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diretto da Romano Luperini

Con questo intervento di Alberto Bertino, inauguriamo la sezione “long form”. Si tratterà di veri e propri saggi, di lunghezza superiore rispetto a quella degli altri nostri articoli. Per questa ragione, oltre alla normale funzione “stampa”, disponibile per ogni nostro pezzo, per i long form sarà possibile uno specifico download in pdf (al fondo dell’articolo): come per i saggi su rivista, cui però, come speriamo, il formato digitale potrà garantire una circolazione più ampia del cartaceo. Buona lettura!

La scomparsa di una persona, nella realtà della cronaca come nell’artificio di una trama narrativa, rivela l’esistenza di un mistero: è il sintomo di un intrigo che nel genere giallo diventa un intreccio. Ma anche la storia riserva, a volte, degli intrecci degni di una mente creatrice, che sono, invece, il risultato di azioni di cui ci sfugge la motivazione, per ignoranza delle fonti, o per occultamento dei documenti ad opera di un potere in grado di manipolare le menti delle persone. La verità, anche nella storia, spesso dice Io sono colei che mi si crede. Ed anche in un passato remoto è esistito l’orwelliano Ministero della Verità in cui hanno lavorato solerti funzionari… Tuttavia, come ci hanno insegnato Poirot e miss Marple, Maigret e Montalbano, non esiste il delitto perfetto: chi compie un omicidio lascia delle tracce e l’indizio principale a volte è il tentativo di cancellarle.

La storia che sto per raccontare è realmente accaduta ed i personaggi sono realmente esistiti: protagonista è frate Elia, compagno e successore di san Francesco nella guida dell’ordine, nonché scomunicato seguace di Federico II di Svevia. Tutti i testi citati sono tratti da Fonti Francescane (a c. di E. Caroli, Edizioni Messaggero, Padova, 1985).

Chi era costui?

Il padre di frate Elia era di Castel de’ Britti, nella diocesi di Bologna, la madre era invece di Assisi. Prima che fosse frate, era chiamato Bombarone; confezionava materassi e insegnava ai bambini a leggere il salterio, e questo ad Assisi. Entrato nell’Ordine dei frati minori, prese il nome di Elia, e fu due volte ministro generale. Godeva il favore dell’Imperatore e del Papa. (pag. 2110)

Così la Cronica diSalimbene de Adam da Parma, composta tra il 1281 e il 1288. La notizia sembra attendibile per i particolari che fornisce, e suggestiva: soltanto nell’ordine francescano un umile materassaio può divenire ministro generale, ugualmente favorito dell’Imperatore e del Papa, tra loro in perenne conflitto. Ma, a incrinare le nostre certezze, il Tractatus (1258 circa) di Tommaso da Eccleston afferma: «Il primo ministro generale dopo san Francesco fu frate Elia, che era stato notaio a Bologna.» (pag. 2057) Trattandosi di un testo precedente di circa trent’anni, rispetto a quello di Salimbene, ha dalla sua l’autorità dell’anteriorità cronologica, ma come può un notaio trasformarsi in materassaio e, specialmente, perché avviene una simile trasformazione?

Con la significativa esclusione di Tommaso da Celano (nella Vita prima), tutti gli autori francescani che si sono occupati di frate Elia tra XIII e XIV secolo, Angelo Clareno, Tommaso da Eccleston, Salimbene de Adam, Giordano da Giano, Ubertino da Casale, oltre alla Leggenda perugina, allo Specchio di perfezione e ai Fioretti, pur appartenendo a diversi schieramenti all’interno dell’ordine, mostrano una forte ostilità e pronunciano una inappellabile condanna. E proprio questa volontà accusatoria ci offre la possibilità di fornire connotati credibili alla figura di frate Elia, nel momento in cui emerge la contraddizione e si percepisce una deformazione della realtà.

Angelo Clareno, spirituale, che abbandonerà l’Ordine per diventare Celestino, in Chronicon seu Historia septem tribulationum ordinis minorum (1325-1330), racconta

[…] la moltitudine dei ministri e dei custodi […] all’unanimità concordarono con frate Elia, a motivo della distinta scienza e singolare prudenza che vedevano in lui, e tutti insieme, dopo la morte di san Francesco, lo vollero avere come rettore e governatore.

Questi, accettando l’ufficio del generalato per la concorde elezione di tutti i frati […]. (pag. 1792)

Clareno fa confusione, come prima di lui Salimbene e Tommaso.

Frate Elia fu vicario dal 1221 (fu dunque scelto da Francesco) al 1227, ma divenne ministro generale dell’Ordine solo nel 1232, non immediatamente dopo la morte di Francesco.

È notevole il fatto che Clareno gli riconosca qualità positive, e ricordi la concorde unanimità di tutti i frati nell’elezione. Certo, Clareno intende suggerire che la decadenza dell’ordine è iniziata alla morte di Francesco, stante il larghissimo consenso che riscuote frate Elia. A noi basta registrare la testimonianza di quel consenso nel 1232.

Rimane l’imbarazzo delle fonti nel conciliare l’innegabile approvazione di Francesco nei confronti di frate Elia, con la condanna che esse pronunciano dopo il 1239. Se ormai è stabilizzato il culto del fondatore divenuto santo, e se le mirabili visioni e lo spirito profetico che gli attribuiscono in vita non possono essere smentite, come giustificare gli incarichi che Francesco in persona affidò ad Elia?

La costruzione del nemico

All’interno della sua Cronaca, Salimbene dedica a frate Elia il Libro del prelato, in cui ne elenca ben tredici colpe. Dopo averlo accusato di avere accolto nell’ordine «molte persone inutili» (pag.2110), cioè laici, e di aver promosso «agli uffici dell’Ordine, persone che non erano degne» (pag.2112), cioè ancora laici, gli concede «questa unica cosa buona»: di essere stato «promotore dello studio della teologia nell’Ordine.» (pag.2114) Dal momento che il discorso punta sull’accusa di aver privilegiato i laici ignoranti sui giovani chierici che parlavano latino, Salimbene ci informa, nel condannarla, della precisa volontà di frate Elia di mantenere il carattere originario della fraternità, che, secondo gli intendimenti di Francesco, doveva comprendere sia chierici che laici. E, nel contempo, ci dice dell’adeguamento del ministro generale agli sviluppi dell’ordine, sostenuti dal pontefice, che prevedevano l’inserimento dei Minori nelle Università, prima come studenti e poi come docenti.

Comincia ad apparire chiaro, allora, come mai frate Elia riesca ad avere tanti nemici: cercava di mantenere una fedeltà di base alle volontà di Francesco, pur promovendo delle innovazioni sostanziali, e così scontentava tutti. I “rigoristi” non gli perdonarono le innovazioni, i “moderati” non gli perdonarono la fedeltà conservatrice.

Che la sua destituzione e morte abbia determinato una svolta definitiva nella storia dei francescani, nella direzione della definitiva clericalizzazione, ce lo conferma proprio Salimbene, che, dopo aver condannato l’antica pretesa dei laici di imporre «in qualche eremitorio» il turno di cucina anche ai chierici (sacerdoti o studenti), con soddisfazione conclude

Perciò giustamente, con l’andar del tempo, [i laici] furono ridotti a contare ben poco, essendo stato quasi proibito di accettarli, per la ragione che non avevano saputo capire l’onore che era loro tributato e perché l’Ordine dei frati minori non ha bisogno di tanta moltitudine di frati laici! (pag. 2113-4)

Per Salimbene la distinzione tra chierici e laici si riduce a quella tra «uomini […] di vasta cultura» (pag.2114) e «asini» (pag.2113). Ma non potendo accusare di asinità frate Elia, e non potendo condannare la sapienza, che è la nobiltà dei chierici, gli attribuisce una conoscenza perversa, maligna: «Undicesima colpa fu che venne accusato di coltivare l’alchimia» (pag. 2118).

Del resto, Tommaso da Eccleston, tanto prodigo di particolari nell’esposizione dei contrasti fra “partigiani” e “oppositori” di frate Elia, al fine di mettere in luce l’arroganza e l’ipocrisia del ministro generale, tace sul fatto che in quello stesso capitolo di Roma del 1239, che ne decise la deposizione, si stabilisce l’esclusione di fatto dei laici dall’Ordine (vi allude reticente Salimbene: «quasi proibito accettarli»).

La coincidenza di queste due decisioni nella medesima occasione ufficiale, alla presenza di Gregorio IX, deve essere recuperata nella pregnanza del suo significato storico: frate Elia, laico e ministro generale, era l’ultimo ostacolo da superare. Sconfitto, cercò di resistere e fu annientato: scompare dalla storia della Chiesa, viene espunto, con qualche evidente difficoltà, dalla storia dei francescani.

Servo di due padroni

Ritorniamo ad Angelo Clareno, il quale insiste nell’attribuire «moltissimi imitatori e sostenitori», «seguaci e adulatori» ad Elia, che,

inorgoglito dalla stima e favore dell’imperatore, del sommo Pontefice e di altri magnati, – che ritenevano che egli superasse di gran lunga tutti gli altri per la scienza, la naturale prudenza e l’apparente onestà dei costumi -, incominciò a proporre a tutti i frati, come certe ed utili alla salvezza e possibili e prudenti a farsi, quelle cose che erano solo frutto del suo pensiero. (pag.1792)

Per Clareno, Elia dimostra la deprecata «prudenza della carne», espressione già usata da Ubertino, nella «naturale prudenza», e inoltre la sua «onestà dei costumi» è solo «apparente». Ma, tuttavia, gli si deve riconoscere «la scienza», senza qualificazione: il che significa, per uno spirituale, non solo o non tanto la conoscenza dei dotti riguardo alle cose humanae, quanto e soprattutto la conoscenza delle cose divinae. In ogni caso, ancora una volta, Elia non è un asino.

E proprio la sua «scienza» gli fa commettere un peccato di superbia: crede «utili», «possibili», «prudenti» «quelle cose che erano solo frutto del suo pensiero». Antesignano di donna Prassede, Elia, secondo Clareno, manifesta vanagloria, orgoglio, «cupidigia» (pag.1781) e «ira» (pag.1793), peccati tipici dei cavalieri, così come li stigmatizza Giacomo di Vitry (morto intorno al 1240). Dunque, «la stima e favore» dell’imperatore, del pontefice e di «altri magnati», di cui gode frate Elia, potrebbe far supporre l’esistenza di un rapporto privilegiato con i potenti, se Elia appartenesse, per nascita, all’ordo dei bellatores. Il materassaio, che fa leggere il salterio ai bambini, che è notaio, potrebbe diventare anche cavaliere e teologo (Clareno accusa Elia di essersi «dedicato alle sublimità della filosofia», pag.1780).

Rimane certo il fatto che Elia, laico, non è un illetteratus, il che agli occhi di uno spirituale costituisce un colpevole scarto rispetto a Francesco, che – a suo parere, e secondo la tradizione – lo era, e gode di un largo prestigio, al di fuori dell’ordine, presso i detentori di potere, e di un vasto seguito, all’interno dell’ordine.

Nella sua ricostruzione tendenziosa, Clareno, all’esempio di superbia, non può che far seguire l’esemplare caduta: frate Elia, nel suo blasfemo orgoglio, «scavava sotto i suoi piedi la fossa, nella quale, sedotto, cadde e perì.» (pag.1781)

Infatti, scomunicato dal predetto santo pontefice Gregorio, perché sembrava passato al seguito dell’imperatore, nella scomunica morì per colpa o negligenza del suo successore, frate Alberto, che trascurò di presentare al Papa la lettera di scusa e di soddisfazione di frate Elia. Quando lo stesso frate Alberto da Pisa morì, nella tasca interna della tonaca fu trovata la lettera di soddisfazione che doveva essere portata al Papa. E […] egli morì disobbediente alla Chiesa e separato dalla Religione assieme ai suoi compagni. (pagg.1795-6)

Per Clareno, Elia è «il principe della neroniana persecuzione dei santi», perduto dietro «la cecità della sua mente», «imprigionato dal laccio del compiacimento di se stesso» (pag.1795): è proprio il principe del male, il demonio: novello Nerone, caratterizzato dai peccati nobiliari, non può che attenderlo la profondità dell’inferno.

Salimbene, che scrive prima di Clareno, non è tanto sicuro sull’ultima dimora di Elia e, nel dichiararsi incerto, ostentando indifferenza, appare reticente.

In seguito frate Elia morì. Era stato scomunicato da papa Gregorio IX. Se sia stato assolto ed abbia provveduto bene all’anima sua, ora lo saprà lui… (pag.2119)

Al di là dei dubbi che le fonti suggeriscono sulla sua collocazione sociale, quello che qui importa notare è il rapporto preferenziale che lega Elia al papa e all’imperatore, rapporto che gli consente di trattare da inferiori (è questa l’accusa di Salimbene) o da pari (come dirà Clareno) gli altri magnati. E quando si rompe il legame con il papa e rimane soltanto quello con Federico, la superbia si configura come il peccato più caratteristico di Elia.

Latae sententiae

Decima colpa di frate Elia fu che, dichiarato decaduto, non prese la cosa con umiltà e pazienza, ma parteggiò in tutto per l’imperatore Federico, che era stato scomunicato da Gregorio IX, cavalcando e dimorando con lui, assieme ad alcuni frati del suo gruppo, con l’abito dell’Ordine. Cosa che ridondava a scandalo […] soprattutto perché l’imperatore in quei giorni era già stato scomunicato […] e questo miserabile se ne stava sempre in mezzo al suo esercito e appoggiava col suo favore e i suoi consigli l’imperatore. […]

Reagendo a questa provocazione, papa Gregorio lanciò la scomunica contro Elia […]. (pagg.2117-8)

Dodicesima colpa fu che, una volta deposto e mentre vagabondava con l’Imperatore, un giorno si recò in un convento di frati minori e, radunatili in capitolo, incominciò a voler dimostrare la sua innocenza e l’ingiustizia di quanti l’avevano deposto… Ma qualcuno gli rispose con molta fermezza… Allora frate Elia [reagisce con alterigia]. E il frate di rimando: [lo umilia concludendo] “[…] Vai per la tua strada, frate mosca!”. Udendo queste cose, Elia ammutolì e si ritirò confuso. (pag.2118)

Tredicesima colpa di frate Elia fu che non volle mai riconciliarsi col suo Ordine, ma rimase fino alla fine nella sua ostinazione. (pag.2119)

Fosse acquisito o connaturato per nascita, l’orgoglio è il peccato che in questi passi Salimbene rimprovera insistentemente a frate Elia, il quale non vuole sottomettersi alla giusta penitenza, che certamente gli infliggerebbero i ministri provinciali e il cardinale protettore dell’Ordine. Inoltre, egli dice all’emissario del ministro generale:

E non voglio neppure perdere il favore dell’imperatore, che godo in questo momento […]. (pag.2119)

Elia, per Salimbene, serve due padroni, finché, condannato dal pontefice, preferisce alla punizione purificatrice, che lo ricondurrebbe all’interno della Chiesa, l’imperatore scomunicato. E così getta la maschera. Del resto, Salimbene ha l’accortezza di descrivere Elia in una luce apocalittica come cavaliere che va vagabondando con uno scomunicato e il suo esercito: una familia diaboli, in cui si sommano la condanna medievale nei confronti dei vagabondi, la condanna conventuale nei confronti dei frati girovaghi, la condanna religiosa nei confronti degli scomunicati. Elia, figura diaboli, “ammutolì e si ritirò confuso” esattamente come ammutolisce e si ritira il demonio dopo una formula esorcistica: per un Francescano Vade retro, Satana! non può che essere Vai per la tua strada, frate mosca!

L’informazione che noi ricaviamo da questi testi è che frate Elia è un personaggio estremamente influente nell’epoca sua, dotato di grande prestigio sociale e intellettuale, se Federico ne accetta i «consigli» e si serve del suo «favore» (come del resto aveva fatto prima della scomunica lo stesso Gregorio).

Di questa sua fama rende conto Tommaso da Eccleston, che utilizza frate Elia come exemplum, guarda caso, della superbia punita e annota che «sebbene tardi» lo scomunicato Elia si pentì. Sembra meglio informato di Salimbene e di Clareno, ma è significativo il fatto che questi ultimi non utilizzino una fonte anteriore e decidano di insistere sulla maledizione di Elia, che morrebbe, a loro parere, non riconciliato. Salimbene e Clareno (specialmente il primo, grazie alle sue qualità di scrittore e alla sua appartenenza allo schieramento vincente) sono i responsabili di una deformazione che peserà a lungo nella ricostruzione storica e nella comprensione della personalità di frate Elia.

Tommaso da Eccleston non è uno spirituale, è un simpatizzante dell’ordine, della tranquillità. Si potrebbe dire un amante del quieto vivere. Non sa o non vuole sapere di essere ormai lontanissimo dallo spirito di Francesco. Per lui frate Elia è innanzi tutto un perturbatore. Ed è giusto che venga eliminato dall’ordine. Accusa frate Elia di non «aver mai imparato ad ubbidire» (pag.2061), ma, nel ricordare le stranezze del ministro generale, racconta

[…] frate Elia ordinò che i frati si lavassero da sé i loro panni: i frati della provincia inglese obbedirono, mentre quelli della provincia di Scozia stettero in attesa di un comando particolare per loro. (pag.2046)

L’informazione, nella sua marginalità, è preziosa nel confermare una sostanziale fedeltà di fondo di Elia alle intenzioni del fondatore, che sicuramente non avrebbe gradito che i frati, secondo lui servi di tutti, avessero dei servi. E dell’autorità di cui godeva Elia all’interno dell’ordine e presso il pontefice ci dice involontariamente Tommaso, raccontando, prima, della nomina di Elia a ministro generale:

[…] nel Capitolo generale di Rieti [1232], dopo che Giovanni Parenti fu sciolto dalla carica, il Papa permise che Elia fosse nominato ministro generale, soprattutto in considerazione dell’amicizia che era stata fra lui e il beato Francesco. (pag.2059)

E, poi, raccontando della sua destituzione:

Allora il Papa, facendo prima appello alle qualità personali del frate e rimarcando l’amicizia che c’era stata tra lui e san Francesco, concluse che aveva creduto che i frati fossero contenti di averlo come ministro generale; ma dal momento che non lo erano più […] decretava che doveva essere dimesso dalle sue funzioni. (pag. 2060)

Perfino frate Aimone, il principale fautore della deposizione, secondo Tommaso prima di pronunciare le sue accuse è «quasi intimidito e tremante» (pag. 2059). E che non fosse così diffusa, come si vuol far credere, l’ostile esasperazione nei confronti di frate Elia, lo dimostra Tommaso, raccontando che

Quando frate Elia fu dimesso da ministro generale, si domandò a papa Gregorio se si poteva rieleggerlo, e il Papa rispose negativamente. (pag. 2086)

Nell’ordine, nonostante la destituzione, sono presenti ancora molti sostenitori di frate Elia. Nel momento in cui sarà scomunicato, la lotta silenziosa (e non per questo meno cruenta) tra correnti interne troverà il suo epilogo nell’affermazione dell’illegittimità della corrente sgradita alla Curia. Si attua così la strategia politica della Chiesa, che mira a controllare gli assetti all’interno degli ordini mendicanti affinché svolgano, come svolgeranno, un ruolo cardine nell’affermazione della supremazia del potere pontificio, contro l’imperatore Federico. Ed è certo che, nelle vicende di Elia, il ruolo predominante viene assegnato, da Tommaso, alle scelte del pontefice. Vale la pena di seguire lo svolgimento delle vicende, che condurranno alla scomunica di Elia, così come lui le racconta.

Dopo che fu nominato canonicamente Alberto da Pisa, ministro d’Inghilterra, frate Arnolfo, il penitenziere del Papa, che era stato l’anima di tutto questo affare, proclamò l’elezione e intonò il «Te Deum laudamus.» (pag. 2060).

Tommaso si tradisce. La destituzione di frate Elia non nasce da ragioni interne all’ordine, come si vorrebbe far credere e come si è creduto: lascia intendere che essa è la realizzazione di un preciso progetto della Curia. Tommaso, dopo aver ribadito, di sfuggita, che con la deposizione di Elia si realizza la clericalizzazione e monasticizzazione dell’Ordine, racconta:

Dopo questi avvenimenti, frate Elia decise di dimorare a Cortona e, senza licenza e malgrado la proibizione del ministro generale, si recò a visitare i monasteri delle Povere Dame, ragione per cui sembrò che egli fosse incorso nella sentenza di scomunica decretata dal Papa. Frate Alberto gli comandò di venirlo a trovare per ricevere l’assoluzione o almeno di incontrarsi in qualche luogo a mezza strada. Ma frate Elia oppose un netto rifiuto; e il fatto giunse all’orecchio del Papa. Sapendo bene frate Elia che il Papa voleva che egli ubbidisse al ministro generale, come ogni altro frate, non sopportando questa umiliazione, lui che non aveva mai imparato ad ubbidire, si trasferì nella regione di Arezzo [dove si trova Federico II, tra fine 1239- gennaio 1240]. Allora fu scomunicato pubblicamente dal Papa, come meritava. (pag.2061)

Ma frate Elia non ubbidisce, non si confessa colpevole e non chiede l’assoluzione, nonostante frate Alberto sia disponibile a incontrarlo «a mezza strada». La scomunica, quand’anche generata dalla disobbedienza di Elia, sembrerebbe una decisione eccessiva, fondata su argomenti pretestuosi, che ha come oggetto un unico peccato identificabile, ancora, nella superbia. Elia appare sempre più vittima degli eventi e delle decisioni politiche del pontefice.

Del resto, nelle parole di Tommaso, frate Alberto sembrerebbe cercare una via per salvare Elia, con quello strano comando di andarlo «a trovare per ricevere l’assoluzione», e sperare nella possibilità di trovare un compromesso. È dunque precisa volontà del pontefice, non del ministro generale dell’ordine, giungere alla scomunica di Elia. Tommaso testimonia che si cercava un motivo per scomunicarlo e alla fine Gregorio lo trova, probabilmente, in quel trasferimento nel territorio in cui è l’Anticristo, l’imperatore scomunicato, «buon amico» di Elia.

Una volta che anch’egli sarà scomunicato, non gli resterà altro che cercare la protezione dell’imperatore, mentre i francescani si prepareranno a diventare un formidabile strumento di propaganda, con la loro predicazione denigratoria, contro Federico II… e contro Elia.

Scomunicato nel 1239 Federico II, scomunicato nel 1239 frate Elia: da Gregorio IX.

Scomunicato nel 1245 Federico II, scomunicato nel 1245 frate Elia: da Innocenzo IV.

Coincidenze?

Il sugo della storia

Con la scomunica di Elia, il pontefice informa Federico di essere in grado di fare terra bruciata intorno a lui. Il messaggio è certamente recepito, ma Elia rimane impigliato in questa rete di messaggi cifrati. La sua disgrazia è continuare a essere, anche dopo la deposizione, messaggero del papa.

Giordano da Giano, nonostante diventi cronista della «lotta dell’Ordine contro frate Elia» (pag. 2008), sull’onda del ricordo e della nostalgia dei tempi eroici della giovinezza sua e dell’ordine, registra una serie di fatti che ci offrono un ritratto indubitabilmente positivo di Elia. E i suoi ricordi personali ci offrono, intatta, una scena, che meglio di mille discorsi, dimostra la familiarità che doveva esistere tra Francesco e Elia.

Alla fine poi di questo Capitolo [1221], o meglio quando esso volgeva alla conclusione, il beato Francesco si ricordò che non si era ancora impiantato l’Ordine in Germania. E poiché egli era allora malato, qualsiasi cosa volesse da parte sua dire al Capitolo, la faceva comunicare da frate Elia. E il beato Francesco, restando seduto ai piedi di frate Elia, tirò costui per la tonaca. Questi, inchinatosi verso di lui, ascoltò con attenzione cosa gli diceva, poi rizzandosi, disse […]. (pag. 1981)

La posta in gioco doveva essere molto alta se il papa decise di liquidare un uomo del genere.

E, in verità, frate Elia che uomo era?

In assenza di documentazioni incontrovertibili dobbiamo fidarci della logica. Appare indubitabile la stima di san Francesco nei suoi confronti, la reverenza di santa Chiara, la fiducia di una schiera di beati. Se non vogliamo credere a una mistificazione demoniaca, dobbiamo credere che fosse un religioso irreprensibile ai loro occhi. E le fonti (eccetto i Fioretti), in buona sostanza, tendono a distinguere un Elia buono (almeno fino al 1232) da un Elia cattivo (sicuramente dopo il 1239 e forse dal 1238). Ma se l’intendimento della Curia è farne un exemplum di superbia umiliata, se Elia deve essere il simulatore e dissimulatore smascherato, se deve essere lo strumento per colpire propagandisticamente l’imperatore, perché lasciare le tracce di un apprezzamento positivo nei suoi confronti? In altri termini, perché Elia non è dipinto esclusivamente in termini negativi? Perché non si tace sulla sua influenza e sulla sua fama? Perché, se, nonostante tanto si taccia e si espunga, non si è cancellato definitivamente il suo nome e il suo ricordo?

La prima grande difficoltà nell’eliminazione di Elia è l’esistenza della Basilica di Assisi.

Elia è rimproverato per i modi utilizzati nella raccolta di fondi (e per l’origine di essi), ma nessuno gli rimprovera di realizzare la chiesa che deve ospitare il corpo del Santo.

Il che significa che Elia è un importante tassello nella costruzione del culto di Francesco e che si muove in pieno accordo con i progetti pontifici di depotenziamento della carica eversiva della vita e dell’esempio di Francesco attraverso il suo innalzamento sugli altari. Se Francesco è un santo, quello che ha fatto è assolutamente eccezionale, e non può essere imitato da uomini normali, che santi non sono.

Elia, evidentemente, pensa ad un nuovo ordine che abbia un santo fondatore (indispensabile elemento di prestigio e di credibilità), ma pensa anche di smussare le rigidità e attenuare la radicalità di Francesco. Così lo tradisce, certo, ma la storia di Elia dimostra che persino una fedeltà di base all’insegnamento di Francesco è ormai considerata eccessiva dall’ordine, che, infatti, per promuovere le riforme, deve mettere «mano alla radice, cioè agendo direttamente contro Elia.» (Giordano da Giano, pag. 2006)

Se i francescani hanno bisogno di eliminare un moderato difensore dei caratteri originari della fraternità, significa che si sono allontani davvero molto dal loro venerato e mai imitato fondatore.

Elia cerca di trovare un compromesso tra la fedeltà a Francesco e le esigenze dell’ordine: rimarrà stritolato, perché non capisce o non vuole ratificare la vittoria dell’ordine, che pure ha contribuito a organizzare.

Ma il motivo principale per cui la Chiesa non può fare a meno di Elia è che a lui deve la prima e più autorevole testimonianza delle stimmate di Francesco.

Se Elia fosse soltanto un traditore, un malvagio, uno scomunicato, la sua testimonianza perderebbe credibilità e dovrebbe essere rifiutata. Ma se a comunicare il prodigio è il compagno di Francesco, il suo vicario, quello che lo cura negli ultimi tempi e assiste alla sua morte, l’Elia buono, allora, bisogna credergli.

È la Chiesa, a questo punto, che ha la necessità di creare un personaggio dissociato: buono e degno di fede; reietto e innominabile.

Le fonti si adeguano a questo imperativo e mostrano un Elia positivo quando, vicario, giustifica il culto del Santo e un Elia esasperante tiranno quando, ministro generale, ne vuole amministrare l’eredità. La frequentazione e la protezione di Federico II hanno poi dato la definitiva caratterizzazione negativa a frate Elia, scomunicato in mezzo a scomunicati.

Ma se la Chiesa vuole efficacemente colpire Federico II (e le pretese imperiali) attraverso Elia, allora deve liberare il culto delle stimmate dalla sua testimonianza.

È quello che proverà a fare già Bonaventura, che parla del vicario di Francesco senza mai nominare Elia. Un ulteriore colpo alla conoscenza di Elia sarà dato dalla decisione del Capitolo del 1266, che non solo prescriveva la distruzione delle legendae precedenti a quella di Bonaventura (e così sparirà quella compromettente benedizione di Francesco a frate Elia che si legge nella Vita prima), ma invitava i frati a ricercare e eliminare anche quello che era stato scritto fuori dall’Ordine.

L’operazione di distruzione non ebbe gli esiti sperati, ma ottenne lo scopo di creare una cortina fumogena intorno al nome, alla vita, alle azioni di Elia.

Qualcosa, vagamente, rimase di lui, ma incerto e confuso.

Infine, Alessandro IV (1254-1261), già protettore dell’Ordine, appartenente alla medesima famiglia di Innocenzo III e Gregorio IX, di cui era nipote, dichiarò ufficialmente la realtà delle stimmate e stabilì la scomunica per i pittori che avessero rappresentato san Francesco senza di esse.

A questo punto tutti potevano essere certi delle stimmate e di Elia non si aveva più bisogno.

Se fama doveva restare, allora che fosse la fama della condanna della Chiesa.

È Salimbene de Adam a perpetuare lo sberleffo, pur apparentemente condannandolo:

Hor atorno fratt’Helya,

Ke pres’ ha la mala via.

(pag. 2118)

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