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diretto da Romano Luperini

Rileggere Stanislaw Lem 3. Ritorno dall’universo: «hanno ucciso l’uomo… nell’uomo»

«Volli cercare una monografia sulla betrizzazione, scritta da Ullrich. Incontrai di nuovo l’ostacolo della matematica, ma decisi di sfondare comunque. Non era un procedimento che comportasse l’ereditarietà sul plasma, come dentro di me temevo. Del resto, se lo fosse stato, non ci sarebbe stato neanche bisogno di betrizzare ogni successiva generazione. Pensai a ciò con speranza. Restava sempre, almeno teoricamente, la possibilità di un ritorno alle origini. Si agiva sull’encefalo anteriore, nel primissimo periodo di vita, per mezzo di un gruppo di enzimi proteolitici. Gli effetti variavano: la riduzione degli impulsi aggressivi dall’80 all’88% nei confronti dei non betrizzati; eliminazione del manifestarsi di nessi associativi tra gli attacchi di aggressione e la sfera dei sentimenti secondari; riduzione delle possibilità di affrontare un rischio di vita personale, in media dell’87%».

Primo impatto

Dopo Solaris nel 2013, negli ultimi anni la casa editrice Sellerio ha ripubblicato altre due opere di Stanislaw Lem, L’invincibile (2020) e Ritorno dall’universo (2021), segno di un interesse rinnovato e non trascurabile anche del pubblico nei confronti di un genere e di un autore che, evidentemente, hanno ancora molto da dire al nostro presente. Nel tentare una lettura del testo, quindi, si proverà anche a rendere conto di queste possibili sollecitazioni.

Ritorno dall’universo (prima edizione 1976) — opera di Lem non certo nota quanto Solaris, anche se non meno audace — racconta il ritorno sulla Terra dell’astronauta Hal Bregg, dopo dieci anni di spedizione nello spazio. Sulla Terra, tuttavia, il tempo trascorso non equivale alla durata del viaggio intergalattico, perché sono passati centoventisette anni. Una circostanza nota agli astronauti alla partenza, ma che quando si concretizza nella progressiva presa di contatto con la nuova realtà terrestre assume contorni subito disturbanti. Sin dalle prime pagine, infatti, il protagonista, insieme al lettore, è catapultato in un mondo profondamente trasformato, al punto che le possibilità di intercomprensione tra Bregg e la nuova realtà sono estremamente ridotte. La Stazione terrestre nella quale l’astronauta approda dopo la discesa dalla Luna, dove si è conclusa la sua missione, è un intrico incomprensibile di costruzioni e strutture, colonne, fontane, televisori enormi che fanno da cielo, in un gigantismo tecnologico di trasparenze, luci, continui movimenti. Applicazioni di nuove acquisizioni scientifiche. Bregg, che non riesce ad accedere alla logica di questo estremo dinamismo, ne resta profondamente disorientato, al punto che abbandona la ricerca di quello che doveva essere il suo contatto sulla Terra. Questa Stazione ipertrofica, in cui il personaggio rischia di perdersi, è l’allegoria di cambiamenti ben più radicali che sono avvenuti, preludio di ulteriori dolorose prese di coscienza.

Un impossibile ritorno

Intontito e rassegnato, Bregg rinuncia a cercare il suo contatto e con fatica riesce a uscire dalla Stazione, ma più si inoltra nella città, più prende atto con sconcerto di nuovi cambiamenti. Non si tratta solo di innovazioni nell’architettura, nel modo di mangiare, nei mezzi di trasporto, nell’abbigliamento, nel modo di comunicare e di gestire i rapporti sociali. Nel linguaggio. Ogni innovazione allude a un punto di origine poco rassicurante. A casa di Nais, la ragazza incontrata subito fuori dalla Stazione, Bregg viene a conoscenza della betrizzazione (dal nome degli studiosi Bennet, Trimaldi, Zacharov), l’evento che ha segnato il punto di svolta epocale nella civiltà umana. Il protagonista ne approfondisce più avanti nel racconto la conoscenza. Deciso infatti a ritrovare un ambiente vagamente familiare, acquista una vacanza a Klavestra, vecchio villaggio minerario sul Pacifico, riconvertito a località turistica, dove si è volutamente mantenuta per fini commerciali la facies dei tempi antichi. Nella casa che condivide con una giovane coppia, Bregg ha portato con sé una serie di libri (nel nuovo formato, simile a quello degli attuali kindle) e studia. La betrizzazione è una procedura medica che agisce sul cervello dei neonati, per eliminare in loro gli istinti aggressivi, per cui non è data la possibilità per le generazioni di umani, nate e cresciute dopo la partenza di Bregg, di provare desiderio di uccidere o di fare del male a un altro essere umano. L’obiettivo della betrizzazione, cui tutti sono sottoposti per legge alla nascita, è l’eliminazione della violenza, l’azzeramento di ogni rischio per la vita dell’uomo, che si riflette nell’edificazione di un mondo su queste basi rinnovato (non mancano analogie con Mondo nuovo di Huxley). Dopo un’epoca di violenti conflitti sociali, perché in molti si ribellarono inizialmente all’imposizione di questa procedura, sulla Terra in cui ritorna Bregg nessuno ormai fa più lavori pericolosi, li fanno solo i robot. La tecnologia ha addirittura consentito di costruire i «gilder», piccoli mezzi di trasporto dotati di «cassette nere» che, in caso di incidente, ne assorbono tutta l’energia distruttiva, lasciando illesi i passeggeri. Bregg, come i suoi compagni di missione rientrati con lui (non tutti, alcuni sono morti nello spazio) non è betrizzato (la procedura è pericolosa per gli adulti). Inoltre, per le particolari condizioni fisiche in cui ha vissuto nello spazio, le sue cartilagini si sono allungate, ed è quindi molto alto. In più a causa della «gravitazione duplicata» i suoi muscoli, sottoposti a una doppia fatica costante, sono straordinariamente cresciuti. Ha quindi un aspetto fuori dall’ordinario che, unito alla non betrizzaizone, lo rende quasi un neanderthal, temuto e temibile.

L’uomo disumano…

In questo incontro dell’uomo contemporaneo, divenuto primitivo, con il suo sé del futuro, dunque, sta il cuore del libro. Il rapporto con l’alterità (si pensi anche alla Zona di Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackij), che in questo caso è appunto l’uomo nuovo, apparentemente progredito, è l’occasione per condurre una riflessione sull’umano, sulla sua specificità. Oltre a essere costantemente suggerito dalla dinamica del racconto, questo piano di riflessione è anche esplicitato nei dialoghi tra Bregg e il suo compagno Olaf il quale, muovendosi come lui in questa inedita realtà, è andato anch’egli in cerca di spiegazioni e risposte. Ed è proprio Olaf che trova le parole, che definisce negativamente l’ideologia del nuovo mondo come «una roba dolciastra», «una pasticceria», in cui loro hanno fatto «una cosa terribile», «hanno ucciso l’uomo… nell’uomo». Nel libro la betrizzazione e il sistema ideologico da cui discende sono funzionali alla soppressione dei conflitti sociali e interpersonali, a una gestione sicura dei rapporti, al superamento della violenza di genere — diremmo oggi, con terminologia aggiornata — alla garanzia della sicurezza quando si lavora, alla sicurezza quando ci si sposta con i mezzi di trasporto, e così via. Tutte istanze sacrosante (a parte forse quella di considerare come un dato positivo l’assenza di conflitti sociali, ma il libro non lo fa), alle quali il mondo costruito da Lem crede presuntuosamente — con una presunzione in perfetta buonafede, peraltro — di aver dato la giusta risposta. Chiaramente la soluzione è disvelata nel testo come una sofisticata forma di ipocrisia e di più o meno consapevole (auto)raggiro. Intanto perché, ad esempio, la possibilità di uccidere è appaltata ai robot, ai quali lo si può ordinare, sia pure in circostanze eccezionali. In secondo luogo perché si disconosce il fatto che il nuovo mondo, apparentemente senza violenza, è interamente fondato su una violenza terribile e primigenia, quella che appunto ha alterato biologicamente e psichicamente le caratteristiche dell’essere umano. Non è un uomo che si è evoluto, è un uomo che si è mutilato. Il rapporto tra il decisore politico e gli interventi sulla vita biologica delle persone, come si ricorderà, è stato al centro di accaniti dibattiti durante l’epoca pandemica, che forse troppo velocemente è stata dimenticata, senza che siano venuti da quella drammatica stagione adeguati insegnamenti per il futuro. Ciò che però sembra essere più interessante è l’analogia tra la dinamica distopica descritta da Lem e alcuni fatti che stanno avvenendo sul piano culturale, nella misura in cui il libro ammonisce rispetto al rischio di un egualitarismo conquistato a colpi di mutilazioni e cancellazioni. 

… e la macchina umana

La riflessione sull’uomo si dispiega nel libro attraverso un doppio movimento. Da un lato l’uomo disumano, alterato, cui sono stati chimicamente sottratti alcuni dei suoi tratti specifici. Dall’altro le macchine, i robot umanoidi. I robot sono parte essenziale della vita sulla Terra, adesso, uno strumento dell’efficientismo umano al servizio della pace sociale. In un passaggio cruciale del libro, Bregg accompagna Marger, l’uomo che con la moglie Eri condivide con lui la casa a Klavestra, all’interno di un deposito di rottami cibernetici. Rimasto solo nelle vicinanze di una baracca, viene attratto dall’eco di rumori che, avvicinandosi, si rivelano essere «voci umane» deformate, imploranti. Sono i resti dei robot dismessi, in attesa di essere eliminati, ma che conservando la coscienza della propria esistenza, si direbbe, minimizzano balbettando i loro difetti e supplicano di essere risparmiati. Della «selezione» dei robot da rottamare si occupano altri robot, in un ciclo continuo in cui l’uomo non interviene, per ragioni di economicità. Nel breve saggio, “Il doloroso imbroglio dopo i viaggi spaziali”, posto a conclusione dell’edizione 2021 di Sellerio, Francesco M. Cataluccio riporta una serie di connessioni che gli studiosi di Lem hanno rintracciato tra questo episodio (e il libro in generale) e la sua biografia. Ebreo, originario di Leopoli, dopo la fine della guerra si trasferisce a Cracovia e taglia ogni rapporto con Leopoli, diventata una città ucraina. «Dopo aver lasciato Leopoli visse come su un altro pianeta, molto isolato. Scrivendo oltretutto di fantascienza e ragionando di cibernetica» scrive Cataluccio, che aggiunge (citando la studiosa Agnieszka Gajewska) come, in questa cornice, il metodo di distruzione dei robot descritto nel libro e preceduto dalla selezione «assomiglia allo sterminio di massa degli schiavi nei ghetti e nei campi di concentramento». È vero, si tratta solo di robot «ma non potevo dimenticare quel padiglione, quell’oscurità, quelle voci rotte, quel disperato balbettìo, in cui c’era troppo significato, troppo timore comune» dice Bregg dopo quella visita. Dietro il «timore comune», la paura della fine, inoltre, si cela anche l’elegia ontologica del robot umanizzato, che cosciente della propria esistenza e capace dunque di riflettere su di sé, cerca in tutti i modi di evitare la “morte”. È l’elegia che si fa dramma, crudelmente espressa, ad esempio, anche dagli androidi di Blade runner (figure affatto diverse da quelle del libro di Philip Dick, da cui è tratto il film) alla ricerca di «più vita». Senza spingerci qui a riflettere su ipotesi avveniristiche di macchine coscienti, il funzionamento delle AI, la definizione delle caratteristiche del pensiero di queste intelligenze e il loro rapporto con gli esseri umani sono comunque diventati oggi temi centrali nel dibattito non solo specialistico. Tuttavia, tra allarmismi forse infondati su sviluppi futuribili ed esaltazioni visionarie, non ci si rende conto non solo che dalla nostra interazione con le macchine siamo già usciti trasformati, come individui e come collettività, ma che siamo già mescolati alle macchine più di quanto non riusciamo a razionalizzare (basti pensare dove sono arrivate le sperimentazioni di Neuralink di Elon Musk), e che il tutto è avvenuto e sta avvenendo senza che questioni etiche imprescindibili, come quelle legate ad esempio alla privacy e alla cessione e al controllo dei dati, anche in campo educativo, siano state adeguatamente affrontate. 

L’uomo nell’universo, ovvero della conoscenza

La distanza tra Bregg e la Terra del futuro come sopra congegnata non potrebbe risultare tanto smisurata se non fosse costantemente presente nel testo l’orizzonte fisico e temporale dell’esplorazione nello spazio, la profondità del Cosmo. E attorno a quel viaggio intergalattico, sempre alluso, il protagonista si arrovella. L’inquieta riflessione di Bregg e il suo scetticismo si appuntano con ossessiva insistenza sul senso di quei viaggi, mentre egli considera cosa si è sopportato in nome della conoscenza, se in definitiva ne sia valsa la pena, dato che le esplorazioni della sua epoca non avevano più alcuna ricaduta pratica. Anche per questo, oltre che per la loro pericolosità, la Terra ha sospeso i viaggi nel Cosmo, che condannavano peraltro gli astronauti a un reducismo di dolore e alienazione, proprio come nel caso di Bregg. Destinazioni sempre più lontane avevano costretto gli astronauti a distacchi sempre più lunghi dalla Terra, rendendo quasi inattuabile la comunicazione al ritorno. Eppure quei viaggi si erano fatti, per quanto le poche memorie che se ne conservano nel presente del libro siano quelle che passano attraverso la trasfigurazione eroica, che Bregg rifiuta («nessuno andrebbe più nel cosmo, se sapesse com’è laggiù»), o quella romantica, proprio come con un misto di romanticismo qualcuno guardava alle grandi esplorazioni del Cinquecento, secoli dopo. Ma da questo riduzionismo ingenuo (o esaltatorio) dell’impresa (fanta)scientifica, deriva un’altra sollecitazione preziosa per l’oggi. Nel nostro presente, dove anche i saperi sono diventati capitali da vendere e scambiare, in definitiva asserviti alla tecnica, sono ancora esperibili forme di conoscenza non finalizzate a una immediata spendibilità pratica? 

Conclusione

La risposta a questo interrogativo, che ha molto a che vedere anche con l’educazione dei nostri giovani, sta forse in quelli che sono i passaggi più alti della prosa di Lem. Quelle parti, meravigliose e angoscianti, nelle quali la tecnica descrittiva di Lem è capace di materializzare porzioni di universo, e fatti estremi e impensabili che vi accadono. È, in questo libro (nel racconto a Eri, diventata sua moglie), la discesa su un insolito planetoide per tentare di recuperare Thomas, membro dell’equipaggio andato in esplorazione e disperso nel pulviscolo che si è sollevato al contatto. Una sosta non prevista, dettata dal desiderio irrinunciabile di osservare una «rarità» del cosmo (le due navicelle della missione si chiamano Prometeo e Ulisse). In quest’universo che si dischiude sereno e tremendo, in un misto di lirismo e realismo, si può intravedere anche il senso ultimo dell’esplorazione, dell’atto conoscitivo. La sua intrinseca bellezza. La coscienza di aver oltrepassato un limite. Di essersi fatti interiormente più grandi. E la dolorosa accettazione di questa insopprimibile istanza, per quanto possa rivelarsi vana, è anche l’atto conclusivo del libro. Se è vero, infatti, che Ritorno dall’universo, come altre opere di Lem, ripropone la dialettica tra ambizioni della scienza e limiti della conoscenza umana proprie di un preciso periodo storico (oltre a Solaris, si veda anche L’indagine) — una dialettica qui anche oggettivata nel dialogo finale tra Bregg e Thumber, uno degli scienziati della missione intergalattica — è vero anche che questa dialettica interna al protagonista alla fine si ricompone, se Bregg può dire nel finale: «Per la prima volta solo, ma non straniero sulla Terra, già sottomesso anche alle sue leggi, potevo senza ribellione e senza rimorso, pensare a coloro che si preparavano a volare sulle stelle alla ricerca del vello d’oro…». Parole dette a sé stesso — sconvolto per aver saputo che una nuova missione si prepara in segreto — dopo aver peregrinato tutta la notte, tra l’oscurità delle montagne, in un ambiente stavolta completamente naturale, che fa da pendant alla Stazione dell’incipit. E attraverso questo contatto viscerale con la terra, ritrova sé stesso, nell’accettazione della sua contraddizione come tratto fondativo dell’essere uomo. 

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