
Il polveroso splendore. Sandro Penna nel teatro di Elio Pecora
Ama e ridi se amor risponde
Piangi forte se non ti sente
Dai diamanti non nasce niente
Dal letame nascono i fior
(Fabrizio De André, Via del Campo)
Via Sandro Penna a Perugia non la trovate nel centro storico, accanto alle varie case abitate dal poeta e in mezzo ai vicoli dove sciamano a volte i turisti. Dovete prendere l’auto e dirigervi in periferia, nella zona industriale, dove tra capannoni di automobili e altro si apre una strada che corre verso ovest e si perde tra campi incolti verso il nulla o l’infinito. Non piace quasi a nessuno, perduta tra sterpaglie e desolata. A me, nelle giornate di sole, sembra proprio giusta per Sandro Penna: manca un fiume, un greto, ma mi sembra a volte di vedere la sua sagoma e il suo cane stagliarsi nel contrasto di un cielo limpido e perdersi chissà dove, un po’ come Charlie Chaplin e Paulette Goddard nell’inquadratura finale di Modern Times. In fondo lo splendore polveroso si addice al poeta del secolo scorso, collocandolo sia in un vagabondaggio da esterno giorno, sia nel suo letto ampiamente filmato in una specie di interno notte rischiarato da una lampadina, con finestre rigorosamente serrate, carte farmaci succhi di frutta libri giornali e ritagli tutto intorno in una sorta di “immondezzaio” che può nascondere frammenti di versi, parole divenute talismani lucenti, a volte oracolari.

Via Sandro Penna a Perugia
Il dialogo di Elio Pecora con l’ombra di Penna
In quell’interno di Via della Mole de’ Fiorentini a Roma, un giorno di gennaio del 1977 lo scrittore e poeta Elio Pecora trovò il corpo senza vita di Sandro Penna. Forse già in quel momento nacque in lui l’idea di scrivere una biografia, poi puntualmente realizzata nel 1984 e più volte rieditata (ora intitolata Nel dolce rumore della vita, Neri Pozza, 2022). Pecora in realtà non ha mai interrotto il suo dialogo con il poeta di Perugia e da pochi mesi ha dato alle stampe il suo Tutto il teatro, edito da Il Simbolo di Maurizio Gregorini e introdotto con ammirevole chiarezza dal curatore Marco Beltrame. Il ponderoso volume di oltre 400 pagine, oltre a raccogliere i testi drammaturgici di un autore che anche in questo caso fa della parola poetica uno strumento potente di eleganza e rappresentazione dando spesso voce al ruolo della donna nella società patriarcale, a volte rivisitando il mito come nel caso di Alcesti, ristampa alcuni contributi che ci restituiscono la voce di Sandro Penna rielaborata con empatia e verità dal suo amico e biografo più importante. È quello che accade, ad esempio, nel monologo del 1986 A metà della notte, ispirato alla figura di Penna e a quella di Juan Rodolfo Wilcock, in cui il Poeta vive da tempo chiuso in casa, infissi sbarrati, intento a raccontare malvolentieri la propria vita a un registratore. E nel buio appena rischiarato della scena, il mondo esterno ritorna attraverso i fantasmi: le ombre della madre, da cui tutto ha avuto inizio, e di un ragazzo, del quale il Poeta diventerà a sua volta madre e figlio, come a perpetuare il filo rosso del destino, a “ripetere l’errore” che segnerà la sua solitaria esistenza. Il fantasma di Penna si riaffaccia poi in Epiloghetto del 2018, un breve dialogo tra Elio Pecora e Sandro ritornato come ombra a invadere lo spazio dei vivi e che rivela molto della persistenza penniana come angelo/demone nella coscienza di chi lo ha coltivato. Qui lo spunto intrigante è quello che fa risalire l’origine dell’”immondezzaio” in cui viveva il poeta al funerale della madre, oltre il quale ha inizio quel caos in cui Pecora si addentra come “trafficante nel chiuso delle vite altrui”, realizzando una sorta di speculare e duplice seduta autoanalitica.

Frammenti di una biografia teatrale
La mia è stata una luce piccola, forse a momenti abbagliante.
Mi piace pensare che qualche mio verso resti nella memoria
di un ragazzetto attento, di una donna gentile.
Il contributo più corposo dell’autore è però senz’altro Una follia quieta, monologo affascinante che ripercorre in un flusso sinuoso la vita di Penna tra adolescenza e vecchiaia, già rielaborato e portato in scena da Massimo Verdastro nel 2017. Il punto di partenza del racconto penniano al magnetofono (nella realtà fornito dall’editore Garzanti per una ipotetica biografia) viene rielaborato con una sapienza lirica che sfida la frammentazione per riproporre lampi di esistenza, struggenti momenti di quella vita che Penna condusse fuori dal mondo eppure nella storia, vissuta prima tra le strade assolate e poi nel buio “malato” della sua stanza, insonne viaggiatore in attesa della fanciulla finale. Nel suo antro dagli infissi sbarrati il poeta perugino ripercorre momenti della sua esistenza dai pochi viaggi (soprattutto a Milano e Firenze, da Saba a Trieste, a Porto San Giorgio per rivedere la madre e conoscere Acruto Vitali, l’amico dalla voce potente e ispiratore delle sue letture francesi, Proust Baudelaire Rimbaud) e dalle rapide illuminazioni, come quella da cui nacque il miracolo della poesia: in un mattino di sole piangevo, vittima di una “tristezza sconfinata”; “a un tratto m’entrò negli occhi un brillore. Su un tetto lontano un pezzo di vetro brillava nel sole come un diamante (…) Venne la felicità (…) La serena disperazione che avrei letto qualche anno dopo nella poesia del mio caro Saba”. Pecora rappresenta Penna come un re chiuso in un tempio delfico, trasforma l’immondezzaio della sua stanza in un luogo sacro dove cercare fogli scritti come pepite d’oro. E da quel tempio si sprigionano ricordi che danno senso a una vita di opposti, nata dal disagio familiare e compiuta in una solare incapacità di adattarsi all’esperienza comune, trascorsa tra amici pittori e poeti inseguendo sempre l’amore fugace e la bellezza, dal cugino Quintilio al ragazzo ebreo Ernesto, annientato in un campo nazista, fino alla Battini, il suo amatissimo cane della vecchiaia, “la creatura che non conosce colpa” e suo ultimo dolore. La scrittura di Pecora si ammanta di una grazia poetica che investe il personaggio Penna ricreando un eterno adolescente che soffre d’insonnia, chiama gli amici nottetempo chiedendo loro quanti Optalidon ha ingerito per rimandare quella morte che lo sorprenderà nel sonno: “uscirò per sempre da queste stanze un mattino di gennaio”. Dopo “sgombreranno le stanze dal ciarpame” e quel tempio tornerà agli uomini comuni, al Comune di Roma.
Elio Pecora è forse l’ultimo testimone che può ancora raccontare Penna, farsi narratore di una vita scarsamente pubblica e ricostruita con pazienza sulla ricerca di carte e documenti, lettere e fotografie disperse, lavoro che lo ha portato a Perugia nella scuola, il Vittorio Emanuele II, che Penna frequentò tra una malattia e l’altra nei primi anni dell’era fascista, o a Porto San Giorgio dall’amico Acruto Vitali, l’uomo il cui “talento maggiore era una straripante allegria”. E fortunatamente la stella di Sandro Penna non conosce l’oblìo, grazie anche agli studiosi che continuano a interrogarla, all’edizione critica della sua opera nel prestigioso Meridiano curato da Roberto Deidier, talvolta anche alla sua città di origine capace di organizzare mostre sorprendenti come quella di cui abbiamo parlato proprio qui, in altra occasione. Attività e impegni che appaiono quasi eroici, perché coltivare oggi la sublime inutilità della poesia e la figura disfunzionale e libera di Penna somiglia ormai a un atto di pura, appassionata resistenza.

Una follia quieta, regia di Massimo Verdastro
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