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Italo Calvino e un’idea di scuola nell’edizione per le medie del Barone rampante

L’edizione scolastica del Barone rampante

Nel 1965 Italo Calvino cura per Einaudi una versione per la scuola media del Barone rampante, già pubblicato nel 1957 per la collana dei «Coralli» e riadattato, due anni più tardi, per quella dei «Libri per ragazzi» con il corredo di otto tavole illustrate. Si tratta del quarto volume della collana «Letture per la scuola media», la risposta einaudiana al fermento editoriale successivo alla riforma delle medie del 1962. Pensando al contesto scolastico, Calvino procede a una serie di interventi – in parte già tentati per il pubblico giovanile, in parte nuovi – che hanno un evidente fine didattico: riduce il numero dei capitoli assegnando a ciascuno di essi un breve titolo ed elimina sequenze interne; asciuga le battute di qualche dialogo e rivede alcune scelte espressive togliendo soprattutto i passaggi in lingua straniera o in dialetto; inserisce una prefazione e un apparato di oltre 500 note a piè di pagina e 24 note generali alla fine di ogni capitolo.

Sul piano tematico i criteri più evidenti con cui Calvino compie queste operazioni sono innanzitutto quelli sintetizzati da Paolo Giovannetti nel volume Calvino & l’editoria (Marcos y Marcos, 1993): «ai bambini non si parla di sesso, non si scrivono parolacce nei libri che finiscono nelle loro mani, si lasciano in pace religione cattolica e famiglia»; a ciò si aggiunge come ulteriore «lemma censorio quello […] relativo alla politica e alla storia», «inaspettato» – lo giudica Giovannetti – ma forse non del tutto incomprensibile se destinato a un pubblico molto giovane a metà degli anni Sessanta. Sul piano strutturale la riorganizzazione delle vicende in capitoli dai confini e titoli ben distinti sembra rispondere all’esigenza di costruire per il lettore nuclei narrativi netti: la misteriosa vicenda del Cavaliere Avvocato, ad esempio, si condensa nei capitoli 11 e 15, mentre la storia d’amore tra Cosimo e Viola si chiude nei capitoli 19 e 20 senza ulteriori strascichi in quelli successivi che, attraverso l’intreccio tra la storia dell’Europa del Settecento e le avventure del barone, conducono alla scomparsa sulla mongolfiera.

Il risultato di questi interventi non è una versione del testo banalmente ‘semplificata’. Il romanzo originario – oltre ad essere denso di riferimenti storici, di allusioni letterarie, di passaggi linguisticamente complessi – affronta un tema di fondo arduo (l’«autocostruzione volontaristica», come è definito proprio nella prefazione dell’edizione scolastica) e presenta un’architettura complessa (molteplici personaggi, diversi piani temporali, storie all’interno della storia). Nulla di tutto questo viene perduto. 

La prefazione e le note come guida al giovane lettore

Lo chiarisce proprio l’apparato peritestuale che dovrebbe aiutare lo studente ad avvicinare il testo. Nella prefazione è detto che, rispetto all’edizione illustrata per i giovani, quella scolastica «dà qualcosa in più e qualcosa in meno»: entrambe rimangono fedeli al testo originario fino al XVIII capitolo; successivamente appaiono molto simili tra loro ma la seconda ripristina alcuni «passaggi descrittivi, dalla prosa più complessa», e «allusioni storiche o culturali» che erano stati eliminati, mentre toglie altri due capitoli e intere sequenze «dove l’affabulazione si fa più artificiosamente meccanica, […] per sconfinare nella “fumisteria” letteraria». Le note poi sono talmente numerose e, in alcuni casi, lunghe e articolate da far pensare che la loro funzione non sia solo di sostenere il lettore perché decifri il romanzo, ma soprattutto di farlo muovere in esso per giungere a una sua interpretazione complessiva. A differenza della lettura per così dire ‘libera’ e di intrattenimento di una edizione per ragazzi, infatti, come si ribadisce nella prefazione, la lettura scolastica non è segnata dall’«impazienza» giovanile ma è «guidata dall’insegnante» cui forse l’apparato peritestuale si rivolge in forma privilegiata per aiutare a contenere le difficoltà del testo, senza eliminarle del tutto.

La trovata più originale: il personaggio di Tonio Cavilla

Proprio in questi dispositivi di orientamento per il lettore Calvino ha l’idea più originale di tutte: prefazione e note sono attribuite a un personaggio fittizio di nome Tonio Cavilla (anagramma del nome dello scrittore), definito sul retro del frontespizio un «meticoloso docente e pedagogista» che «ha analizzato e commentato il testo col distacco critico e la serietà che all’autore parevano necessari». Questa scelta – che non si ripete in nessun altro libro della collana Einaudi ma che anticipa tante riflessioni successive di Calvino – ha almeno tre implicazioni: moltiplica le soglie narrative da varcare; aumenta la distanza con la materia narrata; invita il lettore a partecipare al processo interpretativo del testo. Non è poco per un giovanissimo studente della scuola media.

La moltiplicazione delle soglie narrative

Cavilla parla di Calvino chiamandolo «l’Autore», sia nella prefazione che nell’apparato delle note. La situazione che si crea è quindi la seguente: l’autore (Calvino) inventa un personaggio (Cavilla) che introduce e commenta il testo che lui stesso ha scritto attribuendo la voce narrante a un personaggio interno (Biagio) che racconta le vicende del fratello (Cosimo), cui cede – oltre che il punto di vista – la parola nei capitoli in cui egli è colto dal desiderio di inventare storie a sua volta. Nel capitolo 16 intitolato, nell’edizione scolastica, Il Barone contastorie Biagio chiarisce: «Insomma, gli era presa quella smania di chi racconta storie e non sa mai se sono più belle quelle che gli sono veramente accadute e che a rievocarle riportano con sé tutto un mare d’ore passate, di sentimenti minuti, tedii, felicità, incertezze, vanaglorie, nausee di sé, oppure quelle che ci s’inventa, in cui si taglia giù di grosso, e tutto appare facile, ma poi più si svaria più ci s’accorge che si torna a parlare delle cose che s’è avuto o capito in realtà vivendo». Una catena lunga e complicata di voci e di sguardi che si intrecciano, ora sovrapponendosi ora distinguendosi, e attraverso i quali non è difficile capire che viene messo in scena l’atto stesso della scrittura nel suo farsi. C’è il momento della creazione del testo, l’inventio, a partire dall’idea del ragazzo che sale sugli alberi («L’Autore di questo libro non ha fatto che sviluppare questa semplice immagine e portarla alle estreme conseguenze», Prefazione); c’è il momento della strutturazione del testo, la dispositio, nelle tante note in cui si spiega la funzione dei singoli capitoli («Di fatto, questo sesto capitolo conclude la parte più viva e tesa e piena del libro»; «I capitoli dal settimo all’undicesimo contengono brevi quadri della vita del protagonista e del mondo che egli vede muoversi al piede dei suoi alberi»; «I capitoli diciassettesimo e diciottesimo contengono un episodio a sé stante»); c’è, infine, il momento della variantistica, che non solo è spiegata esplicitamente da Cavilla («Difatti, del testo com’era stato pubblicato per la prima volta nel 1957, l’Autore stesso, con un minimo lavoro di tagli e di raccordi, estrasse l’edizione per ragazzi […] Molte classi delle scuole medie l’adottarono come testo di lettura, tanto che se ne rese necessaria un’edizione concepita espressamente per la scuola, cioè questa che ora presentiamo», Prefazione) ma è anche concretamente realizzata nelle narrazioni sempre varie di Cosimo.

La distanza dalla materia narrata e la partecipazione del lettore all’interpretazione del testo

È così che quello che sembra uno di «quei libri scritti per gioco, che sono tradizionalmente destinati allo scaffale dei ragazzi» (Prefazione), si rivela molto più complesso, quasi metaletterario, e come tale è presentato ai lettori delle medie. È proprio la moltiplicazione delle voci narranti (unita all’abbondanza di modelli di riferimento citati da Cavilla: dai «classici pensosi» adattati per i giovani alla narrativa avventurosa per l’infanzia, dal racconto filosofico al romanzo storico, dalle Confessioni di un italiano alle ricerche degli storici einaudiani) a filtrare il rapporto tra l’Autore e la sua materia e a far saltare «quella immedesimazione nella vicenda che è la prima regola dei libri d’avventure». Nello spazio che si crea avanza il dubbio che Cavilla stesso squaderna davanti ai suoi lettori, alternando note in cui spiega con certezza le intenzioni dell’Autore («è espediente usato […] per», «qui sta per», «rende») con altre che ipotizzano («L’Autore chiama “pigre” le foglie della zucca probabilmente perché strisciano al suolo»), correggono («L’esatta costruzione sarebbe»), contestano («L’Autore quindi va rimproverato per aver usato un termine arcaico solo per il piacere della parola»), rinunciano definitivamente («Neanche l’Autore è in grado di dirci […]»).

Si potrebbe dire che, come l’Autore si distanzia dalla vicenda, così il commentatore si distanzia dall’Autore e queste distanze generano vuoti interpretativi che spingono il lettore a interrogarsi e a situarsi: «Di fatto, per chi vuol trarre una morale dal libro, le vie che restano aperte sono molte, anche se nessuna si può esser certi che sia la giusta». Parole molto simili a quelle che Calvino indirizza, due anni più tardi, alle alunne della scuola media Coletti di Treviso in una lettera: «quel che c’è scritto nei libri può essere vero fino a un certo punto e sbagliato fino a un certo punto; non bisogna fidarsi mai completamente dei libri ma cercare di verificare quello che hanno di ragione e quello che hanno di torto». 

È facile riconoscere dietro queste affermazioni la concezione calviniana della conoscenza (non rigida e indiscutibile, ma aperta e critica) e della scrittura (un tentativo di approssimazione al reale e all’espressione esatta del suo aspetto pulviscolare). Allo stesso modo è facile riconoscere il contesto degli anni Sessanta, quando Calvino si dirige verso quella che alcuni considerano la fine dell’antropocentrismo, si apre a una stagione fortemente sperimentale e poi oulipienne, si interroga sistematicamente sul ruolo del lettore nel processo interpretativo. Di materiale di lavoro – per docente e studente – ce ne è abbastanza.

Un’idea di scuola

C’è un ultimo e più sfumato spunto di riflessione, però, che l’edizione concepita per le medie può offrire: trapela infatti – di scorcio, ma con chiarezza – un’idea di scuola che ancora può interpellarci. La scuola – sembrano dirci Calvino nella vicenda e Cavilla nei tentativi di spiegare il testo – è un posto in cui, seduti a cavalcioni sugli alberi, studente e maestro si confrontano «con un libro aperto in mano, […] un foglio posato su una tavoletta, il calamaio in un buco dell’albero, scrivendo con una lunga penna d’oca» (cap. 13, La foresta dei libri); ogni lezione e ogni lettura stimolano domande e sono occasioni per cercare risposte, sempre parziali e sempre diverse. E non importa se sul precettore, l’Abate Fauchelafleur, si appunta palesemente l’ironia di Calvino: il vero bersaglio polemico non è la lezione scolastica in sé (per la quale Cosimo, anche sugli alberi, «andava a cercare l’Abate»), ma quella visione educativa che egli incarna («L’Abate, si sa, aveva quella disposizione remissiva e accomodante che gli veniva dalla sua convinzione della vanità del tutto») e che è completamente opposta rispetto a quella del protagonista, di Cavilla e di Calvino. I libri servono per ragionare e per interrogarsi e devono finire in «biblioteche pensili» come quelle del Barone che li cambia continuamente di posto «secondo gli studi e i gusti del momento», perché i libri sono «un po’ come degli uccelli e non voleva vederli fermi o ingabbiati, se no diceva che intristivano».

Salire sugli alberi, lasciarsi interrogare, costruire scaffali aerei: tre operazioni di “leggerezza” che sfidano docenti e studenti a volare alto.

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