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diretto da Romano Luperini

Il potere della letteratura. Su Leggere pericolosamente di Azar Nafisi

La letteratura può cambiare il mondo?

È Azar Nafisi, autrice di Leggere pericolosamente, uscito nel 2024 per Adelphi nella traduzione di Anna Rusconi, a dichiarare nell’introduzione iniziale lo scopo del suo libro:«Lo scopo di questo libro è coinvolgere la lettrice e il lettore e renderli parte attiva di fronte a domande quali: dinanzi all’assolutismo, come gestire i nostri moti di rabbia e frustrazione? Come combattere le menzogne, per sostituirle con la verità? Come opporci all’ingiustizia, evitando di lasciarci paralizzare da fantasie di vendetta? Come agire in modo giusto con chi è stato ingiusto verso di noi? Come comportarci con il nemico, senza arrenderci né diventare come lui?»(p. 23).

E leggendolo nessun intento o aspettativa resta delusa.

Ultimo di una serie avviata conQuell’altro mondo, proseguita con il fortunatoLeggere Lolita a Teheran,e poi affidata aLa Repubblica dell’immaginazione,questo lavoro di Nafisi ci parla di libri per raccontarci la realtà contemporanea.

Strutturato in cinque lettere che l’autrice scrive al suo Baba jan (padre), ormai scomparso, tra il 2019 e il 2020, la scrittrice discute, come era solita fare con lui quando era ancora in vita, della situazione attuale nelle sue due nazioni, l’Iran e gli Stati Uniti. Attraverso le parole di scrittori che hanno lasciato una traccia significativa nella letteratura, Leggere pericolosamente racconta anni importanti e difficili per i regimi totalitari, ma anche per le democrazie. Sono gli anni della pandemia, delle proteste scoppiate in Iran, della guerra in Ucraina e poi in Medio Oriente. Ma sono anche gli anni dell’America di Trump, dove Azar Nafisi vive dal 1997 in esilio a Washington.

Analizzando le opere di scrittori classici e contemporanei, da Platone a Salman Rushdie, da James Baldwin a Margareth Atwood, ma anche Ray Bradbury e David Grossman, Leggere pericolosamente intende mostrarci come la letteratura possa fare luce su questioni universali di giustizia sociale, di identità e di libertà, risvegliandoci dal torpore e mettendoci davanti agli occhi una realtà spesso cruda, ma vera. In questo modo ci ricorda che la letteratura può essere una forma di resistenza al potere: «non solo a quello di sovrani e tiranni, ma anche a quello del tiranno che è in noi» (p. 23). Perché, se non sempre è facile rovesciare sistemi politici opprimenti e che mettono in discussione la libertà dell’individuo, è forse ancora più difficile mutare atteggiamento mentale. E questo è proprio quel potere sovversivo della letteratura in tempi difficili, come indica il sottotitolo, ovvero il potere di scardinare le nostre convinzioni e di aprirci a nuove prospettive facendoci promotori di cambiamenti capaci di gettare ponti anziché creare spaccature.

I libri dei grandi scrittori – sostiene Nafisi – ci aiutano quindi a sviluppare una maggiore consapevolezza umana, sono mezzo per osservare la complessità della realtà contemporanea e diventano anche luogo di conforto (ma non di evasione): «Leggere e scrivere mi hanno protetta nei momenti peggiori della vita, nella solitudine, nel terrore, nel dubbio e nell’angoscia. E mi hanno anche fornito occhi nuovi con cui guardare il mio paese di nascita e quello d’adozione» (p. 18).

La letteratura è insomma «la chiave d’accesso a un mondo segreto», quello che Nafisi ha imparato a conoscere fin da bambina attraverso le storie serali che le raccontava suo padre, ex sindaco di Teheran incarcerato dopo la salita al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979. Ascoltare i racconti era un «momento sacro» che le veniva offerto, qualcosa di raro e prezioso che produceva in lei una gioia inaspettata che «era come una lieve scarica elettrica», e che la spinge oggi a voler comprendere il presente tentando di spiegarlo al padre attraverso i libri: «Quando ero piccola, se mio padre voleva spiegarmi qualcosa di complicato, cercava di farmelo capire raccontandomi una storia. Ho fatto la stessa cosa, per provare a fargli capire i tempi che stavamo vivendo, e mi sono ritrovata a scrivergli sempre più spesso a proposito di libri. È il mio turno, adesso, di raccontare storie» (p. 21).

La letteratura come atto di resistenza contro la disumanizzazione

Ma come si possono raccontare storie in mezzo alla guerra? A cosa serve la letteratura quando cadono le bombe e intorno c’è dolore e oppressione? O, viceversa, quando si vive in una democrazia dove c’è silenzio e ogni forma di pensiero sembra assopita? Potrebbe essere legittimo chiedercelo, del resto già Montale, cinquant’anni fa, tracciando un’amara analisi della società ormai dominata dal consumismo e quindi dal crollo di tutti i suoi valori, si era chiesto “È ancora possibile la poesia?”. Ma per Nafisi la letteratura non ha concluso il suo mandato, anzi può aiutarci a comprendere la realtà e a interpretarla, aprendoci gli occhi, abituandoci alla complessità e insegnandoci a rifiutare una mentalità assolutistica «che non lascia spazio al dialogo e al ripensamento, che considera nemico chiunque vi si opponga o sia diverso. Una mentalità evidentissima nei sistemi totalitari, ma presente anche nelle democrazie» (p. 22). E dunque anche in Iran e in America, che rappresentano rispettivamente un regime totalitario che perseguita gli scrittori e uno Stato democratico dove si corre il rischio opposto, cioè l’indifferenza e, quindi, il silenzio degli scrittori. Ma non sono le idee politiche dell’autrice al centro del libro, quanto la sua idea di letteratura e il potere che le riconosce. Un potere pericoloso in quanto espressione di libertà, soprattutto nei contesti politici e sociali in cui dilagano guerre, censura, diffidenza e pregiudizio. Contesti nei quali la letteratura diventa un atto di resistenza contro la disumanizzazione, perché «ripara, risveglia i nostri sentimenti e ci restituisce un senso di individualità e integrità. Scrittura e lettura diventano strumenti di protesta, una ribellione esistenziale nei confronti della violenza subita. Restare uomini – o meglio, restare umani – si trasforma nell’obiettivo» (p. 120-121).

Se la fatwa dell’ayatollah Khomeini, contro lo scrittore Salman Rushdie, accusato di blasfemia nel 1989 per I versi satanici, diventa espressione della censura verso la scrittura, Nafisi compie un passo avanti e sostiene che anche leggere può essere pericoloso. La lettura è infatti, secondo la scrittrice un’azione sovversiva per affermare la propria libertà e indipendenza, ma soprattutto impone la ricerca della verità, e la verità è quanto di più lontano dal totalitarismo, che invece ha a che fare con il potere, con la manipolazione e con le menzogne. La prima lettera del libro, dedicata al tema della censura, insiste molto sulla guerra tra «chi siede al potere e chi difende la verità». Ne parla partendo dalla Repubblica di Platone e dimostrandoci come pagine scritte oltre duemila anni fa offrano ancora spunti di riflessione per gli eventi di cui discutiamo oggi. Del resto tutte le forme di governo, da sempre, hanno condizionato la vita degli autori e dei libri, anche le democrazie occidentali come l’America, dove oggi, più che mai, si rischia di non riconoscere più l’importanza della letteratura, perché si è preda di una comodità che rifiuta ogni cambiamento. E dove anche la letteratura «è considerata solo in termini di conforto, cercando esclusivamente testi che confermino i nostri pregiudizi e presupposti» (p. 19). Ecco perché gli intellettuali devono continuare a cercare la verità e a far sentire la loro voce uscendo dall’indifferenza che la compiacenza al potere può provocare.

Trump e Khomeini rappresentano due diverse forme di governo, eppure nella lettura che ci offre Nafisi sembrano condividere una specifica «forma mentis, un atteggiamento mentale». Le tendenze autocratiche di Trump condividono con il governo iraniano l’ideologia, che spaccia per realtà le illusioni, e crea una condizione di passività, o involontaria complicità, impedendo, così, la possibilità di confrontarsi e di conoscere la verità. Se l’ideologia «necessita costantemente di un nemico inventato per mantenere i propri seguaci eccitati e attivi e i ribelli spaventati e paralizzati» (p.51), Leggere pericolosamente ci insegna, invece, ad affrontare il nemico. Perché leggere significa conoscere il nemico, e conoscendolo possiamo destrutturarlo. Se la guerra non può fare a meno di disumanizzare il nemico, la scrittura può invece dargli voce, costringendoci a considerarlo come essere umano e a guardarlo negli occhi; così facendo anche noi possiamo riaffermare la nostra umanità. È dunque ancora possibile vivere in un mondo civile e sfuggire alla definizione di vittime e oppressori? Nafisi affida la sua riflessione alle parole di David Grossman in A un cerbiatto somiglia il mio amore, e la risposta è sì, se siamo capaci di conoscere il nostro nemico e di riconoscerne l’esistenza.

Spetta dunque ai libri, che in Fahrenheit 451 sono gli oggetti più pericolosi perché «non conoscono limiti né confini, fanno nascere nuovi desideri e passioni inaspettate, e offrono più domande che risposte» (p.52), assumere un ruolo salvifico per le nostre esistenze, aiutandoci a restare umani e a rifiutare la retorica del nemico.

«Lettori di tutto il mondo unitevi!»

La fiducia che l’autrice ripone nella letteratura, e in particolar modo nella narrazione, è legata soprattutto alla ricerca di verità che la scrittura persegue. Attraverso la fiction, il romanzo vuole infatti capire la realtà e arrivare alla verità. Dando voce ad una pluralità di punti di vista e a prospettive diverse, perfino il cattivo ha diritto di parola. In questo modo la narrativa smaschera ogni menzogna, e quindi diventa un atto pericoloso per i regimi, che invece si servono della menzogna per coprire la realtà e imprigionare l’immaginazione. In fondo ogni grande opera dell’immaginazione è, per le menti tiranniche, una minaccia, «perché l’immaginazione non è controllabile né irreggimentabile; è libera e imprevedibile, e rifiuta di lasciarsi ridurre a una qualsivoglia ideologia» (p.31).

Forse è grazie all’immaginazione che possiamo continuare ad opporci alla morte della letteratura e avvicinarci alla verità. Coltivando cioè quel desiderio di conoscenza che spinge il primo uomo che vive nel buio dell’ignoranza fuori dalla caverna. Non sarà facile per lui tentare di convincere i compagni, che vogliono rimanere tranquilli nell’ombra, preoccupati di essere accecati dalla luce della verità, a guardare la realtà, e la contemporaneità non rende oggi il compito più facile, ma dobbiamo continuare a provarci. Questo chiede Azar Nafisi a noi lettori: «Mia cara lettrice, mio caro lettore, in un mondo reso opaco dalla conflittualità e dalle guerre, dove i nemici possono arrivare a occupare la nostra mente e il nostro cuore più di quanto non riescano a fare gli amici, dove la menzogna si maschera da verità, abbiamo più che mai bisogno dei chiari occhi dell’immaginazione per scorgere la realtà dietro e oltre l’apparenza. Perciò, sebbene cerchi sempre di evitarli, ho deciso di chiudere questo libro con uno slogan: Lettori di tutto il mondo, unitevi!» (p. 200).

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