L’uso della vita. 1968
Pubblichiamo due pagine tratte rispettivamente dal capitolo secondo e dal capitolo terzo del romanzo di Romano Luperini, L’uso della vita. 1968 che uscirà fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera 2013 per l’editore Transeuropa. L’uso della vita è un romanzo storico che racconta il ’68 a Pisa mescolando fatti e personaggi reali a vicende e personaggi di invenzione. I titoletti sono stati inseriti in questa versione e non fanno parte della stesura originale del romanzo.
La supplenza a Pontedera
Gli era capitata la supplenza a Pontedera, nella cittadina dove aveva abitato con i genitori sino a poco tempo prima e nella stessa scuola dove aveva fatto le medie e il ginnasio. Quel giorno, come faceva sempre una volta alla settimana, finite le lezioni, sarebbe andato a mangiare a casa dei genitori. Ne approfittava per portare i panni da lavare alla madre che li metteva nella lavatrice e glieli restituiva stirati la settimana successiva.
Quando arrivò a scuola, un collega lo avvisò che il preside del liceo voleva vederlo. «Il Labbronico ti desidera», gli aveva detto. Il preside era molto alto, molto grosso, camminando caracollava come un elefante, e aveva labbra rigonfie che debordavano dalla bocca erigendosi in alto contro il naso e le guance paonazze e scendendo giù in basso verso il mento. Veniva da Livorno e anche per questo fra loro lo chiamavano il Labbronico.
Appena Marcello entrò in presidenza, vide sulla scrivania il pacco dei compiti d’italiano che aveva da poco corretto. Strano, lo aveva lasciato nel suo cassetto in sala dei professori.
«Si accomodi», disse il preside. Stava seduto dietro la scrivania, fra le mani enormi stringeva nervosamente una matita. La sua facciona spiccava proprio sotto quella grassoccia del presidente Saragat nella cornice dietro di lui. Sotto il mento, il pomo d’Adamo sporgeva in avanti, era un’enorme prua che anticipava lo scafo del volto e indicava la direzione in cui si volgeva. «L’ho fatta chiamare perché ci sono dei problemi, delle proteste di genitori… Bisogna intervenire … sedare, sopire, anche se nessuno qui ovviamente vuol fare il Conte Zio… prima che sia troppo tardi…». Citando il Conte Zio, aveva increspato i labbroni in un sorriso compiaciuto. Marcello aspettava, inquieto. Guardava la fila di trofei, coppe, medaglie, attestati conquistati dal liceo e disposti ordinatamente su uno scaffale davanti alla bandiera tricolore arrotolata in un angolo. «Ecco», proseguì il preside, «lei ha dato una traccia di tema – è vero che era a scelta, con altri due – comunque ha dato una traccia discutibile…». Aprì il pacco, lesse: «Cosa pensate del divorzio? Ritenete sia una soluzione alla crisi attuale della famiglia o un fattore ulteriore di disgregazione? Esponete liberamente il vostro pensiero». Chiuse il pacco, lo guardò. «Lei sa che molti paesi civilissimi, in Europa e in Nordamerica, praticano il divorzio…Rifletterci un poco mi sembra un atto di vita democratica», si limitò a ribattere cautamente Marcello. «Ma in Italia, paese cattolico, il divorzio non esiste e dunque caldeggiarlo può configurarsi addirittura come reato…E poi le gerarchie ecclesiastiche vigilano…E’ vero che la traccia resta aperta, problematica, ma non sarebbe meglio evitare certi argomenti?», lo guardò indirizzando verso di lui la prua aguzza del pomo d’Adamo, con gli occhioni acquosi che per un attimo gli parvero imploranti. Marcello avrebbe voluto ricordargli l’articolo costituzionale sulla libertà d’insegnamento, ma preferì tacere. «E poi…poi c’è un’altra questione. Lei è giovane, inesperto, posso capire… Ma mi è stato riferito che si fa dare del tu dagli studenti, e questo non è concepibile, occorre mantenere una distanza fra docenti e discenti, questa confidenza è pericolosa, soprattutto in tempi difficili, tempi di disordini e di subbuglio come questi, in cui gli studenti si organizzano per infrangere la disciplina scolastica, per chiedere l’assemblea come organo, addirittura, di autogoverno… Autogoverno, si figuri… Vogliono fare come al Parini di Milano. Ha visto che fine ha fatto quel povero preside… Rimosso dall’incarico, capisce? A pagare siamo sempre noi presidi…».
«Ci penserò», rispose Marcello. Ma gli sarebbe stato difficile tornare indietro. Diversi ragazzi facevano parte del movimento o della FGCI, erano abituati a dargli del tu fuori di classe, perché non dovevano darglielo anche a scuola? e naturalmente, per non creare diseguaglianze, aveva dovuto dire a tutti che gli dessero del tu. E poi era giusto così, più democratico, in sintonia con i tempi nuovi che stavano nascendo.
La felicità pubblica
Salì sulla Seicento, mise in moto, guidò verso Pisa dove aveva appuntamento con Ilaria. I venti chilometri che lo separavano dalla città erano ormai un solo cantiere e un solo paese. La campagna era sparita, si costruiva da una parte e dall’altra della strada, una doppia fila di palazzoni nuovi, centri commerciali, capannoni di piccole officine.
Schegge di pensieri e di immagini lo ferivano e subito si disperdevano nella mente. Quelle facce, tutte dietro un tavolo, a guardarlo, a giudicarlo, il padre, il preside, la commissione di controllo, quelle labbra, le labbra sottili di Togliatti, quelle gonfie e massicce del Labbronico … E poi quelle altre labbra, le labbra di Sandra… quella piega di dolore e d’accusa.
Ilaria lo aspettava davanti al portone sbarrato della Sapienza. Non aveva più il sacco a pelo sulle spalle, portava jeans attillati, e i seni le gonfiavano una camicetta colorata. «Andiamo al Rettorato, poi, se vuoi, a Lettere, a Medicina, a Fisica, sono tutte occupate», propose lui.
«Ma è sempre così fra D’Alema e Sofri?», chiese lei mentre andavano. «Beh, sono più bravi degli altri perché mettono in gioco qualcosa che va al di là dell’immediato. A D’Alema non importa nulla né dell’assemblea né dei delegati, li ha accettati e proposti come terreno di mediazione perché a lui interessa appunto la mediazione, il controllo, l’apparato… lui in realtà crede solo negli organismi e nelle strutture organizzati, nei gruppi dirigenti che tessono, rammendano, ordiscono i fili della politica. E’ l’opposto di Sofri che crede solo al movimento. Anche a Sofri in fondo non interessano i singoli obiettivi, non gliene frega nulla che vengano raggiunti o no, non gli interessa un successo di per sé, gli obiettivi sono per lui solo pretesti perché il movimento si muova, perché cresca, cresca, cresca, senza arrestarsi un momento. Direi che Sofri ha paura della tregua, della normalità, vorrebbe un perenne stato d’eccezione e di eccitazione…».
Marcello guidava Ilaria di facoltà in facoltà. Sulla porta delle aule erano stati attaccati dei cartelli che portavano scritto in rosso Commissione controcorsi, Commissione controstampa, Commissione salario e diritto allo studio, Servizio d’ordine, Commissione studenti-operai, Commissione rapporti altre università. Era tutto un movimento frenetico, nelle aule si tenevano controcorsi, si organizzavano turni di vigilanza, si scrivevano documenti, si ciclostilava, si preparava la giornata di solidarietà con le fabbriche in lotta della mattina successiva, si mettevano a disposizione le auto, si formavano i gruppi destinati ciascuno a una porta della fabbrica. Sulle lavagne delle aule campeggiava la scritta Tutti domani mattina alle cinque ai picchetti della Fiat a Marina.
«Il piacere è l’azione, non il riposo», disse Ottavio che incontrarono a Fisica. «Agire è divertente».
Nel cortile della Sapienza degli studenti stavano giocando al calcio. «Vedete? », diceva Ottavio che li aveva accompagnati sin lì, «non c’è differenza fra gioco e politica». Ogni grido, ogni risata, ogni colpo di tacco, ogni dribbling erano politica. Il pallone che rimbalzava sulla scrivania del rettore era politica, politica erano le poltrone del suo studio sparse disordinatamente nei corridoi, il suo telefono che serviva per tenere i contatti con gli studenti in lotta a Torino o a Trento, il ciclostile che sulla cattedra dell’aula magna sputava fuori volantini su volantini.
La politica, pensava Marcello, non era una parte separata dell’esistenza, era la vita stessa di ogni persona. Lui e i suoi compagni occupavano. Occupando un territorio, lo liberavano. Occupare significava opporre un territorio liberato a un sistema globale, che assorbe, fagocita, metabolizza tutto, che si nutre di tutto, che integra tutto al proprio interno, anche il dissenso. Alla mediazione che smussa, nasconde, accorda, sintetizza, procrastina bisognava opporre l’atto immediato, l’azione subito, l’urgenza che non vuole aspettare, che esige subito, che deve ottenere subito. Per questo, rifletteva Marcello, Adriano era l’unico leader possibile, l’unico adatto al movimento. Gli faceva paura, ma era l’unico leader possibile.
Marcello e Ilaria andavano di facoltà in facoltà e una strana gioia li avvolgeva. Si sentivano trascinati da un flusso che li circondava e li proteggeva. La tensione emotiva non era più un fatto individuale, era una parte dell’energia collettiva che li coinvolgeva. Scompariva ogni sentimento solo personale. Scomparivano quelle schegge di pensieri, quelle facce minacciose, quelle labbra… «Vedi», diceva Marcello a Ilaria, «la felicità è diventata pubblica». E lei sorrideva, guardava tutto, canticchiva the time is right for fighting in the street, boy.
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Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Una prima…
… ma, di necessità, vagante ed extravagante serie di impressioni? Intanto, la curiosità e l’interesse in tre forme. Il tema, il Sessantotto; il genere, “romanzo storico”; il titolo, che accoppia la vita all’idea dell’”uso”.
*Di un romanzo (qua e là di recente già tentato, ma finora mi pare con scarsezza di mezzi e di esiti) su un periodo cruciale della nostra storia, e lo intendo dilatato grossomodo nel decennio 1964-1974 (con possibilità di seguito fino all’inizio degli anni ’80), avremmo credo un gran bisogno oggi: culturale e civile. Spero che la mia generazione (sei anni nel ’68, tanto per esser precisi) lo aspetti, con una gran voglia di leggerlo.Per appassionarsi ancor di più a capire. Capire meglio, o diversamente, con una ritrovata “potenza della letteratura”, (quella che Marx ed Engels attribuivano a Balzac) ciò che via via, negli anni, studiosi, storici, magistrati, commissioni parlamentari hanno pur parzialmente ricostruito: quando, dove, come è stato bloccato lo sviluppo liberamente democratico della nostra società politica e civile disegnato dall’idea programmatica e progressiva della nostra Costituzione, blocco che conduce poi all’attuale critica deriva democratica ? Chi, quali forze lo hanno operato? Perché sono prevalse? E’ noto che proprio nel biennio ’68-’69 ci sia uno snodo fondamentale della questione. “L’uso della vita” potrà esser un contributo in questo senso? E sia pure parziale per ampiezza di raggio storico?
*E avremmo bisogno anche di un “romanzo storico”. Non ne sono un conoscitore teorico che possa ambire a definirne un canone attualmente valido. Ma -e forse son rimasto fermo lì, faccio ammenda- tornerei a Manzoni e alla sua Lettera allo Chauvet. Mi pare ancora estremamente chiara e lucida la relazione che vi si stabilisce tra storicità e fantasia, e il modo in cui si dichiara che solo dal rigoroso legame con l’una l’altra possa definirsi vera libertà romanzesca, e non arbitrio irresponsabile e autoritario (oggi molto, molto culturalmente neoliberista, anche in letteratura): che fu anche un’idea di eticità (civile) della letteratura, oggi tutt’altro che inessenziale, direi. (e Ferroni ci aggiunge, giustamente, anche l’intentio “ecologica”). In quale senso dunque i lettori si troveranno a leggere “L’uso della vita” come un romanzo storico?
Postilla: leggo “D’Alema”, leggo “Sofri”, leggo “Marcello”. Perché fin nei personaggi una separazione netta tra riconoscibilità immediatamente storica e costruzione del verosimile? Perché non inventare pure un personaggio-D’Alema? Uno-Sofri? Nessuna difficoltà poi a riconoscerli.
*Se l’immagine è della copertina, evidentemente Luperini ama Kirchner.Due volte son più di un indizio, sono quasi una prova. E Marcello/a ce ne svelerà meglio le ragioni? Tra vitalismo naturalista e deformazione che si fa intensamente drammatica, l’ “aguzzo” di Kirchner è sottilmente doloroso, e perciò penetrante.Disporre dell’uso della vita può offrire l’illusione di possederne una pienezza di libertà, ma forse il titolo può anche recarci l’idea che vita e libertà siano pur sempre sottoposte ad usura, e che se ne usurino le promesse. Chissà. Eppoi, c’è qualcosa nel titolo di ammiccante all’ossimoro. Come ad accoppiare qualcosa di irresistibilemte biologico ad una materialità storica. Un po’ come per chi ha visto una sorta di contraddizione (ma problematica creatice di senso, io direi) nel rapporto implicito interno all’espressione “ermeneutica materialista”.
Chiudo. Troppo breve il brano proposto per abbozzare riflessioni di stile. Però, mi ricordo di aver letto, in altro blog, una bella pagina riconducibile per ambientazione storica e contenuto al nuovo romanzo. Mi ricordo che anche lì era presente il ritratto di Togliatti, un giovane che scappa dalla stanza di una sezione di partito, nel gesto scomposto ne rovescia una sedia. Il rapporto con “i padri” era anche lì fondamentale.
Luca Zorzenon
Usare la vita
L’intervento di Luca Zorzenon (finalmente qualcuno che si firma su un blog! Scrivere qualcosa è impegnare se stessi; nascondersi dietro l’anonimato o uno pseudonimo è una rinuncia alla responsabilizzazione, un lasciapassare al disimpegno) pone l’accento su una questione, il Sessantotto, e, affrontando la questione del titolo, mi offre la possibilità di una precisazione.
Sul 68 mancano quasi del tutto narrazioni romanzesche e cinematografiche. Non è stato così per la Resistenza, e non solo per il rilievo incomparabilmente maggiore di quella esperienza. Non è facile spiegare questo vuoto, questa strana mancanza. Si potrebbe forse pensare che la Resistenza vinse, e potè perciò aspirare a una autorappresentazione egemonica, mentre il 68 ha perduto la sua battaglia; e si potrebbe aggiungere che i militanti degli anni sessanta diffidavano della letteratura e se ne tenevano lontani sostenendo il primato dell’impegno politico diretto. Ma resterebbe comunque da spiegare perché, per esempio, sugli anni di piombo e sul terrorismo, analogamente sconfitto, esista invece una vasta letteratura (critica e creativa, romanzesca e cinematografica). Mi parrebbe, questo, un argomento da approfondire e da discutere, anche su questo blog. Un’altra questione, legata al 68, è cosa ne pensino oggi i giovani e in particolare gli studenti per i quali quegli anni sono già oggetto di studio storico ma che mostrano anche una indubbia curiosità per le lotte dei coetanei di quasi cinquanta anni fa. E gli insegnanti? Come spiegano quella rivolta giovanile? Quali difficoltà incontrano? Testimonianze degli uni e degli altri sarebbero benvenute e potrebbero aiutare a capire generazioni diverse.
La puntualizzazione riguarda il titolo “L’uso della vita”. Esso muove da una frase del poeta e saggista Franco Fortini (che è anche un personaggio del romanzo), il quale, in un libro uscito subito prima del 1968 (un libro intitolato Verifica dei poteri, che contribuì a formare la generazione che avrebbe di lì a poco riempito le piazze e occupato le università), parla dell’”uso formale della vita” come “il fine e la fine del comunismo”. Usare la vita in modo libero, piegarla come una forma alle nostre esigenze, è il fine o lo scopo del comunismo, ma nello stesso tempo è la fine del comunismo perché, raggiunto questo stadio, non ci sarà più bisogno delle strutture e dei limiti di un preciso sistema politico. Una utopia, certo. Ma nel 68 ci fu davvero, almeno all’inizio, un tentativo di usare liberamente la vita, di vivere la politica come forma, gioco e leggerezza. Il mio romanzo parla appunto di questo tentativo.
lup
In libreria
L’uso della vita. 1968 (p. 144) è adesso in libreria pubblicato dall’editore Transeuropa. Questa la nota sintetica del volume:
Fra il febbraio 1968 e il gennaio 1969, Pisa era uno dei luoghi più significativi della rivolta giovanile europea. Nel raccontare l’atmosfera di quel Sessantotto – il ritmo degli avvenimenti, le occupazioni, gli scontri con la polizia, le discussioni politiche, i rapporti fra i sessi, i contrasti generazionali – il romanzo di Romano Luperini sceglie di mescolare personaggi storici – Sofri, D’Alema, Fortini… – e altri di fantasia.
Il protagonista, un giovane fra i ventitré e i ventiquattro anni, appena laureato, partecipa entusiasta e perplesso, fra slanci e dubbi, alle vicende di quei mesi.
Pubblico e privato, impegno militante e crisi esistenziali, gesta e amori si alternano in un vortice di avvenimenti che porta a una graduale evoluzione del movimento di lotta, che lascia presagire i tragici sviluppi degli anni Settanta, ponendo fine alla felicità e alla leggerezza iniziali. Giunti alla fine della storia, ci si rende conto di aver assistito al piccolo romanzo di formazione di un individuo, dentro al più grande romanzo di un paese e di una rivoluzione perennemente mancata.
Redazione LN
Che cosa dire, ora, a posteriori, anche a posteriori del blog, che ormai compie i suoi dieci anni, non solo “inverni”? Che innanzi tutto la figura reale del “romanzo” non aveva 23 o 24 anni, ma 27 e due mesi, e questo spiega molto. Tu avevi 24 anni e qualche mese quando io ti ho conosciuto. Per le vicende della mia vita, dopo avere interrotto gli studi in quarta ginnasio nei primi mesi del 1963 e avere passato quasi due anni a bighellonare preso dai miei tormenti e coltivando illusori riscatti, dopo una visita alla neuro di Pisa (allora si diceva da Pintus, anche se in quel momento il primario era Gomirato) dalla quali uscii senza tare evidenti e l’invito a riprendere gli studi, tu, conosciuto il mio caso, ti offristi. Fu intermediario un mio vicino di casa, poco più giovane di te, che probabilmente ti aveva conosciuto al liceo, almeno finché tu rimanesti a Pontedera prima di andare a quello di Pisa. Certamente in questo fosti generoso, rivelando già allora la tua propensione ad aiutare gli “ultimi”, una visione vagamente “socialista”, che era anche quella in cui si identificava tuo padre. Studente brillante anche se provenivi da Silvio Guarnieri, dopo avere iniziato col grande e famoso Luigi Russo. E anche scegliendo Guarnieri avevi dimostrato la tua propensione a stare con gli “ultimi”. Degnissima persona e intellettuale che meritava tutta la tua considerazione (e anche la mia), ma, nonostante il suo importante passato già dalla Firenze mitica degli Anni Trenta, e nonostante la militanza nella sinistra allora dominante nella cultura (e nel potere, perlomeno quello “culturale”), era una figura di secondo piano, non nel mainstream diremmo oggi. (Leggo ora, in una tua antologia della critica verdiana del 1976, che avevo leggiucchiato e poi accumulato fra le decine di migliaia di libri impilati nella casa di mio padre, un suo notevole saggio su Verga: “Ed il primo [amore-passione] ed il secondo [amore familiare] si intrecciano e si alterano e contrastano e si fondono ma sempre, nel contrasto, l’uno dall’altro acquista valore” p. 159, quindi essersi formato nella cultura idealistica non era accaduto invano).
D’Alema in quel 68 aveva 19 anni, studiava alla Normale, come aveva fatto Sofri, quindi aveva 9 anni meno di te. A conti fatti, a parte chi non ho mai conosciuto ma in compenso ho sempre disprezzato da lontano, debbo dire che quello che tu hai fatto è un monumento, e lui non solo non si è mai laureato, ma penso che sarà relegato nell’immondezzaio della storia, fatta di qualche vela, qualche bottiglia, e soprattutto il bombardamento della Serbia, cioè agli ordini di quel potere che ancora ci sovrasta e ci minaccia: Corona Inglese (ed eredi Yankees) sottomessi alla Finanza Sionista. Sofri entra di sgancìo in una mia poesia, a significare la parabola criminale e fallimentare degli anni che vennero dopo. Tu in quegli anni non hai fatto soprattutto politica, come ami dire, e dei quali ti rimarrebbero solo macerie, ma hai coltivato i tuoi studi e scritto i tuoi libri, che è quello che rimane di te.
(Non intendo scrivere un contro-romanzo, anche perché in realtà l’ho già scritto in quel poco che ho scritto. E questo è ciò che rimane di me, poco o tanto che sia).