Quando Pasqua viene di maggio
quando l’olivo perde la foglia,
quando pisciano le galline…
(Detto contadino)
“I tempi sono più gravi di quanto non ci faccia comodo riconoscere da dentro la nostra ovatta di parole e la nostra presunta autonomia”: così, alla fine del gaudente decennio Ottanta, Goffredo Fofi chiudeva il suo volume Pasqua di maggio, un titolo ispirato a un detto contadino apocalittico e paradossale. Per ricordare oggi Fofi credo occorra partire dalla coerenza vitale del suo pauperismo egualitario, non solo per la traccia della città di Gubbio in cui è nato nel 1937, ma soprattutto per il suo esordio politico e civile: quando diciottenne approda in Sicilia, affianca il pacifista Danilo Dolci nelle battaglie contro la povertà, il latifondo e la mafia, per l’alfabetizzazione e per i diritti degli ultimi, e viene cacciato dai carabinieri con un memorabile foglio di via che recita : “per aver insegnato senza percepire uno stipendio”. Più avanti, con lo stesso spirito, animerà la “mensa dei bambini proletari” a Napoli e regalerà tutti i suoi libri alla Cineteca di Città del Messico e a una biblioteca del Salento.
Negli anni sessanta si sposta a Torino e partecipa alle nuove esperienze militanti che preannunciano il ‘68: scioperi, cineforum, corsi di italiano per gli immigrati del Sud, inchieste operaie da ciclostilare come insegnava a fare Raniero Panzieri con i suoi Quaderni rossi. Una di queste inchieste è un vero e proprio modello del lavoro critico e conoscitivo sul campo: L’immigrazione meridionale a Torino (1964), il libro che costò il licenziamento dalla Einaudi a Panzieri e a Solmi, scritto nell’epoca in cui nei bar del centro si potevano leggere i cartelli «Proibito ai cani e ai meridionali».
Fofi è stato un agitatore itinerante, fra Milano, Torino, Parigi, Roma, Palermo e Cagliari e, per oltre mezzo secolo, un infaticabile promotore di riviste: dai Quaderni Piacentini, fondati con Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio a Ombre Rosse, da Linea d’ Ombra a La Terra vista dalla Luna, dallo Straniero agli Asini. Polemico e controcorrente, ha intrapreso memorabili litigi, – con Fellini, con Moravia, con Calvino, con Fortini, – generati dalla necessità e dalla verità del conflitto, dall’ urgenza del dire e del disdire, dalla coerenza del dover scegliere quando si sta “sulle barricate”. Favorevole alla rivolta ma avverso sia alla violenza che all’intrigo del potere, ha combattuto l’egemonia omologante e corruttrice dei dispositivi culturali e giornalistici egemoni, ha tentato di stare sempre dalla parte delle minoranze ereticali, “con i sommersi” come Don Milani esiliato dalle gerarchie cattoliche o come Victor Serge, il comunista libertario in fuga dalla polizia di Stalin (si veda la sua illuminante Postfazione a Memorie di un rivoluzionario, e/o, 2012). Nella sua scrittura saggistica balena dunque una controstoria, diversa da quella divenuta egemone: l’Umbria, la fine della civiltà contadina, la Sicilia degli anni Cinquanta dei banditi e del sottoproletariato, la Parigi della Nouvelle vague, le lotte operaie, l’immigrazione interna, il ’68, la storia delle riviste degli intellettuali e degli educatori, i dialoghi e gli incontri con Nicola Chiaromonte, Raniero Panzieri, Franco Fortini, Grazia Cherchi, Elsa Morante, Elvio Fachinelli, Paolo Volponi, Marco Lombardo Radice, Alex Langer (Cfr. Le nozze coi fichi secchi, 1999). Appassionato di cinema, ha interrogato e interpretato i film con la stessa intensità e lo stesso impegno delle altre sue indagini pedagogiche e politiche: esemplare il suo Totò. L’uomo e la maschera (1968).
Fofi, che verrà forse rubricato come un “sessantottino” nell’accezione odierna, caricaturale del termine, e dunque come un “illuso”, dovrebbe essere viceversa indicato come un modello per chi scrive e per chi insegna: perché ha cercato di definire e di praticare una funzione non parassitaria e non servile del lavoro culturale. La funzione della cultura, per lui, è stata la “ricerca della verità” , il “dovere della conoscenza utile alla trasformazione”. La sua eredità è inscritta nel volume, introvabile, Pasqua di maggio. Un diario pessimista, (Marietti, 1988) in cui chiede all’intellettuale
«di trasformarsi semplicemente in qualcuno che, nel suo quotidiano uso della cultura, non dimentichi cosa questo comporta. E cioè l’ossessiva memoria dei fini, il dovere di non mentire mai, l’obbligo di parlare di cose che si conoscono davvero e nei modi più chiari per il destinatario che si ha in mente, la diffidenza nei confronti delle mode, il non aver paura di essere minoritari ma senza affatto vantarsene, il non subordinare mai nulla di tutto questo al proprio narcisismo (…) Altrimenti avremo (e abbiamo) solo intellettuali che sono una specie di parodia dei politici (…) o intellettuali che sono una specie di parodia dei giornalisti, e anime belle, infine, convinte della loro indipendenza e della neutralità del loro pensiero quando esso invece è ben funzionale ai poteri e alle logiche – non fossero che quelli della loro corporazione – che di fatto essi servono, anche se fanno finta di non saperlo». (pp. 219-220)
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Non ho nessuna voglia di denigrare Goffredo Fofi. Né di negare le cose buone che ha fatto. Ma non sopporto il rimembrare anodino, elogiativo, apolitico del personaggio pubblico, che si è scatenato alla notizia della sua morte. Piace, a quanto vedo, quasi a tutti. (Com’è capitato a Pasolini, come capitò a Gramsci). Ho letto tantissimi ricordi personali, troppo personali. Che tacciono o sorvolano o ignorano il contesto in cui Fofi ha agito e su quello in cui ci troviamo adesso. O che dimenticano i suoi (e nostri) limiti politici, le sue (e nostre) approssimazioni, il suo – sì – anticomunismo da pentito, che per me resta ancora una cartina di tornasole per giudicare la coerenza e il valore di un intellettuale. Pentito quasi come Bertinotti e tanti ex.
Lascio perdere certi commenti che mettono nello stesso minestrone Quaderni Rossi, Quaderni piacentini, Danilo Dolci, la mensa popolare di Napoli, Ombre rosse o Linea d’ombra o Lo straniero, senza più distinguere tra gli scopi dei Quaderni rossi e quelli – appunto – delle altre riviste citate.
Essi confermano la rimozione della storia degli anni ’60-’70, a cui Fofi e noi sopravvissuti abbiamo partecipato. E, però, con l’aria che tira (Gaza. Ucraina, ecc.), vorrei sapere che ne facciamo di tutta questa “Cultura” alla Fofi, così “indipendente” o della sua indicazione: ““Resistere, studiare, fare rete e rompere i coglioni”?
Cosa stiamo studiando? Che tipo di rete Fofi o noi siamo stati in grado di costruire? I coglioni di quali potenti, che assassinano indisturbati, stiamo rompendo?
Grazie per questo contributo che rende onore a questo intellettuale.
Politicamente, era un soggetto defunto da almeno mezzo secolo. Altro che rompicoglioni (come ben dice Ennio Abate): era un radicale anticomunista, quindi del tutto funzionale al sistema.
La “ricerca della verità” e il “dovere della conoscenza utile alla trasformazione” sono soltanto la lustra retorica con cui i suoi apologeti ricoprono una merce la cui sostanza era la pura e semplice conciliazione con lo stato di cose esistente.
@ Ennio Abate. Grazie. Mi permetti di precisare: non tutto ciò che ha scritto Fofi è condivisibile e non tutto va piattamente elogiato. Sugli esiti delle rivoluzioni dal ’17 in poi e sugli esiti degli anni settanta le sue posizioni sono controverse. E soprattutto lo stato delle cose (il grado di ingiustizia, di morte e oppressione, e di aperta giustificazione della legge del più forte) è oggi giunto a un punto tale che urgerebbe una messa in discussione di tutte le categorie con cui quelle rivoluzioni , quei tentativi e quelle rivolte sono stati condannati all’oblio, all’inesistenza e alla caricatura. In effetti Gaza è un’allegoria oltre che una realtà di sterminio. La prospettiva con cui ho voluto ricordare Fofi non è apologetica né tantomeno apolitica. Credo però che sia stato un intellettuale di altra stoffa rispetto ai giornalisti-servi che circolano oggi e che Edoarda Masi già vent’anni fa chiamava “‘intellettuali-pubblicitari”.
@ Enea Bontempi: non credo che “la ricerca della verità” sia riducibile a pura retorica né ad apologia del presente. Si tratta di una semplificazione pericolosa in base alla quale tutto ciò che non coincide con la “linea” è “nemico” e va denigrato Se tra le nostre macerie vi sarà un seme di rinascita dell’opposizione di classe, non potrà prescindere da una critica non borghese allo stalinismo. Ricordo che Franco Fortini nella sua “La statua di Stalin” ci ha lasciato un compendio di storia del
Novecento dal punto di vista di un marxismo antistalinista non volgare né dogmatico. Credo occorra ripartire da lì.
@ Emanuele Zinato
Grazie delle precisazioni. Concordo sull’urgenza di “una messa in discussione di tutte le categorie [ma proprio tutte! nota mia] con cui quelle rivoluzioni , quei tentativi e quelle rivolte sono stati condannati all’oblio, all’inesistenza e alla caricatura.”
Mi permetto – e spero che la redazione di “La letteratura e noi” non ne sia infastidita – di invitarti pubblicamente a intervenire anche su due discussioni in corso su Poliscritture a questi link:
– https://www.poliscritture.it/2025/05/26/compianto-sul-sessantotto/
– https://www.poliscritture.it/2025/07/16/il-comunismo-nel-buio-6/
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