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diretto da Romano Luperini

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Recensione a La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi

 Dopo Violazione (2012) e L’amore normale (2014), Alessandra Sarchi pubblica sempre per Einaudi il suo terzo romanzo, La notte ha la mia voce, in cui pone al centro l’esperienza di un “io” dichiarato sin dal titolo e immerso nei conflitti e nelle contraddizioni contemporanei.

Qualcuno non tarderà a considerarlo un romanzo autobiografico – non certo assimilabile all’autobiografia e tantomeno all’autofinzione – per la condizione corporea dell’io narrante e per le altre schegge di vissuto rintracciabili all’interno del testo, subito trasfigurate nella messa in forma letteraria. Sarebbe tuttavia fuorviante limitarsi a tale definizione perché La notte ha la mia voce, in cui non mancano digressioni di ordine riflessivo e argomentativo, è anche e soprattutto un romanzo di formazione. Lo indica in filigrana l’epigrafe che anticipa il testo, estrapolata dalla dichiarazione autoriale che Jerzy Kosinsky scrive a dieci anni dall’uscita del suo L’uccello dipinto (1965), storia di un bambino dell’est europeo in cerca della salvezza tra gli orrori umani e storici della seconda guerra mondiale.

Sarchi, con il suo Bildungsroman, riprende un genere della grande tradizione letteraria per narrare un passaggio altro da quello che conduce dalla gioventù all’essere adulti. Il passaggio di confine si realizza attraverso il racconto di un’anonima protagonista che, anche grazie all’aiuto di Giovanna, soprannominata la Donnagatto, deve reimparare a vivere, ad andare «incontro al mondo», con un corpo diverso, estraneo, e con una «diversa dotazione», dopo un incidente che la obbliga alla paralisi degli arti inferiori. È la lotta di un corpo bisognoso di interrogarsi e di riconoscersi tanto nell’intimità quanto nella «guerra quotidiana» da cui non è immune l’Occidente moderno, solo apparentemente tollerante e garantista e invece disposto a difendere «i più forti» qualora vada salvaguardata «la continuità della specie».

In questa prospettiva ben si comprende il motivo che rende “sopravvivenza” una parola chiave in La notte ha la mia voce, fin dall’epigrafe di apertura. Non è un caso che nella stesura dell’opera un riferimento importante, dichiarato dall’autrice, sia stato Se questo è un uomo; le analisi leviane sull’apocalisse novecentesca del lager, che hanno reso dicibili mediante il filtro della ragione la sofferenza e la vergogna del corpo e della mente, non sono del tutto estranee alla rappresentazione letteraria della semiparalisi: con le necessarie differenze, anche in questo caso si è di fronte a una situazione limite e traumatica che obbliga a una verifica dei parametri umani su un piano personale e sociale, nonché a una rieducazione corporea spersonalizzante che impone un nuovo modo di esistere.

Il romanzo ha la forza di dilatare i confini della storia del singolo, che si espande sino a diventare storia collettiva: ci si identifica con la protagonista perché è di un grande tema antropologico che si parla, «di corpo malato, di corpo sano, del confine che il nostro corpo ci pone alla conoscenza e all’essere nel mondo», come riferito da Sarchi in un’intervista.

Nell’opera, suddivisa in tre parti (La terra, L’aria, L’acqua, elementi alla base della vita e del cosmo) che già in Violazione rimandano a una «condizione primordiale e allegorica» (Zinato), Sarchi indaga la complessità e la tragedia del corpo ricorrendo a due elementi che contraddistinguono la sua scrittura: l’uso di un linguaggio scientifico e la presenza nel testo di riferimenti altri rispetto a quelli letterari.

Una lingua debitrice nei confronti della scienza, frutto di una ricerca rigorosa, consente in primis la scomposizione chirurgica e biologica del corpo, percorso da impulsi elettrici in parte azzerati in un sistema nervoso compromesso e per questo invalidante; inoltre veicola in forma nuova un tema caro a Sarchi, il rapporto natura-cultura, stavolta  riproblematizzato mediante il corpo della protagonista e congedato nel finale con l’immersione nell’acqua, l’elemento dove tutto ha avuto inizio e dove «non esiste confine», in una visione panica pacificatrice, capace di annullare le differenze tra i bipedi normodotati e quelli provvisti di protesi, e prefiguratrice del «dissolvimento» finale.

Né vanno trascurati i molteplici richiami extraletterari, oltre a quelli desunti dalla scienza; compaiono rimandi filosofici, a partire dal rifiuto della distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa, fra mente e corpo, e rinvii alla sfera visuale, per i quali va considerato che l’autrice è una storica dell’arte. Fra questi, ognuno con il proprio significato sul piano del racconto, si segnala come una ricca galleria di immagini raffiguranti la perfezione e le prodezze fisiche di ballerini – quasi si trattasse di un atlante figurativo simile a quello di Aby Warburg per la storia dell’arte – permette di riferirsi ai neuroni specchio quale ultima frontiera per gli studi iconologici: guardare l’immagine di chi danza, in questo caso un «teatro anatomico dove perdersi fra estasi e spavento», dà l’opportunità a chiunque di identificarsi con chi sta compiendo l’azione.

Nel confronto sia con le icone della danza sia con quelle della bellezza da carta patinata, Sarchi crea connessioni tra le diverse discipline e i diversi linguaggi nel tentativo di decrittare il corpo che viene sottratto a qualsivoglia semplificazione, rivendicandone la forza conoscitiva, immaginativa, la sua «sete d’infinito».

La tematica del corpo, sempre al centro della narrativa dell’autrice, trova in La notte ha la mia voce pieno sviluppo (è emblematica la comparsa nel romanzo di personaggi che abitano racconti scritti in passato). La rappresentazione della disabilità, specie se si considera la prossimità della condizione fisica tra l’autrice e l’io narrante, avrebbe potuto essere oggetto di una banalizzante lettura voyeuristica utile ai meccanismi mediatici. Al contrario, Sarchi annulla il rischio: con la scelta del genere finzionale, con l’uso di una lingua calibrata per restituire sulla pagina anche le miserie del corpo senza cadere nel pietismo, con pagine contraddistinte dall’assenza di palliativi religiosi, dove hanno legittimità la rabbia e l’ironia in modo da non falsificare la realtà e diversamente interpretarla.

Il corpo offeso offre una prospettiva altra da cui verificare il valore dell’esperienza in una relazione dialettica con il mondo, senza distinzione tra soggetto e oggetto, rielaborando in chiave letteraria le riflessioni di Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, a cui l’autrice guarda per il suo romanzo. Il corpo semiparalizzato, come tutti i corpi, sta alla base del processo percettivo e si interroga sulle possibilità e i modi che gli sono propri di rapportarsi al mondo: «è in un corpo e non altrove che noi conosciamo la vita».

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