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diretto da Romano Luperini

“E c’era quel pianto di morte”. Qualche ipotesi su L’assiuolo

Resta angolare nella critica pascoliana, la pietra posta da Contini nel centenario della nascita del poeta con il suo “esperimento concentratissimo” condotto su due testi esemplari per la “dialettica tra determinato e indeterminato”: L’assiuolo e Il gelsomino notturno. Il critico si chiedeva in che modo Pascoli rendesse la “diffusione” – lo sfondo appunto indeterminato in queste liriche -, individuando nella sintassi la risposta. Ma a proposito dell’explicit (“e c’era quel pianto di morte…/chiù…”), Contini sposta la nostra attenzione dall’onomatopea al verbo nel verso precedente, che perde rilevanza a favore del sostantivo, essendo “un verbo che non è un verbo né di azione né di stato preciso, ma indica la merissima esistenza, insomma in qualche modo (il testo si chiude, ndr) su un sostantivo senza verbo.” (G. Contini, Discorso sul linguaggio di Pascoli, in Id., La letteratura italiana, Rizzoli, Milano, 1992, p. 160). Non la celebre onomatopea, bensì il “pianto” (di morte) si troverebbe dunque in posizione sostanzialmente forte: più che il suono, la sua semantizzazione, il suo significato nell’ordine simbolico. Appunto sul piano prevalentemente semantico e simbolico vorremmo saggiare qui un’ipotesi di rilettura dell’Assiuolo, orientata dalla psicoanalisi.

Intertestualità come chiave di lettura

Ci sembra di poter ricavare qualche linea interpretativa meno da studi in cui s’impieghino esplicitamente chiavi di lettura derivate da questa disciplina (p. es. in F. Curi, Pascoli e l’inconscio,Mimesis, Milano, 2015, v. più av.), che da altri in cui se ne colga un uso parziale e non dichiarato. Rientra fra questi un saggio di Giovanardi, che dopo aver individuato due direttrici principali lungo le quali si raggruppano le tematiche myricee – “da una parte un’accentuata frequentazione del funebre, (…) dall’altra un descrittivismo sempre meno determinato” -,  analizza lo stretto rapporto tra una lirica (Il lampo), e un passo della prefazione inedita alla terza edizione di Myricae (relazione già messa in luce, peraltro, a partire dalla fondamentale ed. critica: G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Sansoni, Firenze, 1974). Tutto rivolto al padre, tale passo è in sostanza trattato da Giovanardi alla stregua di un contenuto latente (detto in termini psicoanalitici), svelato dalle spie lessicali che rinviano dalla ballata alla prefazione inedita, divenuta un sottotesto.

Nei versi: “E cielo e terra si mostrò qual era:/la terra ansante, livida, in sussulto;/il cielo ingombro, tragico, disfatto:/(…)”, l’obbedienza all’istanza più generale di un “descrittivismo visionario” sarebbe più apparente che sostanziale, mentre l’intenzione dell’autore resterebbe qui sottesa: “I pensieri che tu, o padre mio benedetto, facesti in quel momento (…) (morendo ucciso, ndr). Come un lampo in una notte buia buia: dura un attimo e ti rivela tutto un cielo pezzato, lastricato, squarciato, affannato, tragico” (Prefazione cit., corsivo ns.). Fondata sull’intertestualità, la deduzione di Giovanardi è perentoria: “Pascoli non descrive dunque un fenomeno naturale, ma semplicemente un secondo termine di comparazione tutto mentale, il cui primo termine è dato dal momento  della morte del padre” (S. Giovanardi, Myricae, in A. Asor Rosa, Letteratura italiana, Einaudi, Torino, 2007, p. 717, corsivo ns.).

Torniamo a quel “pianto” dell’Assiuolo per sovrapporre questo a un differente testo in prosa (e posteriore, ma com’è noto, Pascoli lavorava al contempo su diverse scrivanie), che pure sembra poter gettare luce sugli aspetti enigmatici della poesia in questione. Il modello critico della cosiddetta superposition testuale – qui grosso modo seguito -, proviene da Mauron, già indicato negli studi di Francesco Orlando raccolti negli anni Ottanta quale “primo mediatore letterario di una metodologia di derivazione freudiana” (F. Orlando, Le costanti e le varianti, il Mulino, Bologna, p. 12). In Mauron tale metodo, attraverso la sovrapposizione appunto di passi di una o più opere che presentino diverse coincidenze (lessicali, figurali ecc.) latenti sotto le loro varianti, “rafforzando certe linee – come nelle fotografie di Galton – delle strutture psicologiche costanti, fa sbiadire il tracciato delle varianti.” (F. Orlando cit., p. 9). Rispetto ai traumi originari, tuttavia, la documentazione del vissuto di un autore tramite i suoi testi restava limitata in Mauron a “scopo o prova”, mentre in Orlando diventava semmai “mezzo o controprova” (cfr. Orlando cit., p. 12), verso una semiotica freudiana dei testi a tutto vantaggio del versante testo/lettore.

Pur confinata nella diade autore/testo, comunque, l’ipotesi seguente di raffronto intertestuale ci sembra possa presentare qualche vantaggio: fornire un più definito piano fattuale alla myrica in questione; favorire il disinnesco di frequenti tic interpretativi bloccati sulla connessione – sempre privilegiata -, tra testi e lutto per la morte del padre del poeta; mettere in equilibrio il piano dell’impersonalità, sottolineato nel saggio citato di Curi (v. più av.), con gli aspetti dell’Assiuolo più strettamente dipendenti invece dall’Io lirico.

Pianto reale, rimosso, sinistro

“Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.” La citazione proviene dalla prefazione ai Canti di Castelvecchio, la cui prima edizione è del 1903 (citiamo dall’ed. a c. di F. Latini, in G. Pascoli, Myricae e Canti di Castelvecchio, UTET, Torino, 2002). Vi si evoca un’esperienza indimenticabile, un’abitudine vespertina condivisa dal poeta con la madre poco dopo la morte del padre. Tra i due non passano discorsi, il loro contatto è fisico, intensamente emotivo. Ascoltano insieme, guardano insieme: cosa? 

Se sovrapponiamo in filigrana la poesia a questa prosa – prescindendo dalle differenze tra i generi testuali -, e valorizziamo la sostanza semantica delle coincidenze lessicali considerando alcuni termini mere varianti di altri, possiamo rispondere con le parole dello stesso Assiuolo: sentono “cavallette” che scuotono all’impazzata “finissimi sistri d’argento”, e guardano “soffi di lampi” – sintagma sinestetico tra l’altro frequente in Pascoli, con echi virgiliani (rilevati p. es. da Traina, ma qui non resi pertinenti all’analisi). 

Abbiamo volutamente “schiacciato” un testo sull’altro per suggerire, nel modo più diretto, che il passo della prefazione citato potrebbe costituire il riferimento sul piano fattuale del travestimento, figurale e perturbante, attuato nei contenuti nella lirica. La  scena latente insomma (il pianto materno), dietro quella manifesta  (il “pianto di morte” dell’assiuolo). Cosa avrebbe reso necessaria, tuttavia, la rimozione di un vissuto un tempo familiare, presso un autore che invece rivendica apertamente in età adulta, a proposito dei gravi lutti consecutivi subiti, un rifiuto infantile rimasto inalterato nel tempo: “E io non voglio. Non voglio che sian morti.” (Prefazione cit.)?

Giovannino, il noi e l’Io emarginato

Isoliamo ancora un paio di frasi dal passo citato, per ulteriori considerazioni: “Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.” I due punti – tanto frequenti e originali in Pascoli -, cortocircuitano un nesso logico-semantico tutto da districare, tra il pianto materno e il vuoto di memoria circa i propri pensieri al tempo del consueto rito serale. Ma ci si può chiedere se Giovannino fosse davvero nella condizione di “pensare”,  scosso come doveva essere dai singhiozzi della madre, mentre teneva “la testa sulle sue ginocchia”. Sembra di poter cogliere insomma, un’avvenuta identificazione profonda con lei, con il suo dolore immedicabile, tale da rendere pressoché colpevole qualsiasi pensiero compassionevole da rivolgere necessariamente, in quei frangenti, anche a se stesso. Questa condizione marginale, residuale dell’Io, troverebbe un riscontro persino nel cantiere poetico più intimo e privato, quello appunto myriceo e garfagnino: “L’ ‘io’ di Pascoli non è mai solo, è sempre in famiglia, inseparabile dalla famiglia, attaccato e incollato all’istituto famigliare come la cozza allo scoglio e l’embrione all’utero.  Se non ci fossero i famigliari (…), il Pascoli darebbe a se stesso (…) poca o nessuna importanza: (…) l’interesse autobiografico e lo studio rivolto al proprio ‘io’, di tipo petrarchesco, o (…) di tipo proustiano (…) non definisce il Pascoli, e, in fondo, non gli appartiene.” (C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Quodlibet, Macerata, 2020, p. 20). La “corrente derivata” dell’Io – come la chiama Garboli -, potrà dunque filtrare nei testi lirici, ma senza essere ammessa esplicitamente.

Cerchiamo ora di rispondere alla domanda posta più sopra sui possibili motivi della rimozione, per tornare infine al testo dell’Assiuolo. Per una rilettura della lirica poggiata ora sulla base fattuale di quella scena, ci sembra pertinente l’ipotesi di un’avvenuta censura del bisogno/desiderio di sfogare il proprio dolore per il lutto allora recentissimo, perché vissuto come colpevole. Un lutto scisso da sè per un’eccessiva identificazione con la madre, che emerge come abbiamo visto tra le righe della prefazione. Il ‘noi’ famigliare, fin troppo manifesto nelle poesie antologizzate da Garboli, viceversa dissimulato nell’Assiuolo (dove sarebbe latente un ulteriore ‘noi due’ da soli, evidente nella Prefazione cit.), sospinge un Io alla deriva. Sembra avere, quel pronome plurale, un duplice statuto: deputato quasi liturgicamente a consolare, può coprire nel caso di Pascoli un’ambivalenza irrisolta circa i propri desideri non soggettivati (su questo concetto cfr. in gen. Recalcati, M.), e destinata a ‘tornare’ sotto altra forma: quella del perturbante in sede letteraria.

Impersonalità e Io lirico: il problema della formazione di compromesso

L’analisi testuale proposta da Curi verte essenzialmente sull’aspetto dell’impersonalità, ma si limita a considerare la prima strofa, in cui appaiono delle piante (il mandorlo e il melo) in atteggiamento antropomorfico solo apparente perché, secondo Curi, “non siamo in presenza di una personificazione degli elementi naturali, il testo comunica piuttosto un’eclissi del soggetto e un’invasione dello spazio scenico da parte degli oggetti” (F. Curi cit., p. 84, corsivo ns.). D’altra parte, lo stesso studioso estende indefinitamente il concetto di impersonalità fino a comprendere quella “prodotta dalla continua spersonalizzazione e disseminazione del soggetto nelle cose, dell’incessante regredire del pensiero a un universo di sensazioni e di emozioni.” (F. Curi cit., p. 86). Con ciò riconducendo virtualmente sullo stesso piano tutti gli aspetti della myrica  in questione. Al contrario, ci sembra preferibile mantenere una distinzione tra il piano dell’impersonalità e quello dell’Io lirico. Quest’ultimo trova espressione diretta nella nota, triplice, concitata anafora centrale del verbo sentire, che introduce una sorta di progressione  perturbante: dal regressivo “cullare del mare”, al “fru fru tra le fratte”, al “sussulto” nel cuore paragonato all’ “eco di un grido che fu” –

ricordiamo che nel saggio di Freud Das Unheimliche, la sensazione appunto del perturbante viene ricondotta “a quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare: ma che d’altra parte ha cessato di esserlo da un tempo quasi altrettanto lungo, poiché ‘è qualcosa di rimosso che ritorna’.” (F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, 19923). L’impersonalità (v. sopra Curi cit.) ci sembra riguardi, viceversa, la progressione drammatica del verso lugubre:  “veniva una voce dai campi”, poi “Sonava lontano il singulto”, infine “il pianto di morte” – interpretato da Contini solo rasentando il nodo psicologico, non senza suggerire tuttavia una permanenza della percezione funerea, per nulla dinamica (la staticità del verbo essere in Contini cit.), a dispetto della sua formale costruzione a climax.

Ci chiediamo allora se una  qualche formazione di compromesso tra istanze inconsce che premano alla coscienza dal tempo della scena descritta nella Prefazione citata (cfr. sopra), e istanze di censura annidate nell’ordine simbolico della lirica, non sia da ricercare in primis sull’asse dello spazio, evocato nel testo in modo impersonale, o viceversa in modo più direttamente dipendente dall’Io lirico – opportuno tenere presente che il concetto di formazione di compromesso deriva dal pensiero freudiano rielaborato nello specifico letterario già nei primi anni ‘70 come “esito semiotico o linguistico di uno scontro di forze, anche al di là di un ambito comunque definito inconscio.” (F. Orlando cit.).

Nell’ Assiuolo vediamo alternarsi con ritmo diverso, percezioni di cose lontane, vicine, interiori. In modo percussivo, con l’anafora si passa a una sorta di respiro corto – quasi a palpare ansiosamente la consistenza di sè avvertita viceversa come labile, evanescente -, dall’indistinto (il mare), al vicinissimo (le fratte), all’interiorità più profonda e inquietante. Con le cupe chiusure di strofa, invece, il lettore è rinviato a uno spazio lontano, secondo intervalli lunghi e regolari del suono.

Sembra plausibile insomma che l’eco inconscia del pianto proveniente dal corpo materno – sul piano fattuale contiguo a quello di Giovannino -, sia stata per così dire dislocata nella lirica in una più rassicurante, ma sempre perturbante, lontananza. E che in modo complementare, i brividi (ri)destati dalle percezioni di fenomeni vicini ai due corpi in contatto, nonché le analogie ancora più perturbanti, risultino frammentariamente addensati nel testo per una scissione dell’Io vissuta un tempo. Un Io negato, rimosso per un’ansia di colpevolezza, infine schermato e insieme comunicato nell’Io lirico che si scinde, appunto, e proietta nelle cose intorno, nei fenomeni naturali. Nello scuotimento surreale dei “sistri”, per esempio, i cui “tintinni” inascoltati alle “invisibili porte” sembrano alludere, nella nostra prospettiva, più a una domanda di contenimento del conflitto interiore su questa terra, che a un poco probabile spiraglio trascendente (dato il credo pascoliano, legato a una generica pietas connessa soprattutto al culto dei morti).

Conclusioni provvisorie 

Per indicare in sintesi la possibile formazione di compromesso in gioco nella lirica, diremmo che un’unica istanza fallita di riconoscimento dell’ambivalenza del proprio dolore, rimossa ma ritornante sotto specie di fantasma (il “chiù”), operi nel testo dell’Assiuolo ma su due differenti livelli di pressione psichica.

Quando ha più a che fare con l’identificazione eccessiva con l’altro, si trova respinta nella distanza, nell’impersonalità (v. sopra Curi cit.), e sembra più prossima ai modi del pensiero conscio (nonostante l’apparenza enigmatica del fonosimbolismo, tra suggestione fonica e allusione semantica). Quando viceversa l’istanza ha a che fare più direttamente con la propria ambivalenza profonda e misconosciuta (ma sempre da compensare), è mascherata in una prossimità spaziale, registrata dall’Io lirico con estrema concitazione (le tre anafore del verbo sentire, ravvicinate improvvisamente), in un modo più simile a quello tipico del pensiero inconscio, nonostante quest’ultimo si manifesti proprio attraverso un soggetto. Se a un’ “eclissi” di quest’ultimo assistiamo nella lirica – come afferma Curi (v. F. Curi cit.) -, ci sembra che ciò si verifichi, semmai, nella forma paradossale qui suggerita.

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