Il crepuscolo dei verbomani
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Il melomane
Due anni fa sono stato nominato commissario esterno di Italiano per l’Esame di Stato. Come accade in questi casi, durante il lavoro della commissione ho fatto amicizia con gli altri commissari. Uno di loro, Simone, docente di Inglese, già dalle chiacchiere iniziali di circostanza, mi aveva detto di essere un melomane. Ho così passato venti giorni splendidi, durante i quali, nei momenti di pausa della commissione, sono stato ammaliato dai racconti fiume sulle sue classifiche delle migliori recite del Novecento, sulle arie più belle, ma anche sui pettegolezzi della trasmissione La barcaccia. La sensazione più forte, per me profano del mondo nobile dell’opera, è stata quella di potere parlare con qualcuno che oltre a darmi la sensazione di sapere tutto, bruciasse di una passione quasi misteriosa per un linguaggio a me indifferente o poco più. Perché il linguaggio dell’opera, almeno in Italia, appartiene nei fatti a una minoranza risicata, proprio per questo splendidamente appassionata, ma comunque minoranza ristretta e praticamente preclusa alle nuove generazioni. Un codice che invece nel XIX secolo non solo incendiava i cuori, ma era più che attuale, insomma era pane quotidiano dell’opzione estetica popolare della nascente società di massa. Un linguaggio oggi, a un secolo e mezzo di distanza, a uso e consumo solo di melomani e pochi altri, più o meno occasionali.
Il verbomane
Insegno letteratura da quindici anni, la studio da venticinque e ligio a uno dei più abusati mantra, mi sforzo alla morte per nove mesi all’anno affinché gli studenti leggano, ovvero si incendino per un canto di Dante, per una argomentazione machiavelliana, per un correlativo oggettivo di Montale. Più di una volta mi è capitato di sentirmi chiedere da loro «prof, ma lei come fa a ricordarsi tutto, come fa a sapere tutto». La risposta, di circostanza è ogni volta la stessa: «è il mio lavoro, mi ci pagano lo stipendio, è la mia passione». L’ultima osservazione suona per i miei ragazzi sempre come misteriosa. Perché il linguaggio della letteratura, almeno in Italia, appartiene nei fatti a una minoranza risicata, proprio per questo splendidamente appassionata, ma comunque minoranza ristretta e praticamente preclusa alle nuove generazioni. Un codice che invece nel XX secolo non solo incendiava i nostri cuori, ma era più che attuale, insomma era pane quotidiano dell’opzione estetica popolare della società di massa. Un linguaggio oggi, a pochi anni di distanza, a uso e consumo solo di verbomani e pochi altri, più o meno occasionali.
Dissimulazione
Per dissimulazione dovrei ammettere ora che si tratta di una provocazione. Dovrei dire che non intendo riaprire questioni ammuffite della genìa morte del romanzo, giovani che non leggono, difendiamo la cultura perché. Salto a piè pari (c’è chi ne parla da tempo e in modo infinitamente meno banale di come io potrei) e arrivo a un referto empirico. Come ho avuto già modo di dire, constato da insegnante che con la generazione nata negli anni Zero sia avvenuto un passaggio oramai definitivo e inculturante dal codice della parola a quello dell’immagine. I ragazzi che sono oggi nelle scuole superiori comunicano e soprattutto narrano la realtà attraverso un codice ontologicamente iconico (Instagram su tutto), anche nella sua versione che prevede un parziale utilizzo delle parole: WhatsApp è per i ragazzi comunque paratassi ridotta a meno del frammento, che non può comunque prescindere dalle emoticon. Questo snodo antropologico radicale viene sistematicamente derubricato da chi si occupa di scuola, letteratura, libri, a fenomeno di contorno che nei fatti va compreso, intercettato, governato ma che non mette poi in discussione lo statuto della cultura di cui tutti ci sentiamo depositari. Eppure il passaggio da un codice come quello della parola, per sua natura assertiva a un codice come quello delle immagini, intensivo, per natura capace di una zona d’ombra e di anarchia del pensiero e della suggestione, tanto più se del tutto svincolato dalla didascalia, è assolutamente rivoluzionario. Se noi continuiamo a scrivere libri, articoli, contributi come questo, se continuiamo a riempire wall of text in quella sorta di ospizio social che è diventato Facebook (oramai abbandonato dai ragazzi e abitato solo da trentenni in su), se al limite proviamo incerti a mettere i piedi su Instagram ma sempre aggiungendo pseudocommenti alla foto postata, segno di una paura inesorcizzabile di abbandonarsi al vacuum pieno della sola immagine, i ragazzi accelerano nel vedere la realtà, nel taggarla, nel farla diventare stories che spariscono, fedeli all’anarchia dell’istantaneità, dopo pochi secondi.
Come non vedere
In questo che è un cambio di codice radicale, come non vedere una messa in mora radicale, definitiva, senza precedenti di quello che è stato il nostro linguaggio, ovvero il linguaggio della parola? Perché i ragazzi non leggono più? Perché al netto degli sforzi di noi tutti la letteratura non ha più quella cassa di risonanza che, per lo meno in termini di fascinazione, io ricordo ai tempi del mio liceo quando anche il più pigro aveva comunque nello zaino una copia di circostanza di Jack Frusciante o di Siddharta? Si badi bene. Il fatto che i ragazzi leggano sempre meno non significa che non chiedano narrazioni, tutt’altro. I ragazzi si immergono in serie tv, i ragazzi giocano videogiochi che sempre più, nella miopia della critica anche letteraria, sono diventati vere e proprie esperienze narrative totalizzanti e assolutamente inclusive di ogni aspetto dell’esistenza, aprendo uno spazio di cittadinanza dell’immaginazione molto simile a quello che nel XIX secolo generò il grande romanzo europeo. I ragazzi leggono romanzi sì, ma che siano seriali e che contengano quella dimensione dell’epica della vita che la letteratura italiana contemporanea ha voluto connotare come letteratura consolatoria, di genere, facile. I ragazzi scrivono e si leggono tra loro in quella forma di scrittura assolutamente altra che è il work in progress su Wattpad. Insomma, i ragazzi fanno narrazione, fanno fiction, fanno letteratura ma non è più la nostra narrazione, non è più la nostra fiction, non è più la nostra letteratura.
Messa in mora
Al di là delle mille e lecite perplessità che un discorso del genere può e deve generare, credo che la questione sia cruciale. Mi capita spesso di assistere in rete, alla radio, sui social a dibattiti sul mondo dei libri, sul futuro della cultura, sul destino del romanzo, della poesia, della saggistica in Italia. La sensazione che provo ogni volta è quella di un continuo e volte anche testardo essere fuori fuoco. Per di più le bolle social, quelle specie di fortezze Bastiani che sono diventate le varie comunità letterarie, dove per il funzionamento stesso del medium, il dialogo si avvita (e si isola) sempre di più tra individui della stessa specie, contribuiscono a mio parere a generare questo distacco dal mondo reale che un insegnante con un minimo di occhio vede sedersi ogni mattina tra i banchi delle nostre scuole. Eppure qualcosa di grande sta avvenendo. Un po’ come nel mondo europeo a un certo punto si passò dall’oralità al silenzio della lettura, poi dal verso al capitolo, oggi è la parola stessa ad essere messa in mora. Lo stanno facendo questi ragazzi che, per sport di convenzione, noi adulti continuiamo a giudicare dei rincoglioniti su smartphone, ma che inesorabilmente se ne infischiano del nostro giudizio e lentamente vanno costruendo codici che personalmente ancora vedo come nebulosi, che spesso fatico a comprendere, che certo a volte mi preoccupano, ma che avverto come rottura radicale, rigetto di quello che è stato, domanda di quello che potrà essere.
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