Su “Il sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe Corlito
Dopo il romanzo storico-politico L’uso della vita. 1968 (Transeuropa, 2013) di Romano Luperini, lui e Beppe Corlito con il libro Il Sessantotto e noi. Testimonianza a due voci (Castelvecchi, Roma 2024, pp 160, Euro 18,50) ritornano a porre al centro della loro indagine il ’68: «Per qualche mese, a partire dall’inverno 2022-2023, gli autori di questo libro hanno discusso sul Sessantotto. Un paradosso ironico. In quelle settimane andava al potere in Italia un governo di estrema destra, il più a destra nella storia della nostra Repubblica. E noi discutevamo invece dei giorni in cui sembrava possibile progettare un futuro migliore, vagamente socialista, in cui tutti ci saremmo sentiti più realizzati, senza forti dislivelli sociali e senza autoritarismi, più eguali e più liberi. Pensavamo allora che non volevamo morire democristiani; e ora ci troviamo invece a temere di dover morire fascisti o postfascisti. In questa situazione ha ancora senso parlare del Sessantotto? Il libro che presentiamo vorrebbe essere una scommessa che questo senso sia ancora possibile». Nel libro i due autori ricostruiscono la stagione dei movimenti agli occhi del presente, con uno stile semplice, comunicativo e riflessivo, intrecciando i ricordi autobiografici con la ricostruzione storica, con tanta dovizia di particolari, e ponendo al centro della loro discussione le questioni più importanti che hanno segnato un ventennio della nostra storia repubblicana e dell’intero pianeta: innanzitutto la natura del movimento studentesco, e poi il suo legame con gli altri soggetti sociali, innanzitutto con la classe operaia, il rapporto della sinistra rivoluzionaria con la tradizione marxista, con la violenza e il terrorismo, con il movimento femminista, ecc. Per come viene impostato il libro potrebbe benissimo intitolarsi Storia critica del lungo sessantotto italiano. Sia Luperini che Corlito hanno partecipato in prima persona al sessantotto: il primo come ricercatore e come co-direttore della rivista pisana «Nuovo impegno» (1965-1977), uno dei periodici più importanti della nuova sinistra che ha contribuito a preparare il sessantotto, e il secondo come studente liceale.
«Il 1968 è diventato – come il 1848 – un anno per antonomasia, – proseguono Luperini e Corlito – perché ha rappresentato una svolta planetaria (più del 1848, che fu solo europeo), uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo. In noi, che abbiamo preparato e “fatto il Sessantotto”, questo anno ha lasciato un’impronta indelebile. E non solo perché nessuno può dimenticare la propria gioventù. Ci sembrò allora che tutto il mondo fosse giovane come noi e il cielo che volevamo assaltare più a portata di mano».
In effetti a tantissimi anni di distanza il ’68 appare sempre di più come un evento epocale che ha segnato non solo la vita di chi vi ha preso parte ma per circa un ventennio la storia dell’intero pianeta («una sorta di dono della storia», come ha scritto Luciano Della Mea, ricordato nel libro). Nata negli Stati Uniti d’America («nel cuore dell’impero») nel 1964 con la rivolta dell’Università di Berkeley la contestazione studentesca si è poi diffusa, negli anni successivi, per contagio o per germinazione spontanea, in molti paesi del mondo, governati da sistemi politici differenti, fino ad esplodere proprio nel 1968. È stato un lungo ciclo di proteste che ha avuto come principale protagonista un nuova generazione di giovani che al totale rifiuto del sistema imperialistico, della società opulenta e del socialismo burocratico unì la messa in discussione dei valori tradizionali, di qualsiasi tipo di gerarchia, di autorità e di istituzione sociale (lo stato, la scuola, la famiglia, la religione, l’esercito, ecc.), a cui viene contrapposto un ideale di vita comunitario, il sogno, l’utopia di un mondo diverso, libero da barriere, dalla guerra e dalla violenza, da schiavitù morali, da differenze di genere, etniche e sociali. I protagonisti di quelle lotte ad un certo momento hanno scoperto che dietro l’immagine rassicurante e paternalistica di un potere che prometteva a piene mani progresso e felicità a tutti si nascondeva un «universo orrendo» dominato da un regime di guerra e di violenza, dalla legge del più forte, da una casta di potenti, da un progresso scientifico e tecnologico abnorme che metteva in dubbio persino la sopravvivenza dello stesso genere umano. «Noi siamo persone di questa generazione, cresciute in un comfort alquanto modesto, alloggiate nelle università, che però guardano con sconforto al mondo che hanno ereditato. La nostra opera è guidata dalla sensazione di essere l’ultima generazione che fa l’esperimento della vita». La contestazione studentesca ha rappresentato uno dei tanti movimenti antisistema degli anni sessanta e settanta ma è stato, almeno nel nostro paese, quello che ha sortito gli effetti più duraturi e più radicali. Come ha scritto la grande filosofa tedesca Hanna Arendt «La ribellione studentesca è un fenomeno globale, ma le sue manifestazioni variano molto, naturalmente, da paese a paese, spesso da università a università». In Italia i moti studenteschi sono scoppiati spontaneamente all’inizio del 1967 (ma i primi fermenti già si erano manifestati nel corso dell’anno precedente dopo l’uccisione dello studente socialista Paolo Rossi da parte di una squadraccia neofascista), con l’occupazione di alcune importanti università, per protestare contro la guerra del Vietnam, la riforma del ministro Gui (la legge 2314), l’autoritarismo accademico e il disagio degli studenti. Nel corso dell’anno accademico successivo la protesta si è via via allargata all’intero sistema universitario italiano raggiungendo il livello di massimo sviluppo nei primi mesi del ’68. Quindi per vari mesi gli studenti universitari sono stati i maggiori (se non i soli) protagonisti della scena politica italiana, tanto è vero che Rossana Rossanda in un libro scritto a caldo ha definito giustamente il ’68 «l’anno degli studenti». Come è stato ripetutamente notato, si è trattato di un fenomeno di massa complesso e dalle diverse anime, un movimento interclassista e inizialmente pacifista e non violento che si è evoluto ed allargato rapidamente fino a paralizzare l’intero sistema universitario italiano. E in effetti per le modalità e il luogo in cui si manifestava il movimento studentesco era un fenomeno politico completamente nuovo, totalmente diverso dalle proteste politiche del passato che sovvertiva tutte le previsioni, tutti gli schemi teorici e politici tradizionali e consolidati. E difatti il baricentro del conflitto non era più rappresentato dalla fabbrica, bensì dall’istituzione universitaria e scolastica. Dal dicembre 1967 al giugno del 1968 l’attività di quasi tutte le università italiane e di molte scuole venne paralizzata, a causa delle continue agitazioni e occupazioni studentesche. Vennero organizzati sit-in a sostegno del popolo vietnamita e dei compagni arrestati, gruppi di studio, contro-corsi, in alternativa alla didattica baronale, su tematiche specifiche (Psicoanalisi e repressione, La guerra del Vietnam, La storia del movimento operaio, ecc.). Come ha scritto successivamente Guido Viale, «Molta della cultura del Novecento è entrata nell’Università italiana con le occupazioni: per una domanda degli studenti in lotta e non per autonoma evoluzione degli interessi dei docenti». Furono attuate nuove forme di lotta e di partecipazione politica in contrapposizione alla linea burocratica, verticistica e moderata della sinistra tradizionale, privilegiate forme di democrazia diretta e di partecipazione dal basso. Così le vecchie rappresentanze politiche studentesche vennero definitivamente travolte e superate, con il rifiuto della delega, sostituite da un regime assembleare che divenne, con tutti i suoi limiti, il luogo e il centro della discussione e della elaborazione politica, durante la quale tutti i partecipanti potevano prendere la parola e esprimere la propria opinione e votare liberamente. I protagonisti delle lotte studentesche compresero subito che nel sistema capitalistico le strutture scolastiche e universitarie non sono autonome da quelle produttive ma vennero considerate strutture di dominio della classe dominante, di selezione e di integrazione sociale. «All’Università» è stato scritto in un documento, «s’impara soprattutto a comandare e ad ubbidire». E nel saggio Contro l’università Guido Viale paragona il docente ad un poliziotto che in occasione degli esami «in 5-10 minuti liquida l’imputato con una serie di domande». Il movimento studentesco respinse qualsiasi progetto riformistico e al potere autoritario e selettivo del sistema universitario e dei suoi baroni ben presto venne contrapposto un potere (o un contropotere) studentesco che voleva imporre le proprie regole, che chiedeva non solo l’istituzione di un nuovo sapere e di un nuovo sistema formativo e pedagogico, ma anche una nuova scala di valori, un nuovo modo di concepire la politica e di praticarla, con l’obiettivo di trasformare l’uomo e la società, di rovesciare il mondo. Quindi l’azione del movimento studentesco non metteva soltanto in discussione un determinato sistema culturale, un modello di Università e di Scuola ormai considerato inadeguato, obsoleto, altamente selettivo, manipolatorio e autoritario, ma qualsiasi tipo di autorità, cioè investiva i rapporti di classe, la morale, il costume, lo stile di vita e i valori dominanti. Per i protagonisti delle lotte quello fu un momento esaltante e di grande carica emotiva, perché essi erano sorretti dalla convinzione e dall’illusione che con il loro impegno avrebbero contribuito a cambiare la società. Quindi ad essere attaccato non è solo la gestione baronale dell’Università, la neutralità della scienza e della cultura, la separatezza dell’intellettuale, ma l’intero sistema politico e sociale, l’assetto del potere costituito. Così ad un ideale di vita borghese e rassicurante gli studenti in lotta contrapponevano un ideale di vita anticonformista, di tipo solidale e comunitario. Tutto passava attraverso un intenso processo di socializzazione, e al richiamo al buon senso si rispondeva con il disprezzo delle regole e dei valori e degli istituti dominanti. Il sogno degli studenti sessantottini era infatti quello di creare una sorta di «mondo alla rovescia» basato sulla libertà di tutti, l’uguaglianza e la fraternità. Al comunismo burocratico sovietico e alla via italiana e democratica al socialismo di togliattiana memoria venne contrapposta un’idea di «comunismo diverso», basato sulla partecipazione dal basso dei soggetti sociali. Il movimento studentesco ha quindi rappresentato una sorta di detonatore politico che ha istaurato un clima di rottura e di conflittualità diffusa, un progressivo allargamento e moltiplicazione del conflitto. Così col passare dei giorni la contestazione studentesca si è trasformato in un soggetto rivoluzionario di massa, propagandosi agli altri ordini scolastici e all’intera società diffondendosi pressoché su tutto il territorio nazionale. Sulla spinta della rivolta studentesca altri soggetti sociali (operai, insegnanti, tecnici, impiegati, ecc.) via via si sono mobilitati spostandosi su posizioni radicali. Persino i corpi dello Stato (la magistratura, la polizia, l’esercito) e le cosiddette «istituzioni totali» (le prigioni e i manicomi) vennero contagiati da questo spirito di rottura che ebbe sul sistema politico e sociale italiano l’effetto di una scossa tellurica innescando una grande forza d’urto, una sorta di reazione a catena, scompaginando vecchi assetti di potere, gerarchie e valori consolidati e liberando energie e una profonda volontà di cambiamento. In Italia l’alleanza di centro-sinistra che reggeva le sorti del nostro paese dal 1962 e che aveva esaurito da tempo la sua fase più propulsiva e incisiva subì un vero e proprio scossone, e tutto il sistema politico e sociale entrò in corto circuito, incapace di recepire le istanze del movimento studentesco e di capirne la vera natura. E così di fronte alla critica radicale che nasceva dal seno dell’università e che si diffondeva come un’epidemia nei vari gangli della società italiana le autorità accademiche e il ceto politico dirigente del nostro paese (e di tutti i paesi interessati dal fenomeno della contestazione) risposero adottando la linea dura, con la repressione e l’uso della forza, con l’adozione di un regime poliziesco. Inizialmente la Tv e gli altri mass-media dedicarono agli studenti in lotta scarsa attenzione ma dopo i primi scontri essi furono sbattuti in prima pagina come mostri e demoni da esorcizzare. E la sordità delle autorità accademiche e del governo, l’azione repressiva della Magistratura e delle forze dell’ordine «ebbe l’effetto di aggravare la frattura fra i giovani e lo stato». Ecco perché gli studenti ribelli per rispondere alla forza eversiva e illegale dello stato, hanno abbandonato la resistenza passiva e la nonviolenza e hanno reagito con «la violenza della lotta illegale organizzata». Da questo punto di vista, lo scontro di Valle Giulia (Roma, 1 marzo 1968) ha rappresentato una svolta, nel senso che da quel momento i protagonisti del movimento non son fuggiti più, cioè hanno risposto alle violenze dello stato e delle forze dell’ordine.
Detto questo devo specificare che condivido totalmente il discorso sul ’68 italiano effettuato dai due autori del libro che lo consiglio a tutti, specialmente ai giovani che poco sanno della storia degli anni sessanta e settanta. Infatti, Luperini e Corlito hanno presentato un’immagine per molti versi nuova del lungo sessantotto italiano, sollevando delle riflessioni poco considerate dalla storiografia corrente, tuttavia vorrei richiamare l’attenzione su due questioni che meritano a mio avviso di essere approfondite, e cioè innanzitutto sul primato della politica e il rifiuto della letteratura tipico della cultura del 68; secondariamente, sul passaggio dal movimento studentesco e dalle lotte operaie del secondo biennio rosso alla formazione delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria.
Il ‘68 e il rifiuto della letteratura
Sul primo punto penso che sia il caso di sottolineare ciò che affermava Fortini in pieno ’68 nel saggio Il dissenso e l’autorità e nella Prefazione alla seconda edizione di Verifica dei poteri, dove si pronuncia contro la formula del suicidio dell’intellettuale e il rifiuto della letteratura:
Quando parlano – con Mao o Guevara – dell’“intellettuale che si deve suicidare come tale” pronunciano una formula che il pensiero religioso conosce benissimo. È il diniego di sé provocato da un senso insostenibile di colpa, originato, in questo caso, dal privilegio di cui l’intellettuale continua a godere, lo voglia o no, nella nostra società e non solo nella nostra società. Ma l’unico modo, per l’intellettuale, di “suicidarsi” è quello di contribuire – da intellettuale, se questo significa col meglio delle sue capacità – alla fine della categoria separata degli intellettuali. Questo alcuni studenti lo sanno. Lo sanno anzi i migliori, credo. I suicidi – reali o simbolici – degli scrittori servono solo a restaurare il mito dello scrittore. Bisogna vivere, altro che storie; e lavorare a mutare il mondo per mutare se stessi. […] Il lavoro rivoluzionario dev’esser fatto da tutti non da uno, come diceva quel tale parlando della poesia; ed è fatto da tutti o almeno da molti, dalle masse. […] Non si tratta nemmeno di “aiutare” le lotte di giovani; certo non di strofinarsi ai giovani, alle loro assemblee, al loro gergo. Ma chi abbia tenuto ad osservare negli scorsi vent’anni qualche norma elementare di igiene morale e mentale, si tratta solo di continuare il proprio lavoro. Mi sembra miracoloso, un privilegio non meritato, che parole o manoscritti infilati in una bottiglia tanti anni fa abbiano trovato dei destinatari. E invece non c’è nulla di miracoloso, le cose succedono così e naturalmente si pensa a quelli che avrebbero dovuto essere qui con noi a vederle.
Il movimento studentesco predicava il “rifiuto della letteratura” e il “suicidio dell’intellettuale” e Fortini così rispondeva in maniera autocritica:
Il mio errore non era, così credo oggi, nella sopravvivenza di una ostinata vocazione o presunzione letteraria, con i suoi vizi e le sue decorazioni, per entro discorsi che si valevano di ideologie e di politica. […] E nemmeno era, il mio errore, in quel che i più benevoli amici mi rimproveravano, ossia di civettare con le allegorie del linguaggio religioso. No, il mio errore era, diciamolo, di non aver sufficientemente difeso l’insostituibilità del discorso poetico e letterario. Era l’errore di avere eccessivamente esaltato l’afasia, la tragicità, l’impossibilità della parola letteraria, di aver non solo ceduto alla tensione orgogliosa di un diniego della propria vocazione ma per aver incitato altri a farla; quando invece si può volgersi ad una vocazione nuova solo al fine di raggiungervi un grado di autenticità e valore più alto di quello antecedente al mutamento o conversione.
Con questa autocritica e accorata difesa della letteratura e della sua vocazione di poeta Fortini non intendeva solo rispondere ad Asor Rosa, che nel saggio L’uomo, il poeta del 1965 lo aveva criticato esortando gli intellettuali ad abbandonare l’esercizio letterario e artistico per dedicarsi totalmente all’impegno politico, ma prima di tutto reagire al disprezzo verso la letteratura manifestato dagli studenti in rivolta, al loro iper-politicismo che di certo stava assumendo forme nuove e più estreme ma che aveva radici lontane e dei riferimenti precisi nel dibattito su “letteratura e politica” avviato sin dai primi anni sessanta proprio da Fortini e da Asor Rosa e da altri esponenti della nuova sinistra.
[…] molti hanno rilevato che i più giovani e i più decisi a volere nuove forme di vita associata dicono di avere poco o punto interesse per la letteratura e la poesia. È facile profetizzare che pagheremo tutti assai caro l’eventuale rifiuto a ricercare, di quel disinteresse, le vere ragioni; perché è facile sentire che un unanime appello ai moventi più seri della scrittura e della poesia sale dal fondo dei più antiletterari documenti della nuova lotta contro la società presente.
Sta di fatto che questo urgente richiamo alla prassi apriva la strada al rifiuto dell’istituto dell’intellettuale che in quanto tale doveva trasformarsi radicalmente per votarsi interamente all’azione rivoluzionaria, porsi totalmente al servizio delle masse.
Genesi e sviluppo della sinistra rivoluzionaria italiana negli anni settanta
Sul secondo punto bisogna considerare che molti sono i motivi che hanno portato alla formazione delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. Tuttavia è necessario precisare che nel corso della primavera del 1968 tra le fila del movimento studentesco prese sempre più piede la convinzione che senza il partito non sarebbe stato possibile fare la rivoluzione. Da questo punto di vista il maggio francese per le sue modalità di svolgimento ebbe sul movimento italiano un effetto dirompente e un’influenza veramente profonda. In Francia nel corso del mese di maggio era successo qualcosa di veramente straordinario: in seguito alla rivolta degli studenti si erano mobilitati milioni di operai, di intellettuali e di cittadini francesi che si erano ribellati al potere costituito mandando in tilt il sistema economico e la vita di un intero paese e mettendo in fuga persino il generalissimo De Gaulle, che era stato costretto a riparare in una località ignota. Insomma, si era realizzato una sorta di “miracolo” e per un mese la Francia era stata sull’orlo di una nuova rivoluzione, attirando nuovamente l’attenzione del mondo intero. Ma la vittoria del gollismo alle elezioni di giugno e la sconfitta della contestazione e dell’estrema sinistra francese spinsero i protagonisti del movimento italiano ad avviare una profonda riflessione sugli esiti delle lotte nel nostro paese e nel mondo e sulle prospettive future. Come ha scritto Antonio Benci «quanto accaduto nei mesi di maggio e giugno in Francia nonché buona parte della fraseologia del Maggio fungono da evidente esempio e lezione per il movimento italiano». Seguirono mesi di intenso dibattito e di riflessione. E con la ferma intenzione di imprimere al movimento stesso un salto di qualità e di allargare l’area della contestazione, coinvolgendo altri soggetti sociali, innanzitutto la classe operaia, viene posta all’ordine del giorno il problema dell’organizzazione rivoluzionaria capace di creare e di guidare un nuovo processo rivoluzionario che si riteneva già in atto. Quindi, a partire dalla seconda metà del ’68 e nel biennio successivo sulla scia della contestazione studentesca e dell’autunno caldo, si affermò sempre più la convinzione che occorreva costruire alla sinistra del PCI e del PSI un partito in grado di incanalare i movimenti di protesta verso uno sbocco rivoluzionario, in grado appunto di avviare un radicale cambiamento in senso comunista della società italiana. Ebbe così inizio la stagione dei nuovi gruppi della sinistra rivoluzionaria che, nel bene e nel male, segnarono la storia del nostro paese fino e oltre alla metà degli anni settanta e che si contrapposero alla linea riformista, revisionista e consociativa della sinistra storica e del sindacato. Però è importante precisare che i gruppi dirigenti della sinistra rivoluzionaria non solo non riuscirono a costruire una piattaforma teorica, politica e organizzativa unitaria, una sintesi tra le diverse anime della nuova sinistra ma furono incapaci di interpretare e di recepire adeguatamente le istanze di cambiamento e la spinta libertaria e antiautoritaria e quella domanda di democrazia diretta che nascevano ed emergevano dai settori più radicali della società civile, ed in particolare dall’universo femminile, le novità e i cambiamenti che si verificarono nel corso degli anni a livello nazionale e internazionale. Infatti, alla fin fine a prevalere furono il dogmatismo, il settarismo, le divisioni, la competizione e la contrapposizione ideologica tra i vari gruppuscoli, ciascuno dei quali agiva nella ferma convinzione di essere il solo detentore della giusta linea, della purezza e della verità rivoluzionaria; un fenomeno questo che si è imposto nel corso di quel periodo tra le diverse formazioni politiche sorte alla sinistra del PCI e del PSI, all’indomani del ’68 e accentuatosi nel corso dei primi anni settanta e che hanno condizionato il percorso, i risultati elettorali e la stessa efficacia della loro azione politica e culturale sul contesto politico italiano. Tra i gruppi più importanti il primo a sorgere fu l’Unione dei comunisti italiani, con il suo giornale «Servire il popolo», seguirono poi Avanguardia operaia, Potere operaio, Lotta continua, Il Manifesto, La lega dei comunisti e Il Movimento studentesco milanese ecc. Fu un fenomeno molto diffuso nato dalla divisione e dalla contrapposizione tra le diverse anime della contestazione che portò alla nascita di centinaia di sigle, alcune a carattere nazionale e altre a carattere locale, collettivi, circoli, cellule, gruppi di studio e d’intervento. Tutti questi tentativi nascevano dal bisogno di rifondare la sinistra su basi rivoluzionarie e classiste, ma il modello organizzativo a cui si ispiravano quasi tutti i leader di questi nuovi partitini era quello leninista e maoista, o addirittura stalinista, anche se inizialmente, come ha sottolineato lo storico torinese Diego Giachetti, più che delle organizzazioni ben strutturate esse «avevano caratteristiche molto informali, molto movimentiste. Nascevano senza un congresso costitutivo, non avevano statuti e regole che definissero i criteri della militanza e gli obblighi degli iscritti».
Il nerbo dei gruppi era costituito dai giovani, studenti universitari e medi, insegnanti e operai che si erano formati e si formeranno nel corso delle lotte della fine degli anni sessanta e dei primi anni settanta. Tra i vari partiti c’erano molte differenze di carattere teorico-politico e organizzativo, ma ciò che li accomunava era l’idea di avviare un processo rivoluzionario per rovesciare il sistema capitalistico e lo stato borghese nel tentativo di instaurare una società comunista, con una costante ed esasperata polemica nei riguardi del Partito comunista e delle organizzazioni sindacali tradizionali, un sempre più esasperato ideologismo e settarismo. Durante tutta la loro durata i gruppi furono costretti ad agire in condizioni molto difficili: per la mancanza di risorse economiche, per la netta contrapposizione che si creò con gli apparati dello stato, con la destra, con l’intera stampa e con il sistema dei partiti tradizionali. La vita di queste organizzazioni prevedeva un frenetico e martellante attivismo supportato da un impegno pressocché totale da parte dei militanti e degli aderenti osteggiati da tutti e che prevedeva lo svolgimento di varie mansioni (riunioni, manifestazioni, l’affissione di manifesti, la stesura di volantini e tazebao e la loro distribuzione…). La produzione delle loro pubblicazioni si reggeva sull’auto-finanziamento e sulla diffusione militante.
Quindi la sinistra rivoluzionaria non fece che riproporre, in un sistema a democrazia avanzata, schemi teorici, dogmi ideologici, mitologie per molti versi antiquate e forme organizzative di tipo gerarchico e verticale, a danno di quella domanda di democrazia diretta che era emersa nel corso delle lotte del biennio precedente, con la convinzione che la rivoluzione comunista stesse per scoppiare da un momento all’altro e che bisognava conquistare con ogni mezzo il cuore dello stato. Come hanno scritto Nanni Balestrini e Primo Moroni ne L’orda d’oro:
Questa svolta organizzativa, quantunque determinata da un processo di costrizione reale, ebbe come conseguenza immediata l’eliminazione e l’emarginazione di tutta l’area creativa-esistenziale (libertaria-beat-underground-situazionista) dal territorio delle università, mentre contribuì in modo determinante alla divisione del movimento in gruppi e partitini, spesso patetica imitazione dei modelli maggiori.
Si venne così a creare una sorta di forbice tra i movimenti di massa e le nuove forme di rappresentanza politica, in gran parte ostacolate dalla dura repressione statale e padronale, dalla strategia della tensione e dalla presenza di un grande partito comunista, forte di una lunga tradizione di lotte e di un profondo radicamento sociale e culturale, e di un sindacato altrettanto forte che aveva in gran parte raccolto e fatte sue le istanze di radicale rinnovamento emerse durante le lotte operaie dell’autunno caldo e dei movimenti sociali degli anni successivi. Nonostante questi limiti di fondo le formazioni della sinistra rivoluzionaria segnarono, nel bene e nel male, la storia politica di quella singolare stagione arrivando a svolgere una funzione antagonista e critica in senso anticapitalista, nei riguardi del regime democristiano, della linea riformista del movimento operaio tradizionale, contribuendo alla difesa dei valori fondanti del nostro sistema democratico, alla sconfitta dei reiterati tentativi di una svolta a destra del sistema politico italiano, di aver contribuito in maniera determinante con le loro lotte a mettere in crisi un vecchio assetto di potere, antidemocratico e autoritario, a contribuire al raggiungimento d’importanti conquiste sociali e civili, a difendere e a salvaguardare i diritti dei più deboli. Pur con molti limiti, inoltre, essi cercarono di imporre una nuova cultura politica d’ispirazione marxista e rappresentarono un fondamentale punto di riferimento e un momento di aggregazione per centinaia di migliaia di militanti, per lo più appartenenti alle giovani generazioni, che nel corso di quegli anni sperimentarono un nuovo modo di intendere la politica, un nuovo tipo di militanza, di pratica sociale, culturale e politica, un nuovo modo di considerare la vita e il senso della comunità. Non a caso nacquero proprio in quel periodo una moltitudine di iniziative e di progetti, tre quotidiani e tantissime riviste, alcune effimere altre più durature, che rappresentarono dei veri e propri laboratori teorici e politici, con la creazione di nuove forme di comunicazione politica, un nuovo modo di fare giornalismo, tra polemica diretta e controinformazione, un diverso modo di concepire il ruolo dell’intellettuale radicale in rapporto ai soggetti e ai movimenti sociali esistenti. Da questo punto di vista la strategia della «lunga marcia attraverso le istituzioni» attuato dai gruppi rivoluzionari – che penetrò persino nelle cosiddette “istituzioni totali” (esercito, prigioni, manicomi) e intendeva modificare radicalmente la condizione degli esclusi e dei “dannati della terra” – deve essere considerato uno degli aspetti più significativi del lungo sessantotto italiano.
Bisogna però considerare che con gli attentati del 1969 e la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre e la morte di Pinelli, si conclude la fase più esaltante del ’68 e dell’autunno caldo e si apre uno dei periodi più bui e drammatici della storia del nostro paese, di grande instabilità politica. Da quel momento ebbe inizio il periodo più drammatico di quel fenomeno che si suole definire “strategia della tensione”, con cui gli apparati statali, i servizi segreti deviati, i golpisti, i terroristi neofascisti ecc. tentarono di instaurare un clima di terrore e di allarme permanente cercando di influenzare l’opinione pubblica al fine di giustificare l’instaurazione di uno stato di polizia e di una restaurazione politica e di bloccare il pericolo di una conquista del potere da parte della sinistra; una fase storica e politica in parte nuova, in cui l’itinerario e l’attività dei partiti extraparlamentari si è trasformata in una continua corsa ad ostacoli; un periodo di durissima conflittualità politica e sociale e di contrapposizione frontale, e tra le avanguardie dei partiti rivoluzionari e dei movimenti e le forze dell’ordine che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di violenza, di sangue, di attentati, di misteri, di ferite ancora aperte. In quel particolare contesto assume una particolare importanza la questione dei rapporti tra i partiti della sinistra rivoluzionaria e la violenza, un fenomeno ben radicato che affonda le radici nel clima di dura contrapposizione ideologica tra destra e sinistra, tra tentativi di colpo di stato, stragi terroristiche e la violenza del regime democristiano e dello stato, causando la morte di molti giovani e di parecchi rappresentanti delle forze dell’ordine. Pur con le dovute differenze, è bene ricordare che nel corso della loro vita l’uso della violenza era parte integrante del bagaglio ideologico dei gruppi dell’estrema sinistra, da non confondere però con le modalità d’azione seguite dei gruppi terroristici clandestini (Brigate rosse, NAP, ecc,). Ha scritto lo storico Diego Giachetti che
Non ci fu gruppo dell’estrema sinistra, vecchio o nuovo, che in quei primi anni del decennio non si pose il tema della violenza e della lotta armata. Esso, come si evince dalla lettura della pubblicistica, fu prospettato e analizzato nella stampa della sinistra extraparlamentare. Gli esiti di questo gran parlare di violenza, insurrezione, legittimazione storica della lotta armata, non furono affatto omogenei nei comportamenti e nel modo di agire. Prova ne è che la scelta della lotta armata riguardò solo una parte minoritaria della militanza di nuova sinistra. L’adesione a una prospettiva rivoluzionaria prevedeva in quegli anni l’accettazione implicita della violenza, intesa come strumento a volte necessario per condurre la lotta politica contro la reazione conservatrice e la forza, sovente ai limiti della legalità, delle istituzioni repressive. Ma ciò non volle dire accettare una strategia insurrezionale fondata sulla lotta armata, né predisporsi a costituire o a aderire a organizzazioni clandestine che tale modalità di lotta già praticavano.
A tutto questo è da collegare il processo di militarizzazione dei servizi d’ordine, spesso in contrasto tra di loro e che sovente operarono oltre i confini della legalità democratica. Come ha scritto Donatella Della Porta
Nel corso degli anni 70, un fattore che legittima la violenza è la diffusione, nella controcultura della sinistra, dell’immagine di uno stato violento e ingiusto, di uno stato, cioè, che ha violato le stesse regole del gioco democratico. La giustificazione più forte per l’uso della violenza viene dalla convinzione che lo stato sia mandante e complice delle stragi di innocenti che hanno insanguinato il nostro paese. Negli anni che seguono alla strage di Piazza Fontana, i militanti vivono nella paura di un colpo di stato autoritario. Qualsiasi sia la reale probabilità che esso si realizzi, i timori hanno un impatto diretto sulla vita degli attivisti della sinistra, non solo radicale. Fra i più radicali si diffonde la convinzione che sia necessario equipaggiarsi per la resistenza. Numerose biografie documentano una identità cospirativa, caratterizzata dalla paranoia del colpo di stato.
Questo giudizio è confermato da Nando Dalla Chiesa:
L’utilizzazione del terrorismo fascista da parte dello stato è ormai un dato certo, documentato anche nei processi imposti dalla mobilitazione democratica. […] È certo che il disegno che mirava alla svolta autoritaria attraverso un clima di tensione e di paura creato dagli attentati, ha avuto le sue radici in settori delle forze armate, della polizia, dei servizi segreti, degli alti gradi dell’amministrazione statale. I governi democristiani e le forze moderate hanno creduto di poter utilizzare la violenza fascista, soprattutto negli anni dal ’69 al ’74, come strumento di contro-mobilitazione, per controllare le lotte sociali. La violenza di destra ha trovato nell’apparato di stato, e nell’atteggiamento dei governi, coperture, sostegni e complicità che solo lunghi anni di mobilitazione e il coraggio di alcuni magistrati democratici hanno permesso di mettere in luce.
E quindi l’uso della violenza trovò una sua giustificazione nella situazione politica che si venne a creare a partire dalla fine degli anni sessanta. Ed è proprio in quel clima di duro scontro politico che nacque e si sviluppò anche il terrorismo di sinistra che svolgerà un ruolo sempre più attivo nel corso degli anni settanta.
Nel 1972 si tennero le elezioni politiche anticipate in un clima politico estremamente esasperato. Alcune organizzazioni rivoluzionarie decisero di presentare liste separate: Il Manifesto presentò alla Camera come capolista Pietro Valpreda in 28 circoscrizioni, mentre al senato diede l’indicazione di votare PCI; l’Unione dei comunisti italiani si presentò in 23 circoscrizioni; Lotta continua e Avanguardia operaia decisero invece di astenersi, mentre Potere operaio diede indicazione di voto per il Pci o il Psi. I risultati elettorali segnarono il fallimento dei vari tentativi elettorali; neppure Il Manifesto raggiunse il quorum. Persino il PSIUP prese una batosta e si sciolse: una parte consistente dei suoi militanti confluì nel PCI e nel PSI, mentre coloro che non condivisero questa scelta fondarono un nuovo partito: il PDUP che due anni dopo si unirà al gruppo del Manifesto.
Alla débâcle della sinistra rivoluzionaria corrispose un rafforzamento elettorale del Pci che proprio all’inizio degli anni settanta aveva avviato un processo di rinnovamento politico e organizzativo. Nel 1972 venne eletto come segretario nazionale Enrico Berlinguer che l’anno seguente dopo il golpe cileno lanciò la strategia del “compromesso storico”. Secondo lui l’Italia stava vivendo un periodo molto difficile, segnato da una grave crisi economica, dalla violenza terroristica, tra stragi impunite e tentativi di colpo di stato. Per questo motivo era necessario unire per il bene del paese tutte le forze democratiche. In questo modo il PCI si candidava a diventare forza di governo, nel tentativo di condizionare la linea politica della Dc e di scongiurare il pericolo di una svolta conservatrice. Ovviamente i gruppi rivoluzionari condannarono la svolta politica operata da Berlinguer, ma al loro interno incominciavano ad emergere i primi segnali di logoramento in seguito all’offuscamento dei miti e dei modelli rivoluzionari. Il 1973 è anche l’anno dello scioglimento di Potere operaio che portò ad una ulteriore frammentazione del fronte rivoluzionario, alla formazione dell’area dell’autonomia e al graduale rafforzamento del terrorismo rosso. Nel 1975 Lotta continua tenne il suo primo congresso nazionale e alle elezioni amministrative dello stesso anno diede indicazione ai suoi militanti di votare PCI, mentre AO e il Pdup composero il cartello elettorale di “Democrazia proletaria” che ottenne un risultato incoraggiante. Alle elezioni politiche dell’anno seguente, alla forte avanzata del Pci corrispose la sconfitta del cartello elettorale denominato Democrazia proletaria, nato dal difficile tentativo di unire gli spezzoni più importanti della sinistra gruppettara ormai in forte crisi di rappresentanza e profondamente lacerata da spinte interne, in particolare dalla comparsa di un nuovo soggetto politico e sociale, il movimento femminista, che in maniera sempre più dirompente mise radicalmente in discussione i vecchi apparati partitici e le tradizionali gerarchie politiche e sociali consolidate assumendo un ruolo sempre più di primo piano nello scenario politico e sociale italiano e internazionale. Lo scioglimento di Lotta continua, avvenuto al secondo congresso nazionale di Rimini del novembre del 1976, rappresentò di fatto il segnale più evidente di una crisi irreversibile e già in atto da tempo dei gruppi minoritari e la fine di un ciclo politico che aveva scompaginato vecchi assetti di potere, gerarchie sociali consolidate, liquidato una mentalità retrograda e bigotta. A causa di ciò nel biennio successivo si venne a creare nell’area dell’estrema sinistra un profondo vuoto politico e morale, e in particolare in ampi strati del mondo giovanile iniziò a diffondersi un forte senso di sfiducia, di delusione e di disfacimento che aprì la strada da un lato al cosiddetto riflusso e dall’altro al rafforzamento dei gruppi terroristici. Molti militanti si trovarono di colpo senza punti di riferimento in un quadro economico, politico e sociale per molti versi mutato rispetto al decennio precedente, segnato dalla “politica dei sacrifici” imposta dal governo di unità nazionale, dalla recrudescenza del fenomeno terroristico e dalla dura repressione di uno stato autoritario e liberticida. Il movimento del ’77 se da un lato appare come il preludio a nuove forme di azione collettiva, supportate da un’ondata di creatività diffusa, per altri versi rappresentò l’ultimo fuoco di una stagione politica e sociale che aveva lasciato dietro di sé un cumulo di rovine e di detriti. Anche se ciò può apparire scontato, bisogna ricordare che la fondazione di DP giunse in un momento molto particolare e travagliato della storia della nostra Repubblica, nell’aprile del 1978, cioè nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle BR, quando ormai l’onda lunga del ’68-’69 si era completamente esaurita ed era radicalmente mutata la situazione politica nazionale e internazionale rispetto a pochi anni prima, ed erano falliti miseramente tutti i tentativi di costruire nuove formazioni politiche alla sinistra del PCI e del Psi. Da questo punto di vista mi pare che nei protagonisti di quella vicenda abbia prevalso più un senso di continuità che di discontinuità con la stagione precedente. La fondazione di Democrazia proletaria deve essere considerata di fatto come l’ultimo tentativo di creare una sinistra alternativa sulle ceneri della nuova sinistra, un riferimento politico per tutti quei militanti che rifiutavano sia la linea riformista della sinistra storica, sia il nuovo assetto politico ed economico nazionale e il nuovo ordine mondiale e sia la deriva terroristica e il ritorno al privato. Ma bisogna ricordare che è principalmente mancato al gruppo dirigente della nuova formazione politica e ai suoi intellettuali la forza di fare severamente i conti con un ingombrante passato, un’analisi seria e approfondita delle ragioni che avevano causato il fallimento di quelle esperienze teoriche e politiche legate alla cultura comunista e socialista, un ripensamento dell’apparato teorico marxista e la capacità di dare vita a un nuovo pensiero radicale.
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Editore
G.B. Palumbo Editore
La storia è andata così,
la vita anche.
Mutare il ribrezzo in lucidità,
la speranza in certezza.
e in impazienza.
Vi è per la nostra generazione di (ex-)militanti una riflessione che va fatta: è la riflessione sulle ragioni della sconfitta del Sessantotto. Del resto, coloro che appartengono a quella generazione non credo che, se hanno senno e discernimento, possano idealizzarla (così almeno suppongo) né tantomeno contrapporla a quella odierna, anche perché ritengo, alla luce dell’esperienza, che la generazione del Sessantotto si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento ad ogni costo. Per quanto mi riguarda, io desidero sottolineare che è questa la parte cui mi onoro di appartenere, la parte che del Sessantotto conserva una consapevolezza talmente fondamentale per chiunque abbia a cuore la propria (e l’altrui) libertà, che ritengo doveroso evocarla attraverso uno slogan di rara potenza di quell’‘annus mirabilis’: «chi non fa politica la subisce», indicandone anche l’autore, che è don Lorenzo Milani (giova qui ricordare che uno dei filoni ideali del ’68 è stato quello che faceva capo al ‘dissenso cattolico’ e alle ‘comunità di base’). Una consapevolezza che è fondamentale perché si basa sul principio secondo il quale la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata, pagando, se occorre, anche un duro prezzo. Purtroppo, la ‘generazione del Sessantotto’, ossia degli attuali ultrasettantenni, non è stata in grado se non in misura assai modesta di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli “anni formidabili” ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono, e a volte esprimono in modo palese, il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del Sessantotto li avevano e anche per questo poterono contestarli). Sia chiaro che qui non ci si riferisce ai guru o ai demagoghi, ma ai maestri autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo.
La storia dell’Italia repubblicana dimostra, peraltro, che tutte le svolte del trentennio successivo alla Liberazione sono state segnate da un marcato protagonismo giovanile: così fu per la “generazione delle magliette a strisce” che, quando nel giugno del 1960 il neofascismo rialzò la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita ad una Nuova Resistenza e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana a Firenze in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì questa città, simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale; così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che, in sinergia con le lotte operaie, ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-1969 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e quindi arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dello yuppismo e del rampantismo da una società sempre più appiattita su un’immagine di edonismo consumistico e di futilità televisiva. Ma questa è ormai la cronaca degli anni ’80 e ’90 e dei decenni successivi, quando la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi nella problematica del disagio, della devianza e dell’emarginazione.
Certamente, sul Sessantotto e sulla sua natura bifida – moto di emancipazione inscritto nella prospettiva della rivoluzione socialista e/o processo di modernizzazione capitalistica – c’è ancora molto da scavare, molto su cui riflettere, molto da chiarire. Ed è per questo che ho trascritto come epigrafe di queste considerazioni i versi stupendi (e stupendi perché giusti) di un poeta, di un saggista e di un intellettuale che è stato un interlocutore appassionato e partecipe delle vicende politiche, culturali e ideologiche della “generazione del Sessantotto”: Franco Fortini.
1. Non bisogna confondere il 68 con la sinistra rivoluzionaria. Come tutte le grandi rivoluzioni il 68 è durato circa un anno. Già a settembre al Convegno di Venezia le avanguardie del movimento studentesco uscirono divise e all’interno di Potere operaio toscano c’è stato il dibattito sull’organizzazione, con Relazioni di Adriano Sofri e Luciano Della Mea e Interventi di Romano Luperini e Lia Grande.
2. L’autunno caldo è durato una sola stagione, spezzata dalla bomba di Piazza Fontana del 12 dic.
3. Se il 68 è nato dal contributo di una sola generazione, e l’autunno caldo dalle lotte operaie, alla sinistra rivoluzionaria contribuirono diverse generazioni.
4 Diversi sono i motivi che hanno decretato la sconfitta della sinistra rivoluzionaria: Innanzitutto, dall’autunno del 69 il regime democristiano, i gruppi neofascisti, i servizi segreti ecc. si sono alleati per contrapporsi ai movimenti e ai gruppi rivoluzionari che stavano tentando di modificare radicalmente la società italiana; secondariamente la sconfitta della sinistra rivoluzionaria è dovuta anche ai suoi errori, cioè alla frammentazione, al settarismo, alla contrapposizioni ecc. degli stessi gruppi.
5. Al contrario di quel che si pensa il 68, l’autunno caldo e il movimento femminista non sono stati sconfitti, invece i gruppi della sinistra rivoluzionaria sì.
Queste cose sono state chiarite molto bene da Luperini e Corlito nel loro libro. Scusate se sono stato schematico.
Poesia lunga della crisi lunghissima
che fare compagni / di speranze raggrinzite?
nella città si preparano non percepibili eventi / dagli scantinati arrivano rumori di scalpelli / e dopo pause allarmanti / schianti / pavimenti immagino in disordine / calcinacci / assenze di mobili / libri a terra sparsi / e opuscoli su realtà provvisorie / che ci convinsero a metà / a tre quarti / di sbieco / conservati per scrupolo / quando c’illudevamo ancora di sostituirli / con dieci / cento incontri / purgati da equivoci e passività / dal chiacchiericcio di via Vetere1 / bandiera rossa / stinta / e penzoloni / sotto le piogge lugubri / di inverni conclusi
andarsene ora / traversando la Milano guardata in centinaia di cortei / con sospetto e ira / e ritrovar1a immobile per noi / che ci fingiamo estranei / di passaggio / e niente ascoltiamo / se non il chiacchiericcio / dei pensionati / o vorremmo ritelefonare / ma non serve / all’amico / all’amica / persi di vista / ricontrollare stacchi / inaridimenti / desideri sprofondati / viltà inesplorate / sbrigative semplificazioni
carte d’affanno / rimescolatevi!
seguo da radio e giornali / la metamorfosi / che si sporge / in cronachetta / annusamenti / contorto elucubrare / e pare che / trapassando a nuova fase / (dicono i più svegli / i cinici / ormai sfebbrati) / sia stato partorito / un pedestre giudizio universale / con rantolare / di pochissimi / cadaverici personaggi / e s’addensi / in tessiture fitte e veloci / una pioggia / di brevi / bizzarri / bisogni / prima che il tergicristallo /(lo chiamavamo storia) / non li spiani / impietoso / per qualche giorno / che si sa / l’erba dei più arditi / ricresce / e resta sempre / un triangolo d’ombra / in cui s’accovaccia / l’attesa / di far ruotare ancora noi / così inesistenti / i prismi delle nostre e altrui intelligenze e passioni / in modo che un filo di luce / assieme / di nuovo strettamente / visibilmente / le ricucia / mentre invece il tergicristallo passa e ripassa / e se insistono le gocce / di cronaca gelida / presto si spiaccicano / s’addossano languide / se gonfie di passato / scorrono / illiquidendosi / e tornano / preistorie insistenti / impietose condanne a metafore naturalistiche / traspaiono / pesanti eredità / l’intellettuale scissione riemerge / con mortuaria imponenza / ripiombando le classi / nel fenomenico naturale / nell’evoluzionistico broglio / nel contagio d’inconsce ascendenze / in miti / di profondità / in putrefatti ricordi
non è contingenza / dunque / che estratti da questi anni / tossendo polvere di moda / si torni in zona esterrefatta / o poetica / a riconoscere l’amputazione / no / non si riforma il partito delle luccicanti gocce / sotto le plasticate sfoglie / della città riciclata / la calamita delle classi in lotta ci agita / ma in più convulsa limatura / in schegge atomizzate / di produzione e improduzione / in discorsi sfracellati / filosofie annerite / soffia / mulinella dunque / altro vento? / no / s’alleggerisce / barcolla / altre molecole pesanti ondulano / come relitti sul mare / e sospettiamo ristrutturazioni impensabili / e la parola s’inceppa in gola / o rotola / per i vialoni / deserti adesso / dal flusso di folla di allora / e le vicende / diciamo / se le diciamo / in patetico / anemico dialetto
uno sputo catarroso / il sessantotto / non la calamita onniprensile / che emergeva / attraeva / si delira / sotto puteolenti compromessi / e famelici nouveaux philosophes / su montagne di surreale spazzatura / rivendicano / saccheggiano / impacchettano / il facile operaismo da pop-artisti della politica / che in ghirigori viene offerto / strenna drogata / in mezzo a macerie / recenti macerie / e dov’é la calamita ora? / restano escrescenze / delle classi in lotta / resta / dopo tanto sentir oscuro / e pensar grigio / in quest’ultimo anno / il più ricco d’attentati / solo torpore / rabbia / e qualche intelligenza / che ci volge indietro / a un passato / orecchiato / sprofondato assieme alla gente magramente contadina / con cui vivemmo / giorni senza ribellioni / e si disegnano profili di generazioni / che si diedero tremando la mano / per tutto il dopoguerra / e / mormoranti / e incerti / monaci di fronte a resti di paganerie / ne decifriamo il ricamo / le cuciture / l’ affanno / lo scetticismo / mentre là fuori i barbari / già si ritirano / e nessuno capisce perché / e si dice che torneranno / e non si sa per fare che
ma il passato / s’è ghiacciato? / è sfinge? / è nuvola diacronica? / se ottusamente / ci appiattiamo in quotidiani e imposti amplessi con le periferie / tra torme di giovani disoccupati / scolorite intelligenze / nelle latterie della rimasticatura / sulle sodomizzanti catene di montaggio / che vomitano / vomitano / e s’arrestano buie / ronfando / e che diciamo? / ascoltano Guccini / s’occupano di fotografia / continuano logoranti riunioni / s’imbarcano su navi sventurate / oh Iolanda! / s’iscrivono / amputati / al PCI / programmano un dibattito / raccolgono sfoghi / riprendono contatti / lavorano nelle biblioteche / s’iscrivono alle serali / vanno all’università / si sposano / fanno un figlio / trafficano nel sindacato / tentano un giornaletto / scrivono poesie / si suicidano / muoiono a San Vittore / sparano a Roma / fanno cose frivole / e atroci / e non s’interrogano / o troppo teneri / troppo brumosi / s’interrogano / sotto il lenzuolo sporco / dell’esperienza troncata
dunque / restare talpe / di cielo non ne vedremo più / riconoscerci in zona infida / nell’intrico di rapporti algosi / in nascondimenti tra le righe / movimenti da amebe / precoci invecchiamenti / spolverare il consapevole / esplorare asfalti d’inconsapevolezza / essere vigili controllori della sconfitta / che nessuna voglia di volantino / e d’improvvisa teoria / rabbercia / galleggiare su un limaccioso proletariato / rimuginare / sotto lampade di mezzanotte / un pensiero acre / sbozzolarlo / in testardi interrogatori / di oggetti / case / prezzi / volti / parole / amici / donne / nemici / gatti / insetti / erbe / macchine / morti / scavare / in cerca di odio intelligente / (“tu dici fortini per maestro?”) / maturare / nel tunnel inatteso / temuto / dove s’è udito / prima come un colpo di morte / arrivato di botto / e poi spari ritmati dall’alto / e si palpa sfacelo di cose / disfarsi di generazioni
(24 gennaio 1978 / 2012)