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diretto da Romano Luperini

Le tracce sotto esame /3. «Macchine voraci», alienazione capitalistica e resistenza umana nei Quaderni di Serafino Gubbio

A sentire i pareri degli studenti e a giudicare i rilevamenti effettuati tramite sondaggi poche ore dopo la conclusione della prova di italiano, sembra essere stata davvero felice la scelta operata quest’anno dal Ministero dell’Istruzione di inserire, fra le tracce relative alla cosiddetta ‘tipologia A’ (“Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano”), un brano desunto dal romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925) di Luigi Pirandello, inizialmente pubblicato, come è noto, nel 1916 col titolo Si gira…

Il testo, che tratta il tema dell’alienazione e dell’incomunicabilità dell’uomo moderno di fronte al proliferare incontrollato della civiltà delle macchine, è (o dovrebbe essere) certamente noto almeno tra gli addetti ai lavori e segna inoltre un momento decisivo nell’ambito della poetica dell’autore siciliano: quello in cui viene posta un’ulteriore riflessione sulle arti, la vita e la scrittura letteraria. Periodo in cui sono inoltre indagati i rapporti con la tradizione del passato che in quegli stessi anni le avanguardie futuriste portavano avanti con un certo furor tendente alla distruzione totale di forme, lingua e immagini. Pirandello si muove piuttosto su un versante modernista, nel senso che non destruttura del tutto la tradizione precedente (in primis quella classica; poi quella manzoniana e verghiana), ma, al contrario, la rimodula dall’interno, alla luce di nuove acquisizioni culturali e di significativi linguaggi che si affacciano all’orizzonte epistemologico ed estetico, disarticolando le presunte certezze precedenti. Tra questi, seppure osservato dall’agrigentino con una lente molto critica, vi è anche il linguaggio del cinema.

Consapevole delle numerose difficoltà che l’insegnamento di Lingua e Letteratura italiana comporta soprattutto nelle quinte classi degli indirizzi liceali, nelle quali gran parte delle lezioni deve (o dovrebbe) contemplare una trattazione più che adeguata di autori e opere del nostro Novecento, ho preferito anticipare la lettura integrale del romanzo pirandelliano in questione al quarto anno, assegnandolo però non a tutti gli studenti, ma solamente a un piccolo gruppo di essi; in modo tale che poi, in un secondo momento, gli stessi, a lettura ultimata e secondo personali percorsi, interpretazioni o approfondimenti, potessero svolgere per i restanti compagni, in plenaria, singoli seminari tematici sul testo o a partire da esso. Una sorta di didattica della lettura laboratoriale e condivisa alla quale credo molto e con la quale cerco di confrontarmi costantemente sia in aula, con i ragazzi, sia con gli altri colleghi.

Ho letto e corretto in questi giorni, in qualità di commissario interno, gli elaborati dei miei studenti e mentre leggevo traccia e consegne mi venivano in mente determinati spunti, alcuni dei quali sono stati poi effettivamente colti dai candidati, in qualche modo. Va da sé, intanto, che per ciò che riguarda l’ ”Interpretazione” finale del brano, posta dopo i quesiti di “Comprensione e analisi”, la quale chiedeva «particolari riferimenti agli effetti che lo sviluppo tecnologico può produrre sugli individui e sulla società contemporanea», sono stati molti i confronti con le conseguenze etiche e le ricadute sociali che la sempre più invasiva, ma altresì ineludibile, intelligenza artificiale sta provocando, nel bene e nel male, all’interno delle nostre vite. Inoltre, in merito al concetto di alienazione, produzione ipertrofica delle merci, valore del lavoro umano, non pochi sono stati i collegamenti col pensiero di Karl Marx, filosofo di solito molto amato dagli studenti dell’ultimo anno (così, almeno, mi dicono i colleghi che insegnano filosofia). C’è stato anche chi ha tirato in ballo paragoni con il mondo del cinema attuale. Ma anche con il teatro e con il mito greco.

Tuttavia, partendo dal testo, spiccano alcuni elementi, tutti riferibili, in buona sostanza, a quel quid di essenzialmente umano che, al netto delle nodose contraddizioni dell’esistenza, Pirandello mette in risalto e vuole preservare. Un tenue slancio resistenziale, un sussulto della coscienza, qui incarnata dal personaggio di Serafino Gubbio che riflette criticamente su quanto accade nel mondo attorno a lui.

Comincio dalla frase che apre il passo: «Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro che una mano che gira una manovella». Scrittura come sfogo e vendetta, dunque. La voce narrante, che appartiene al personaggio protagonista, rivela in questo incipit di esercitare la scrittura diaristica come pratica di riflessione sulla sua stessa identità, ma anche sul lavoro alienante che, come lui, esercitano in molti («e con me vendico tanti»). Una sorta di riscatto sincero che vorrebbe denunciare le condizioni del lavoro meccanico e ripetitivo degli operatori cinematografici. Vendetta che ricorda un po’ quella stessa tra il dottor S e Zeno Cosini, sempre a proposito di scrittura, nella Prefazione che apre il romanzo di Italo Svevo del 1923.

Un procedimento, questo dello scrivere, che però qui funge quasi da detonatore di una situazione potenzialmente esplosiva («Scarico la mia professionale impassibilità»), come quella che sta vivendo Serafino sulla sua stessa pelle. Anzi: proprio sul suo stesso corpo, visto che sin da subito l’attenzione ricade sul particolare anatomico della mano. Una parte che appare quasi separata da tutti gli altri arti e, forse, dalla stessa volontà di chi effettivamente la muove. Se non è nuovo in Pirandello il ricorrere a questa sorta di sineddoche di matrice corporea e fisica per svelare (e analizzare) l’identità, già di per sé scomposta dei personaggi in certe situazioni particolari (si pensi, per fare un solo esempio, alla novella La mano del malato povero, scritta intorno al 1915), tuttavia qui la mano simboleggia la staticità di una condizione materiale del tutto fissa e immobile, votata soltanto alla mera produzione. Ciò è in evidente contrapposizione a lemmi altrettanto significativi come “anima”, “cuore” e “mente”, che più avanti nel passo pirandelliano esprimono, al contrario, le qualità dello spirito: dimensione immateriale e campo del trascendente, dove, piuttosto, almeno in potenza, c’è spazio per l’autenticità dei sentimenti e delle relazioni tra gli uomini.

Se dunque le parti umane divengono sempre più meccaniche, per stridente paradosso avviene anche la situazione inversa: le macchine, definite «voraci», risultano affamate di anima e divorano tutto quello che di genuino, sincero, trasparente e vitale è rimasto all’essere umano. Diventano esse stesse, per dissacrante metafora, mostruosamente e terribilmente umane. E qui tra la scrittura di Pirandello e la traccia d’esame si poneva una doppia domanda: Serafino chiede ai lettori «Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?»; e la consegna chiedeva ai maturandi di commentare questa stessa frase. Con Pirandello potremmo allora interpretare questa stessa richiesta di senso del suo personaggio adattandola all’oggi: quanto siamo davvero disposti a cedere parte di noi, dei nostri dati, della nostra creatività, per progettare app, robot, o piattaforme informatiche che, artificialmente, svolgono determinate mansioni al posto nostro, risolvendo problemi? Deleghiamo determinati compiti alla macchina in nome di cosa? Per quale scopo? L’uomo all’alba della modernità «s’e messo a fabbricar di ferro, d’acciaio le sue nuove divinità ed è diventato schiavo di esse», scrive Pirandello nel suo romanzo, rovesciando ancora una volta, in maniera beffarda, la prospettiva indicata dal mito di Prometeo. Il fuoco rubato agli dei e consegnato agli uomini non serve più, metaforicamente, come tecnica o arte affinché questi ultimi possano migliorare le proprie condizioni di vita o essere, in maniera indipendente, artefici del proprio destino; essi, al contrario, reificano la propria indole costruendo macchine da cui dipendono e alle quali risultano, per dirla ancora con il celebre titano protagonista della tragedia attribuita a Eschilo, incatenati. Non più homo faber, ma, in modo provocatorio, deus faber (ex machina).

Questo passo dei Quaderni di Serafino Gubbio anticipa inoltre altri temi legati al mondo del lavoro e dello sfruttamento. O, se si vuole, della dialettica “servo-padrone” – consumatore. Per esempio la questione della produttività seriale nell’ambito del lavoro e quindi dei sistemi capitalistici (si vedano a tal proposito nel testo espressioni o frasi come «in produzione centuplicata e continua» o «Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline?- non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo», che denotano, a livello stilistico, tutto l’espressionismo iperbolico e metaforico pirandelliano); o, ancora, quella dell’industria culturale che da questi medesimi sistemi economici deriva.

Si è così di fronte alla società dei gusti omologati, dei consumi di massa, che gestisce, strumentalmente, anche il tempo libero degli individui; il tempo, appunto, dello svago e dei divertimenti, senza considerare i veri valori umani legati alle più sincere emozioni. Concetti che saranno ribaditi più tardi, in maniera più strutturata, dalla cosiddetta Scuola filosofica di Francoforte. Se però il brano si era aperto con lo sfogo, volontario e soggettivo, del cineoperatore, esso si conclude con la visione dall’esterno, da parte dello stesso protagonista, dello sfogo altrui, del divertimento altrui. E questo gli provoca, a sua volta, compiaciuta soddisfazione. Una soddisfazione disincantata e ironica, propria di chi, pirandellianamente, ha capito il gioco. Scrive infatti l’autore: «Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io». Un Serafino, quindi, la cui mano, proprio come i rematori della nave di Ulisse, nell’episodio dell’Odissea richiamato da Adorno e Horkheimer nella seconda parte della loro opera La dialettica dell’Illuminismo (1947), continua a muoversi meccanicamente; ma lui resta, analogamente al re di Itaca, in vigile ascolto del canto delle sirene: simbolo di eros o dei diletti vari che annichiliscono le deboli menti degli individui. “Prodotto” e “divertimento”, legati assieme nella pagina del romanzo dalla congiunzione coordinante, costituiscono i due poli di una diade pervasiva con la quale, molto probabilmente, anche oggi, senza quasi rendercene conto, siamo costretti a fare i conti. Sono altresì le note emblematiche di un alienante e preconfezionato controcanto moderno che Pirandello aveva già intuito agli inizi del Novecento.

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