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diretto da Romano Luperini

Premio Strega Poesia 2023: L’amore da vecchia

Ad ottobre, la prima edizione del Premio Strega Poesia è stato vinto da Vivian Lamarque con L’amore da vecchia (Mondadori, 2022), un’opera in cui, con «una grazia senza pietà», la poetessa che da sempre «trattiene il timbro cristallino dell’infanzia», riflette sul trascorrere del tempo, sulle assenze, la solitudine e, soprattutto, sull’amore che, ad un certo punto della vita, sembra farsi universale, spaziando dai ricordi alle passioni di una vita (la natura, il cinema, i viaggi in treno, la poesia, classica e non), agli affetti più profondi, a ciò che rimane del presente, un presente comunque intenso, che non si arrende all’avvicinarsi, brutale e inesorabile, del «finale».

Cosa si dovrebbe fare, dunque, quando, in «un libro da leggere di circa 90 pagine», ci si rendesse conto di trovarsi «circa alla 76»? «Smettere di leggere? / No, ricominciare!».

E la poesia di Lamarque ricomincia allora, guardando avanti mentre, però, rimette in circolo tutti i ricami preziosi, le oscillazioni lucide, luminose e inquiete delle raccolte precedenti, la lieve ironia e i segreti sottili e opprimenti del passato, le radici della sua ispirazione, insomma.

Un libro di lievissima crudeltà

La raccolta si apre con una dedica che è essa stessa poesia e pista di lettura:

Quale amore in queste poesie?

per la bella d’erbe famiglia e d’animali

per la famiglia di cari nipoti e cara figlia

per i treni e il tempo (che si somigliano tanto)

per il cinematografo (e le sue sale scomparse)

per la poesia (“non lasciarmi mai, alfabeto”)

per qualche fuori tempo innamoramento (per due o tre di voi che non lo sanno)

e per me stessa naturalmente (“io sono autobiografica”,“io non sono morta io sono nata”

insomma per voi, perchè “mutato nomine, de te fabula narratur” (Orazio)

Il carattere corsivo compare più volte nella raccolta per riportare citazioni di versi da altre poesie (Lugete o veneresque), le parole dirette dell’autrice ai suoi interlocutori (Per copiare Saba), le parole chiave o le frasi in lingua straniera (Carta da Ricalco, Gabel-Sberger Noel); sono pure in corsivo le poesie o i piccoli testi che aprono ogni capitolo della raccolta se sono scritte dalla penna di Vivian Lamarque, infatti il Virgilio delle egloghe che apre la raccolta Gli animali addormentati non è in corsivo. Già nelle intenzioni grafiche appare una raccolta che dialoga con tanti interlocutori diversi, usando strumenti diversi: lo stampato maiuscolo, il corsivo appunto, la disposizione nella pagina (alcune poesie occupano la parte più in basso del foglio, altre, quelle della sezione come un film, sono scritte di seguito, accompagnate dalla data nel titolo).

I versi raccontano tutte le forme d’amore con lo sguardo distaccato, un po’ crudele ma mai rassegnato della vecchiaia: ci sono l’amore per la natura e la tradizione (la bella d’erbe famiglia e di animali di foscoliana memoria), per la famiglia di nipoti e figlia, per le cose che sono simboli e ad altri tempi e altre vite rimandano (i treni, il tempo e il cinematografo), per l’innamoramento, giunto tardi e fuori tempo, per la poesia (e nella dedica cita il verso di chiusura del componimento Esercito), ma più di tutto c’è, naturalmente, l’amore per se stessa.

La dedica della raccolta si chiude rivolgendosi ai lettori e chiama in causa Orazio: sebbene i versi siano diversi, sebbene siano cambiati i tempi, i modi i nomi (mutato nomine), la poesia di Vivian Lamarque è cosa loro, perché proprio a ciascuno parla (de te fabula narratur).

«Io mi meraviglierò»

Se la precarietà è il sottile filo che attraversa profondamente tutta la raccolta, la parola di Lamarque mantiene un dialogo costante con la propria coscienza e con il proprio tempo interiore, e non si lascia andare a desolanti riflessioni o amari bilanci, ma sceglie l’autenticità della comunicazione mediante un’accettazione obliqua ed eccentrica degli eventi della sua esistenza, invertendo le credenze comuni, e gli atteggiamenti culturali dominanti. Lamarque è capace di una distanza critica che si realizza soprattutto attraverso l’ironia, delicata e struggente, lo stupore, cristallino e bizzarro («Alla sua età / è normale morire. / Nessuno si meraviglia / se uno alla sua età muore. / Nessuno. /Ma lei sì! / Lei che sarei io, sì. / Sì, lei si meraviglierà, / io mi meraviglierò. / Tanto!», Alla sua età, p. 116; «Ma se poi all’ospedale i vicini / di letto desiderano penombra / tapparelle abbassate, invece io / vorrò luce e tapparelle alzate, come fare? / Litigare tra vecchini? Tirarsi i cuscini?», Cuscini, p. 123).

Non sono, queste, poesie che indagano i grandi significati, la ricerca di un senso della vita o della morte, ma scrigni che con puntuale sapienza insegnano a riconoscere la relatività delle apparenze, le rigeneranti possibilità che ancora si schiudono all’orizzonte (così come accade alla natura), l’arte di vivere che ribalta in positivo una condizione (l’anzianità) che potrebbe essere considerata unicamente sconfortante («Sono una Autunno. / Anzi, il tempo di dirlo / e ora sono una Inverno. / Che paura fossi una foglia ma / menomale sono un’alberella / le foglie loro cadono ma noi / no», p. 118; Fi-ni-ta-qua-si-fi-ni-ta / le fischiava un merlo / dal suo ramo. / Ma quasi finita cosa? / Intendi quest’estate vero? / Non la vita!», Dialogo con merlo, p. 125).

«Notizie? Novità?»

Lamarque mantiene vivo il suo sguardo bambino, la leggerezza e lo stupore con cui guarda le cose, rendendole vive, umane, in dialogo con lei, così le betulle nella biblioteca degli alberi diventano capelli bianchi e occhi di neve che ridono fra loro e si affidano al vento di tramontana («ridono tra loro le strane giovinette / coprendosi le bocche con le mani /dei rami. Se ti avvicini si fanno mute /e scontrose», in Alle betulle della biblioteca degli alberi, p.39). La sua poesia è sempre stata legata a doppio filo con la natura, che va vissuta, toccata e difesa; in un’intera sezione, Poesie con foglie, dà spazio ad alberi e fiori e alla meraviglia del creato («Guarda sui prati fioriti /sta per posarsi dell’oro./Ai fiori ieri l’avevano detto: Pronti che domani arrivano loro? C’è attesa, si spìano i cieli: sui prati – stanno per posarsi le api», in Prati, p.33), ma anche alla rabbia per le azioni dell’uomo («Dove noi passiamo /trema il prato /a nome /di tutto / il creato, in Come un covid, p.42).

L’incontro con la Natura non è solo osservazione e incanto, ma diventa anche l’occasione per illuminare piccoli momenti: le passeggiate al cimitero per togliere l’acqua ai fiori finti e per innaffiare quelli vivi (È cosa equa nei cimiteri), un ciclamino intrepido che si riprende nella stanza da cui la poetessa aveva deciso di non uscire più (L’intrepido ciclamino), l’ape che si posa in una fetta di pane e miele (commensale lieve o velo rubato). La poesia della natura però non è scevra dalla memoria dei libri e delle letture che appaiono qua e là nei versi: Giacomo Leopardi (Siepe), Umberto Saba (Per copiare Saba), Jane Austen (Jane). A Emily Dickinson (autrice amata e letta e riletta) racconta ciò che successe quando andò in visita alla sua tomba: colse delle cosmee, per poi lasciarle lì («non sono mie sono tue /e molto a malincuore / te le resi»), strappò quindi una zolla di terra, preoccupandosi comunque della sua conservazione («le feci una fotografia/ e poi le lessi una tua poesia»), chiude con la consueta ironia. Tratto tipico della Lamarque che quanto più si avvicina alla retorica e al dolore, tanto più se ne distanzia, con doppio salto, carpiato grazie all’ironia.

«Io sono autobiografica»

Lamarque rimanda costantemente alla propria autobiografia, tuttavia non tende all’assolutezza del ricordo ne cede mai ad un eccesso di lirismo; il risultato è il racconto (frammentario e allusivo) di un itinerario privato, che procede per associazioni di memoria, da cui possono emergere, inaspettatamente, una molteplicità di fatti particolari, di miracolose variegature.

Attraverso il dialogo con se stessa, la voce poetica sembra cercare una ricomposizione tra partecipazione emotiva e testimonianza storica, che comporta l’accettazione, sapiente ma dolorosa, dei traumi del passato (il ruolo di figlia illegittima, l’abbandono alla nascita, l’adozione, la morte prematura del padre adottivo, la scoperta della verità, il rifiuto da parte dei genitori biologici) e la scoperta di una incerta ma possibile rinascita, permettendo così una maggiore adesione alla concretezza e alla vitalità.

L’accento non cade mai, infatti, sulla drammaticità dell’esperienza, sulla frustrazione e l’impotenza, piuttosto sullo spaesamento (lieve, trasparente) causato dai ricordi dell’infanzia e della giovinezza, sulla ricerca provvidenziale di un senso, di una speranza (che riguarda le sue vicende e quelle di tutti), come in Gara a 4 anni («Vinceva sempre lei: / sfido! / Alla loro età / aveva già perso / una mamma / e due papà», p. 88), in Illegittimi («Diciamo sempre scusi diciamo / sempre grazie salutiamo per primi / per primi cediamo il passo temiamo /come il diavolo di disturbarlo / il mondo, doni puerili / stringiamo sempre in mano / ancora ci vergogniamo / di quell’ombra nel nome», p. 97), in Macchia («Sotto un filo d’acqua sciacqua / pentole e pentolini con i loro / rispettivi scoperchiati coperchi / […] / Scivolata via è con l’acqua / la macchia originaria?», p. 98), in I am an orphan! («Catturata dalla poesia / dove Frank O’Hara bambino / scontroso da dietro un albero / grida forte agli altri bambini / che stanno giocando beati / I am an orphan! I am an orphan! / Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto. / Come io non lo sono / come voi non lo siete / come tutti – / lo siamo», p. 99) e, infine, in La cicatrice («Che anche lei / la cicatrice / persino lei / la cicatrice / possa / un giorno / diventare / quasi / felice?», p. 101).

Madre d’inverno

L’elemento autobiografico è il nucleo centrale, imprescindibile, di Madre d’inverno, forse la raccolta più bella e intensa di Lamarque, uscita, sempre per Mondadori, nel 2016. Il libro, dedicato alla figura materna, vissuta nella sua doppia immagine, quella di madre adottiva e biologica, è uno struggente percorso tra gli strappi emotivi, accompagnato dal tono lieve che caratterizza la sua poetica.

La figlia accompagna la madre adottiva nella malattia e nella morte, la vede appassire (anche se conserva la sua personalità), spegnersi piano piano, in modo inesorabile, e porta il lettore in ospedale con lei, immergendolo nella loro vita quotidiana («Perché non trovarti mai le vene? / macchiarti le tue braccia di neve così? / E io non trovavo l’infermiera /per domandare e i visitatori non / trovavano la stanza per visitare /e tu non trovavi il telecomando / che pure era lì, quello per sollevare / il letto, per cambiare ogni due ore / la posizione del dolore?», in Le posizioni del dolore, p. 13). Lamarque si scontra in modo crudo e diretto con il suo diventare figlia che cura e che deve lasciare andare, come in Per chi ha vegliato una notte una madre («come un’aurora un tramonto il rosa / della flebo e nel sacchetto l’oro / dell’urina e dello scialle bianco fa la collina / coperta di neve tanta neve infatti / stai cercando di formare la frase senti che / freddo qui che freddo che fa?», p. 11), ma al contempo vorrebbe restare sempre figlia che succhia dal tubetto il latte condensato comprato in Svizzera («là / come la benzina costava meno, ti chiedo / scusa ora per allora, che mentre mi parlavi / prima la testa mi ciondolava poi, piano/ si addormentava», in A112, p. 52). Il distacco dalla madre fa i conti con i ricordi che affiorano in ogni momento come in Manna («Da casa tua si usciva sempre a tutti / a mani piene. E ancora così, scendo / le scale carica della tua casa da svuotare», p. 54), con gli oggetti di cui liberarsi (Compro oro, Le tue collane, Macramè, Venduta la tua casa) e con la storia personale che affiora («Però non è giusto, dicevi / l’altra non ha sofferto come me./ la madre biologica / la chiamavi sempre l’altra […] Quando a 83 anni era mancata/avevi tirato un sospiro di sollievo, Nella se ne era andata in sordina, ora avevo solo te / (ma anche prima) in Madre l’altra, p. 73).

Se il racconto del commiato dalla madre adottiva si consuma con commovente tenerezza e lucida e consapevole pienezza affettiva (la stessa che ha contraddistinto il loro rapporto in vita), i versi dedicati al ricordo della madre biologica sembrano nascere da una separazione esistenziale (e non solo fisica) data ormai per scontata, ma ancora, e per sempre, dolorosa da accettare come si vede in Madre l’altra tra voi («Non avevo mai assistito / a un suo compleanno, / almeno per l’ottantesimo / inviterai anche me ? / Ma certo cara, / invece si dimenticò, / le lasciai un regalo in portineria, / “grazie cara, non ti dovevi / disturbare, eravamo solo / tra noi, niente di speciale”, p. 78) o in Madre l’altra tè e biscotti («Madre da visite in salotti / tè e biscotti, invano cercavo / scuse per approdare in cucina, / madre da fotografie con solo figli tre e l’altra dov’è? / che la sera chiedevano e vivian / dov’è finita? In cielo, rispondeva, / ditele una preghierina. / (grazie!).

«Sono una poetina di coccio»

Vivian Lamarque ha scritto molto (è anche autrice di racconti per bambini, traduttrice e giornalista), tuttavia tutti gli scritti si offrono al lettore come continuum ininterrotto, talmente congiunti da potersi considerare un’unica opera. È il timbro che fa sì che le parole si susseguano in una sola ininterrotta colata, un timbro armonioso, musicale, composto, che non cede, anche quando l’argomento si fa più grave, impegnativo, che non tradisce mai frustrazione o impotenza. L’ago della ricerca è sempre orientato, pure in un percorso ricco di deviazioni, ad una straniante mitezza (sostantivo che Lamarque ama e su cui ha scritto, per il «Corriere della Sera», un articolo ripreso da Eugenio Borgna nel suo ultimo libro, dal titolo, appunto, Mitezza), con cui la poetessa cerca di delineare un incerto itinerario di sopravvivenza, di salvezza, di costruzione di un’identità, dentro e contro la sua storia privata e personale, e la società contemporanea. Anche la sottile ironia è il segno di una pacata resistenza morale con cui tagliare il filo di esperienze che ormai è possibile giudicare solo con tenue (e malinconico) distacco. L’«Alfabeto» di Lamarque è, dunque, una conca ospitale, un grembo protettivo e materno in grado di farle ritrovare un senso e un centro, l’adesione al ritmo naturale e spontaneo delle cose, del cosmo, l’affermazione della vita: «Al bisogno faccio l’appello / le nomino le convoco e loro accorrono / in punta di gambette, di curve, / di occhielli, loro le lettere / a formare parole, le rifiutate / si ritirano mogie con la coda / tra le gambe , le prescelte si allineano / lì dove le metto, anzi non lì, là, anzi / qua, in riga! Attente! Riposo! A capo! / ordino al mio esercito fidato. / Per ora fidato. / (non lasciarmi mai, Alfabeto» (Esercito).

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