di Marcello e Ilaria nella facoltà di Magistero in una Roma incantata, tutta degli studenti («Dopo valle Giulia», spiegava lei, «tutto è cambiato, Roma è nostra, non è più quella di prima»[5]), accarezzata dalle canzoni dei Rolling Stones e di Ivan Della Mea. A partire dalla seconda metà del romanzo si assiste però alla virata problematica della vicenda, correlativa di un progressivo incupirsi del clima storico. Il dissidio tra Marcello e Ottavio sul tema dello scontro inevitabile, l’immagine fuoricampo di Torino come luogo del passo ulteriore e la domanda sulla violenza, sul «decidere se cominciare a pensarci»[6], sono soggetti a un primo e duro atto di verifica nei disordini alla stazione di Pisa durante la manifestazione del 15 marzo 1968 nella quale Marcello viene arrestato. Le porte del carcere si aprono così per il giovane su una nuova fase del proprio Sessantotto, quella in cui constata una definitiva rottura con le generazioni precedenti, resa simbolica dalla consapevolezza dell’alterità del proprio destino, anche carcerario a confronto con quello dei prigionieri antifascisti. Ma è anche la fase in cui per la prima volta Marcello si ipotizza embrionalmente lui stesso futuro padre degli studenti liceali che gli scrivono solidali, quella che soprattutto lo vedrà, una volta uscito di galera, prendere coscienza del proprio nodo intimo al cospetto della figura paterna sul letto di morte:

Uscì, gli sembrava di barcollare. Solo dopo pensò che la lunga penosa contesa che li aveva divisi riguardava la stima che ognuno dei due voleva strappare all’altro, un giudizio di valore, solo un giudizio di valore da cui però dipendeva il senso della loro vita.[7]

L’addensarsi del conflitto con i tanti padri che la generazione di Marcello si trova a uccidere (e che costituirà uno dei temi centrali del successivo romanzo di Luperini, La rancura[8]), il passaggio dalla luminosità della prima fase alla nebbia spessa della parte finale dell’anno, la percezione lucida della perdita collettiva dell’innocenza del movimento, si sostanziano narrativamente nell’ultima parte del romanzo nella vicenda privata e dolorosa dell’aborto di Ilaria e nella prima irruzione di una nuova violenza, di tutt’alto segno rispetto le scaramucce precedenti, manifestatasi drammaticamente nei fatti del capodanno 1969 della Bussola di Focette. Il 1968 di Marcello si chiuderà con la negazione amara della leggerezza di Ilaria e di quella speculare del giovane Soriano Ceccanti, per sempre rattrappita nella paralisi causata da uno di primi spari ad altezza d’uomo, che continueranno poi tragicamente a rimbombare per tutto il decennio successivo:

Il Sessantotto era finito, ed era finito come se avesse perduto per via buona parte della sua leggerezza (…). Marcello pensava alla leggerezza di Soriano, non era incerta né svagata, ma a suo modo decisa, orientata a una meta. L’aveva ritrovata in Ilaria, nei gesti e nei movimenti dei compagni, nelle facoltà occupate e davanti alle fabbriche, e persino in sé stesso. Ecco, l’uso formale della vita non era altro che questo.[9] 

La Storia e Marcello

L’uso della vita. 1968 è costruito secondo il codice del romanzo storico e se in questo caso si è voluto dare prima conto del piano della finzione, resta una narrazione mista, unicum inscindibile di invenzione ed eventi e personaggi storici. Il corso della vicenda isola di volta in volta lacerti, fatti, personaggi reali che il lettore sente di potere incontrare con il favore di una luce percepita come onesta e perciò veritiera. Alcune figure in particolare snodano la propria presenza nell’intero romanzo, delimitando con solchi continui i margini della strada all’interno della quale si muove Marcello. Il primo è senz’altro il personaggio di Adriano Sofri, piccolo, snello, mobilissimo e mai quieto, agitatore continuo ed enigmatico, insofferente a qualsiasi stasi attendista, perennemente proteso verso il tutto e subito. Sofri è ritratto sempre nel fuoco delle azioni, dalla scena dello sberleffo ai crumiri durante gli scioperi a Massa, a quello dove si pone alla guida del corteo poi represso alla stazione di Pisa. Ma Sofri è anche uno dei reagenti principali delle riflessioni sull’identità del movimento, di quelle che si interrogano su quali direzioni avesse dovuto prendere:

«Vedi Gianmario» disse dolcemente e ferocemente, «il problema non è porsi alla testa delle masse, ma essere la testa delle masse. Si tratta di capire che non si prende il potere per conto del proletariato e dell’umanità, come è stato fatto sinora, ma che è il proletariato a prendere il potere. Direttamente. Senza deleghe al partito, senza mediazioni».[10]

Il protagonismo del personaggio Sofri è inoltre decisivo anche per il tema della relazione del movimento con il mondo culturale circostante, a partire da quegli intellettuali prossimi come Franco Fortini. La rappresentazione nel romanzo di quest’ultimo è preziosa e ricca di suggestioni. Nel quinto capitolo Marcello ricorda un momento decisivo per il movimento che vide Fortini protagonista, la manifestazione per il Vietnam del 23 aprile 1967 tenutasi a Firenze:

Aveva visto per la prima volta Fortini un anno prima. A Firenze, un giorno d’aprile del 1967. Tutto era cominciato allora. Ed era cominciato, lo ricordava bene, con una grande meraviglia e una felicità improvvisa. (…) E poi nella piazza quei fischi, quella tempesta di fischi – tutta la piazza un fischio solo – agli oratori ufficiali, e quel silenzio improvviso quando la testa di Fortini spiccò sul palco, e quelle parole, «Sul Vietnam non ci si unisce, ci si divide», che scorrevano fredde sulle schiene.[11]

È interessante ricordare come storicamente nel 1971 Fortini avesse rievocato sulla rivista «Che fare» quella serata:

Lessi allora quei foglietti con impeto. Il consenso mi parve molto grande. Quando ebbi finito, non una sola delle persone o personalità che affollavano il palco mi disse una parola. Tutti erano sdegnati o seccati che avessi così trasgredito alle regole del gioco. Ne ebbi la prova pochi giorni dopo quando «Rinascita» chiamò delirante quel mio intervento, dando il via a una serie di preveduti attacchi.[12]

L’intervento di Fortini era stato dirompente. Pronunciato al calare della sera, tra le fiaccole degli studenti, in un clima di tensione palpabile che il critico avrebbe esasperato a mezzo di un incipit diretto e senza termini:

«Mi sono chiesto di cosa si stia veramente parlando / e credo che la ragione del nostro discorso / non sia solo l’atteggiamento da consigliare a noi e agli altri / per la guerra in Vietnam / ma sia: l’uso della violenza»[13].

L’effetto di quella che fu vera e propria poesia pubblica, concitata e con un finale quasi urlato, fu deflagrante, per i giovani presenti allora storicamente a Firenze, ma anche per Marcello che nel romanzo, proprio dopo quel momento più che simbolico, incontra Sandra:

Poi fu il tonfo sordo dei lacrimogeni, il sibilo delle camionette in piazza Duomo, i carabinieri che roteavano le loro bandoliere bianche, lo sciame dei ragazzi in fuga nei vicoli. Si ritrovò con una sconosciuta nel portone in cui aveva cercato scampo. (…) Era stato così che aveva conosciuto Sandra.[14]

Ma il personaggio di Fortini è anche paradigmatico della rottura che l’anno del maggio cristallizzò tra due generazioni che persero definitivamente contatto e riconoscimento reciproco. Marcello e Ottavio vanno a trovare Fortini subito dopo Valle Giulia e Il PCI ai giovani!. Fortini, che predica la rivoluzione ma arranca lentissimo con il suo maggiolino per raggiungere in collina una trattoria, sostiene con Sofri nel quinto capitolo un duro scontro sul tema della funzione dell’intellettuale, proprio a partire dalla querelle con Pasolini nella quale l’autore di Verifica dei poteri aveva liquidato l’ex-amico[15] con parole percepite da Marcello come geniali: «Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte»[16]. Sarà Fortini, che a causa del terremoto sessantottesco si troverà a dovere licenziare una nuova prefazione di Verifica dei poteri proprio sulla ridefinizione del mandato, a fornire nell’ultimo capitolo a un Marcello oramai diverso la chiave di lettura di quell’anno straordinario:

«La forma» concluse, «è attributo delle classi dominanti e insieme anticipazione dell’uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo». L’uso formale della vita, l’uso formale della vita, si ripeteva Marcello seduto sul vagone del ritorno, adeguando il ritmo della formula a quello del treno e nello stesso tempo cercando di afferrarne sino in fondo il significato.[17]

Se Franco Fortini e Adriano Sofri sono i due personaggi storici più caratterizzati, altrettanto significativo, anche se più laterale nel dispositivo narrativo, è il personaggio di Massimo D’Alema, giovane rappresentante di quello stesso apparato di partito che all’inizio della storia mette sotto processo il giovane Marcello. La presenza del futuro leader politico è sempre contraddistinta dalla capacità di sapere scivolare indenne sulle contestazioni continue a cui è sottoposto. L’ultima apparizione, nel dodicesimo capitolo, lo vede allontanarsi beffardo in automobile insieme alla fidanzata Gioia dalla zona dei disordini alla Bussola, in direzione opposta a quella di Marcello che tenta di raggiungere i compagni, non senza prima avere offerto anche a lui una comoda via d’uscita:

«Oramai la situazione è degenerata… I tuoi amici stanno facendo le barricate. D’altronde è l’unica cosa che sanno fare» rispose beffardo D’Alema. «Ma la polizia spara… Ho visto le fiammate degli spari» obiettò lei. «Meglio andarsene subito da qui, vuoi un passaggio?» aggiunse. «No, ho la macchina» disse lui. Ma aveva già deciso di andare avanti.[18]

Un discorso a parte meriterebbe invece la figura del giovane Soriano Ceccanti, tragico protagonista storico dei fatti della Bussola e del finale del libro, ma decisivo ancora prima nel fare percepire a Marcello un ulteriore futuro iato tra la propria generazione, comunque appesantita dal conto politico pagato alla generazione dei padri, e quella successiva che un giorno si sarebbe presa la scena in quell’esperienza assolutamente altra dal Sessantotto che fu il Settantasette. Altri personaggi storici noti sono infine presenti con apparizioni più fugaci. Tra questi vale la pena ricordare la figura di Luciano Della Mea, contraltare mite dell’esuberanza di Sofri, ma anche quella di uno dei futuri ricusatori dell’anno del maggio, quel Giampiero Mughini che viene liquidato da Marcello con un gesto senza appelli:

Quando due giorni dopo gli arrivò una lettera di Giampiero Mughini, che cominciava «Quando ho letto la notizia del tuo arresto sul giornale, ti confesso che il primo sentimento che ho avuto per te è stata l’invidia», appallottolò il foglio e lo gettò nel cesso-lavandino senza proseguire la lettura.[19]

Oltre alla credibilità della rappresentazione dei personaggi storici noti e di alcuni personaggi non noti con nome fittizio (ma presumibilmente in toto o in parte specchio di persone reali), i quali tutti interagiscono con la componente d’invenzione della storia particolare, il libro ha il pregio di offrire un affresco credibile anche della grande storia del Sessantotto. Nel 1988 Peppino Ortoleva aveva riconosciuto in un importante saggio[20] come tratto peculiare del Sessantotto l’avere fatto irrompere attraverso i giovani il respiro della mondialità nella società italiana. Questo tema è fondamentale nel romanzo, a partire dalla radice stessa dell’incomunicabilità tra la militanza di Marcello e quella ancora resistenziale di suo padre:

«Voglio dirti due parole sole» disse alla fine il padre. Marcello smise di masticare e lo guardò. «Ricordati che il partito può avere torto o ragione, ma al di fuori del partito non potrai fare nulla e sarai sempre solo e disarmato, sarai un povero ragazzo fuori dal mondo e dalla storia». «Non mi pare d’essere solo», non poté trattenersi. «Hai visto in America Latina?» disse rabbiosamente, «E il Black Power negli Stati Uniti? E in Francia, in Germania? E in Cina? Hai visto in Cina la rivoluzione culturale? Nel mondo non esiste solo il partito comunista italiano…», ma non continuò.[21]

La sfondo reale della narrazione è così non soltanto la Pisa universitaria a tratti splendidamente descritta, né gli altri luoghi periferici e non che Marcello attraversa, quanto il mondo intero che si palesa vivo e pulsante in ogni respiro dei giovani protagonisti. Il terzo capitolo offre ad esempio un documento (impressionante per l’oggi) della capacità di urto e penetrazione delle coscienze del tempo di eventi lontani, eppure tremendamente vicini per i giovani d’allora, come il massacro di My Lay:

Carla diceva: «Bisogna fare una manifestazione, bloccare il traffico, paralizzare la città, tutti devono riflettere su quello che sta accadendo nel mondo… Non possiamo essere corresponsabili. Abbiamo una base americana qui vicino, Camp Darby a Tirrenia, non facciamo nulla?».[22]

Le forme della lotta d’emancipazione dei neri d’America diventano essenza stessa del dissidio lacerante che finirà per dividere le strade di Marcello e di Ottavio: «penso che abbia ragione Malcom X quando obietta a Martin Luther King: tu vuoi sederti allo stesso tavolo dei bianchi, noi lo vogliamo rovesciare»[23]. Anche in carcere, durante l’ora d’aria, i protagonisti trovano conforto nelle notizie continue di un mondo in subbuglio: non solo la Cina, non solo l’America ma anche la Cecoslovacchia, il Quartiere latino a Parigi, e anche l’Italia, non più provincia ma rivolta tra le rivolte del mondo. Proprio dal carcere Marcello si congederà ricevendo in dono da l’illetterato Gengio quel Diario di Che Guevara letto e riletto da tutti, segno dell’uso quotidiano della ricerca del mondo intero, un mondo da fare entrare fin nei recessi più intimi, tanto da farsi incubo notturno per Marcello dopo l’ennesima umiliazione dell’intimità sessuale patita con Sandra, un incubo con il faccione rugoso e smisurato del presidente americano Lyndon Johnson.

Il Sessantotto vicino

Così Romano Luperini, da L’uso della vita, 1968, capitolo settimo, pagina 65:

È imbottigliato, preso tra due fuochi davanti e dietro. Si butta a capo basso fra i carabinieri che lo aspettano al varco roteando a mezza altezza le bandoliere con entrambe le braccia. Lo falciano alle gambe facendolo rovinare bocconi, gli sono addosso. Nella caduta il casco gli scivola di mano e ruzzola lontano.[24]

Così la sentenza del 12 giugno 1968; pres. Sanna P., Est. P. Funaioli; imp. Luperini ed altri, da Il Foro italiano, numero 10 dell’ottobre 1968, pagina 472:

Il Luperini dev’essere assolto con formula ampia. Risulta che fu arrestato perché portava l’elmetto e fu visto fuggire dal luogo degli scontri proprio in direzione delle forze dell’ordine. Nel fuggire cadde. Non oppose resistenza neppure al momento dell’arresto (testi Moschella e Garofalo). L’accusa si basa unicamente sull’arbitraria presunzione che l’elmetto protettivo sia strumento di violenza.[25]

Così Erich Auerbach, da Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, pagina 19:

Per collocare nel giusto rapporto la vita e l’opera occorre personale esperienza, discrezione e una ampiezza di vedute ricavata da una conoscenza molto precisa del materiale. Ma in ogni caso ciò che noi in un’opera comprendiamo e amiamo è l’esistenza di un uomo, una possibilità di noi stessi.[26]

Romano Luperini ha vissuto il Sessantotto e dopo quarantacinque anni l’ha voluto raccontare. Che ne abbia fatto «personale esperienza» è nei fatti, è nella sua storia di militante e intellettuale che tutti conosciamo, lo è anche in quella sentenza di assoluzione che sembra davvero, tanto più se letta per intero, arrivare da un tempo remotissimo. L’uso della vita, 1968 è anche in grado di comunicare, in modo cristallino e fin dalle prime pagine, quella «discrezione e ampiezza di vedute» che lo scrittore rivendica nella nota finale come «assenza di giudizio» e imperativo di non sovrapporre uno sguardo «distanziante o sentenziante»[27]. Il merito non è da poco, non tanto a conferma della bellezza di questo romanzo o del valore del Luperini narratore, quanto per il servizio che un libro di questo livello offre oggi a noi tutti. L’uso della vita, 1968 è un’opportunità conoscitiva preziosa di cosa fu veramente il 1968 nella storia del nostro Paese, lo è per la potenza di essere letteratura autentica, consegna al lettore una chiave rara per interpretare in modo onesto alcune delle questioni più affossate dalla stratificazione ideologica successiva: quale fu la parabola del movimento, che rapporto ci fu fin dall’inizio tra la possibile deriva violenta e la scelta della lotta politica istituzionale. E ancora, di che portata fu lo snodo di una generazione che per la prima volta disconosceva apertamente i propri padri, come reagì un tessuto sociale atavicamente costretto nei propri confini culturali all’irruzione della mondialità, come sarebbe cambiato il significato stesso della dimensione politica nella vita delle persone. Domande importanti, alle quali il libro sa e vuole rispondere, e le cui risposte noi sappiamo di potere ascoltare, in ultima ragione perché, come indica Auerbach, comprendiamo «l’esistenza di un uomo», dello scrittore che ce le ha offerte, fino a diventare essa stessa una possibilità per noi stessi.


[1]Anche se già il ventennale aveva dato il via alla memorialistica di massa sul Sessantotto (il libro di Mario Capanna, Formidabili quegli anni esce nel 1988), è con il trentennale che le pubblicazioni si moltiplicano, a consumo di una generazione che aveva già sostituito del tutto il portato storico dell’anno del maggio con quello simbolico. Nel 1998 escono numerose pubblicazioni di larga diffusione, oltre a riedizioni di opere significative del 1988 come quella di Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’orda d’oro: 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 1997. Tra queste vale la pena ricordare, per la diffusione soprattutto tra un pubblico giovanile, l’onnipresente Mario Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano 1998; Jacopo Fo, Sergio Parini, ’68: c’era una volta la rivoluzione: i dieci anni che sconvolsero il mondo, Feltrinelli, Milano 1998; Antonio Longo, Dizionario del ’68: i luoghi, i fatti, i protagonisti, le parole e le idee, Editori Riuniti, Roma 1998.

[2]Un esempio di questo tipo è l’antologia curata da Raoul Montanari, Il ’68 di chi non c’era (ancora), Rizzoli, Milano 1998, dove undici giovani scrittori degli anni Novanta (Nove, Campo, Lucarelli, Pinardi, Janeczeck, Corrias, Doninelli, Voltolini, Scarpa, Pinketts) provano a raccontare l’annus mirabilis. Ma è soprattutto il romanzo di Andrea De Carlo Due di due, uscito nel 1989, a rappresentare un modello di narrazione di larga diffusione che si appoggia sull’immaginario sessantottesco.

[3] P. Di Stefano, La rivoluzione e la leggerezza. Due dimensioni incompatibili, «La Lettura», 8 ottobre 2017.

[4] R. Luperini, L’uso della vita. 1968, Transeuropa, 2013, p.32.

[5] Ivi, p.54

[6] Ivi, p.62

[7] Ivi, p.107

[8] R. Luperini, La rancura, Mondadori, Milano 2015.

[9] R. Luperini, L’uso della vita. 1968, cit., pp.137-138

[10] Ivi, pp.100-101

[11] Ivi, pp.47-48

[12] F. Fortini, Nota esplicativa a Una manifestazione per il Vietnam nel 1967: Un comizio, «Che fare», 8-9 maggio, 1971, ora in Saggi ed epigrammi, I Meridiani, Mondadori, Milano 2003, p. 1398.

[13] Ibid.

[14] R. Luperini, L’uso della vita. 1968, cit., p. 48

[15] Come noto, la vicenda legata all’uscita su «L’Espresso» de Il P.C.I. ai giovani! segnò la definitiva rottura del rapporto tra Fortini e Pasolini. La ricostruzione dettagliata della vicenda verrà fornita dallo stesso Fortini nel volume Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.

[16] R. Luperini, L’uso della vita. 1968, cit., p.48.

[17] Ivi, pp. 122-123

[18] Ivi, pp.127-128

[19] Ivi, p.77

[20] P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988

[21] R. Luperini, L’uso della vita. 1968, cit., p.24

[22] Ivi, p.31

[23] Ivi, p. 45.

[24] Ivi, p.

[25] Il Foro Italiano, Vol. 91, 10 (ottobre 1968), p. 472

[26] E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 2007, p. 19

[27] R. Luperini, L’uso della vita. 1968, cit., p. 139

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