Perchè leggere questo libro: Lezioni di tenebra di Helena Janeczek
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
L’altra sera in televisione una tizia sosteneva di essere la reincarnazione di una ragazza ebrea uccisa in un campo di sterminio. Me l’ha detto il mio amico Olek, al telefono da Roma, e parlando con me continuava a seguire le tappe ricostruite non si sa come di quella vita precedente, il racconto preciso dei ricordi prenatali, e ripeteva «è allucinante». Allora ho concluso in fretta la telefonata, dicendo che il programma interessava anche a me, benchè non fosse vero, e ho acceso il televisore. Si vedeva una donna sulla trentina, psicologa secondo una scritta apparsa all’altezza del busto, che ormai non raccontava più di un’altra se stessa di nome Anna o Hanna, Baumann o Naumann, ma spiegava al pubblico di quel programma a casa, vasto e invisibile, il senso ricavato da quell’esperienza, e tutte le sue conclusioni. Poi la parola è passata agli esperti: a psicologi, parapsicologi, preti, lama buddhisti con monaci interpreti, a uno psichiatra ebreo che ha preso la parte della scienza, ma anche quella della religione definendola «non dogmatica» e ha concesso che sì, la tradizione mistica ebraica contempla l’idea della metempsicosi, però si tratta di una reincarnazione anonima e insondabile. Dubito che ne sapesse di più e che conoscesse bene l’argomento. […] Ho continuato a guardare ancora un po’ quel programma sulla reincarnazione ripetendomi, per attutire il fastidio e il vago senso di profanazione, «ma chi sei tu per ridere di queste persone, in buona fede, ma in fondo che ne sai tu».
Io, già da un pezzo, vorrei sapere un’altra cosa. Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non con il latte materno, ma ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre non l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più. Parlo solo di questo, di questa fame particolare e chiaramente nevrotica che si scatena in certi momenti davanti a un pezzo di pane, pane di qualsiasi tipo, buono, cattivo, fresco, gommoso, secco. Arrivo perfino ad azzannare tozzi di pane duro, non ne butto mai via nemmeno un po’, raccatto le briciole dalla tovaglia per mangiarle. Soffro di una leggera bulimia da pane, ragione principale, forse unica, della mia abbondanza fisica così spesso criticata da mia madre. Ma anche senza sfoghi incontrollati devo sempre mangiare tutto il panino che ho preso in mensa. Me l’ha insegnato lei che il pane è sacro, che lei, quando vede in strada un pezzo di pane, lo raccoglie e lo mette da qualche altra parte più in alto, per non lasciarlo lì, per terra. Ho imparato fin troppo bene la lezione, forse sta tutto qui.
[…] Dice che la sua inappetenza gliel’ha curata la guerra e riscuote sguardi complici di chi appartiene alla sua generazione e ricorda l’eroismo della fame. Non dice di quale fame ha sofferto e che molti sono i significati della frase «non c’era niente da mangiare». Non dice che per puro caso o miracolo non è morta di fame o, più probabilmente, morta ammazzata per astenia da denutrimento, ammazzata col gas.
Perchè nel libro, di impronta autobiografica, è impellente la ricerca della propria identità
Cresciuta a Monaco e trasferitasi da anni in Italia, tanto da usare l’italiano come lingua in cui scrive, Helena cerca di fare quadrare i conti con un passato familiare doloroso attraverso alcuni nodi tematici che incidono sulla sua vita, dopo aver condizionato quella della madre. Innanzitutto si interroga su quale sia davvero la sua lingua madre: è il tedesco appreso fin dall’infanzia nonostante il refrain familiare “noi non siamo tedeschi” o il polacco usato esclusivamente tra i genitori di cui lei conosce solo poche e sparute parole? Indaga poi sulle ragioni del suo rapporto squilibrato con il cibo, sulla sua propensione alla bulimia, sulla fame che tanto infastidisce la madre, sempre a rimproverarla per il soprappeso. Infine si chiede quale sia l’importanza da attribuire a un documento come il passaporto, essenziale non solo per spostamenti e permanenze nei vari paesi europei ma anche per “fissare” la propria identità. Il passaporto, la richiesta di cittadinanza, il permesso di soggiorno hanno un valore simbolico che va al di là della loro mera funzione burocratico-amministrativa ed Helena, sospesa tra origine polacca, nascita tedesca e residenza italiana, lo sa bene: «Così come so un’altra cosa: c’è passaporto e passaporto. Quello tedesco vale di più […]. Il passaporto tedesco ha quotazioni altissime, bisogna tenerselo stretto.»
Perché nel rapporto con la madre s’incrociano le ragioni del corpo e quelle della storia
Tuttavia è principalmente con il passato traumatico della madre che Helena vuole misurarsi; conoscere il senso e l’origine delle “lezioni di tenebra” che le sono state impartite nel corso della sua crescita dovrebbe riconciliare i volti contradditori della donna, suggerire uno spiraglio, permettere di trovare un bandolo al groviglio delle vicende familiari che non si sono ancora comprese anche per la lunga reticenza che ha contraddistinto entrambi i genitori. Eppure, nonostante la sua personale ricerca, Helena ha capito che nessuno strenuo e meticoloso studio del fenomeno storico della soluzione finale potrà permetterle di mettere a fuoco la vera fisionomia – fisica, morale, psichica – dei genitori dai quali sa di aver ereditato “la voglia di vivere, quella voglia primitiva che emerge dall’azzeramento […] l’unico antidoto che ho ricevuto”.
Perché nel ritorno della madre ad Auschwitz, Helena rivive da testimone di secondo grado il dramma della deportazione
La madre è sopravvissuta alla famiglia per essere fortunosamente e coraggiosamente fuggita dal ghetto della cittadina polacca di Zawiercie, pochi giorni prima del rastrellamento avvenuto nell’agosto del 1943. È una colpa che non si perdona, la signora Nina Franziska, e che, anzi, sembra riaffiorare più forte con l’avanzare dell’età: «È quella che con due soldi in tasca è scappata dal ghetto, sapendo che lo stavano per liquidare, sapendo il significato di quelle parole, dicendo a sua madre “me ne vado, non voglio bruciare nei forni!”». L’autrice interpola al suo racconto alcuni spezzoni della testimonianza della madre, scampata sì al rastrellamento del ghetto, ma catturata nel maggio del ’44 in un appuntamento-tranello ordito da un conoscente: il montaggio è segnalato dall’uso del corsivo e dagli inviti dell’anziana donna, sempre perentori, a registrare quanto le sta dicendo, o a inserire nel racconto qualche aneddoto dal tono più leggero.
Passati tre decenni, madre e figlia decidono di recarsi in Polonia: il loro trasferimento avviene con una comitiva organizzata che unisce persone tra loro sconosciute, per quanto tutte siano dirette a visitare i luoghi di sterminio dove è stata inghiottita la loro famiglia. L’episodio cruciale di questo viaggio sta nell’urlo dirompente che scuote la signora Nina, così imprevedibile in una donna elegante e controllata come è lei: «Piange, cinquant’anni dopo, in Polonia, urla di aver lasciato sola “la mia mamma, la mia mamma”. Strilla come un’aquila nel museo installato ad Auschwitz I […] davanti a una teca che mostra un campione di Zyklon B, urla di nuovo come una bambina “mamma, mamma”.»
Tuttavia non c’è solo l’aspetto emotivo a colpire la protagonista che può finalmente conoscere solo in quel luogo l’origine di alcuni comportamenti della madre, pragmatici ma talvolta piuttosto bruschi: «Dice che non bisogna mai smettere di lavorare su se stessi. Parla di procedere nelle sfide, dimostrarsi quanto si vale, lodarsi da soli, così come spiega che ha imparato a mangiare con coscienza, sbattendomi in faccia quelle espressioni intraducibili profondamente assimilate, e io una volta a replicarle «guarda che termini più teutonici di quelli è difficile trovarne», e lei che davvero non capiva.»
Perché permette di passare dal logorio museale di cui è circonfusa oggi l’esperienza del lager alla restituzione di senso
Oggi a scuola, la memoria e l’esperienza della Shoah sono, almeno da un ventennio, oggetto di perdita di senso storico e cognitivo: non si tratta solo, banalmente, della deprecata irradiazione mediatica o di una sempre più esangue “volontà” di ricordare da parte degli studenti. I selfie degli adolescenti portati a Treblinka mettono a nudo la museificazione del “Male” così come la trasformazione stessa di Auschwitz in «luogo fittizio» dove la memoria, per avere diritto di cittadinanza, è stata manipolata come ha ben evidenziato Didi-Haberman in Scorze: tutto ciò, in modo sotterraneo e profondo, è il risultato della rimozione di una violenza storica che da sempre abita l’Occidente. Agiscono forse controcorrente, rispetto alla derealizzazione, i testi prodotti dalle generazioni “nate dopo” che, pur non avendo vissuto direttamente l’ulcerazione del trauma, la possono ricostruire in forme mediate attraverso le memorie familiari: Grossman con Vedi alla voce: amore, Affinati con Campo del sangue e, per l’appunto, Janeczek con Lezioni di tenebra. Per questo può avere senso leggerli, anche per frammenti antologici, con i ragazzi.
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