Di draghi, poemetti e cavalle storne
Sui draghi
Tra le virtù da sempre raccomandate al buon insegnante, spicca – tanto nell’immaginario collettivo quanto nell’esame di coscienza privato, a cui mai si sfugge e che nulla perdona – la capacità di accrescere costantemente il proprio bagaglio di conoscenze e competenze, in maniera non dissimile da certi draghi che, una pepita d’oro o un anello alla volta, accumulano tesori leggendari destinati, per tradizione, a furfanti ed eroi in grado di sconfiggerli (o farli fessi): ciò può avvenire in diversi modi; perlopiù attraverso letture, attività di ricerca o corsi d’aggiornamento; più raramente, mediante epifanie sulla via di Damasco: a ogni modo, è risaputo che l’amore per lo studio dovrebbe accompagnare, talvolta perfino determinare, la propensione di una vita spesa nell’ambito dell’insegnamento.
Di quanto sia fondamentale provare a trasmetterlo agli studenti, questo amore incondizionato per l’apprendimento, ciascun lo dice: a detta di alcuni è così facile! Basta amalgamare l’ambita virtù alla programmazione disciplinare e mescolare bene, nel grande calderone didattico, finché la magia non avviene da sé. L’ideale, certo, sarebbe stemperare e armonizzare il sapore di entrambe, così che risulti gradevole al gusto, come i più letali veleni o le più prodigiose panacee per la vita.
Si è invece più reticenti riguardo all’inesauribilità (talvolta sconfortante) di questo viaggio del sapere, che impegna il viandante per tutti i suoi anni e lo conduce, progressivamente, sempre più lontano: lo rende straniero nella sua terra, talvolta più incline al silenzio che alla chiacchiera, stratifica le conoscenze o i simboli accumulati in labirinti incomunicabili, degni di Borges, provocando una frattura fatale, incolmabile, tra chi ha conosciuto un po’ di più – pur sapendo di non sapere ancora abbastanza – e chi un po’ di meno.
Un paradosso bello e buono!
Studiare di più per poter insegnare meglio, e poi scoprire che quel sapere accumulato ti si ritorce contro: ti rende più drago che cavaliere, custode feroce di tesori e parole enigmatiche, come gemme antiche, come fuoco. Ma di tutta questa ricchezza incomprensibile, purtroppo o per fortuna, possiamo concedere ai nostri giovani eroi soltanto il baluginio dei gingilli più esterni, il saccheggio di una manciata di zecchini o dobloni. Perché il tesoro, chi lo vuole, deve farselo da sé, che sia una Biblioteca o la Rosa dei Beati.
Sia per i docenti che per i draghi, comunque, ciò dovrebbe essere motivo di conforto: sapere che nessuno potrà mai metterli nel sacco insieme alle meraviglie faticosamente accumulate.
Non in un’unica volta, perlomeno.
Eppure, lascia pensare – e forse preoccupare – il fatto che spesso, per noi docenti, siano proprio gli autori che conosciamo meglio, quelli a cui siamo più legati e su cui abbiamo speso più impegno o, come direbbe Leopardi, “la miglior parte” di noi stessi, a manifestare i sintomi di questa comunicazione difficile: come se, dopo aver riempito con pazienza infinita, goccia a goccia, un orcio dal becco stretto di un beverone miracoloso, degno d’immortalità, poi lo capovolgessimo per condividerlo, generosamente, ma invano: i tempi del convivio scolastico osteggiano qualsiasi rito che oltrepassi il suono della campanella.
Una soluzione, forse, potrebbe essere la rottura dell’orcio: potremmo sollevarlo sopra la testa e scagliarlo contro il muro, fracassarlo, squarciarlo come l’omerico otre dei venti?
Che pessima idea! Nettare e ambrosia rimarrebbero sul muro; e le prodezze compiute una tantum non sono fatte per un mestiere che trova il suo significato più autentico nel reiterare parole oltre il tempo. Senza un adeguato filtro di trasmissione dei contenuti, sarebbe come aprire il vaso di Pandora: speranzosamente, ma faremmo più danni che bene.
Sempiterni guai, poi, se tra i poeti prediletti del docente figura Giovanni Pascoli!
Come tutti i grandi, il poeta romagnolo scrisse e seppe moltissimo; ma per qualche capriccio del fato la critica letteraria gli riservò sempre un trattamento ambiguo, variabile a seconda dell’epoca storica, di cui l’istituzione e la manualistica scolastica si fanno specchio.
In principio, vinse l’epopea fiabesca e orecchiabile del dramma famigliare (oh cavallina cavallina storna…); poi, gli impressionistici frammenti di vita agricola (lo sciabordare delle lavandare…); in seguito, la psicanalisi e la nevrosi a tutti i costi (e s’aprono i fiori notturni…); più di recente, si riscontra un rinnovato interesse per i poemetti, in cui convivono una costante sperimentazione linguistica (linguaggio pregrammaticale, grammaticale e post-grammaticale, teorizzati da Contini) e una moderna visione dell’antichità (L’ultimo viaggio, Alexandros e in generale i Poemi Conviviali).
Una complessità, quella della produzione di Pascoli, che meriterebbe di essere abbracciata nella sua interezza, ma che, per comprensibili “esigenze di trama”, finisce per approssimarsi nello studio delle solite poesie, inaridendosi nei soliti macro-concetti: IL NIDO LE PICCOLE COSE IL FANCIULLINO.
In sede di Esami di Stato, ascoltando certe semplificazioni (banalizzazioni) nelle parole di quei pochi maturandi che, ignari del pericolo, si sono addentrati nella tana di un drago pascoliano, in più di un’occasione sono stato sul punto di sputare fiamme. Ma mi sono trattenuto, indugiando sul ricordo delle lezioni universitarie tenute da Massimo Castoldi; e lasciando vagare il pensiero su quella che, in anni più recenti, nel gran mare di tentativi ed errori che è la didattica, credo sia stata un’esperienza significativa e gratificante, non solo per gli studenti, ma anche per me, che nel frattempo sono asceso (o decaduto) a temibile docente-drago: una bestia chimerica, ossessionata a tal punto dal suo tesoro da non desiderare altro che d’essere derubata.
Perciò si addormenta, la belva, o finge di dormire, rifiutando la fatale tenzone – nel programma di quinta, non c’è nemmeno il tempo materiale per tentare di vincere o perdere –; e allora lascia che siano loro, i giovani eroi, ad avvicinarsi a lei, al suo tesoro: li invita a saccheggiarne una parte, con il compito prima di comprenderla e poi di raccontarla ad altri cavalieri erranti, che a loro volta faranno lo stesso…
Nulla di geniale, né di rivoluzionario o eccessivamente impegnativo: come docente, ammetto con candore di aver fatto pochissimo (la burocrazia, intanto, mi passava a fil di spada altrove…), mi sono limitato a introdurre agli studenti una lista di poemetti pascoliani più o meno famosi, – La cavalla storna, Alexandros, La cetra di Achille, Italy, L’aquilone, Digitale purpurea – ma letterariamente significativi per questioni tematiche e diacroniche, lasciandoli liberi di formare dei piccoli gruppi e affidando loro i testi in base alla curiosità (e in qualche caso di pigrizia, al numero di versi…), con l’unica indicazione che, un paio di settimane dopo, di quel testo letterario, il gruppo avrebbe dovuto rendere conto al resto della classe.
Sui Poemetti
In effetti, a proposito di poemetti, pascoliani e non solo, è interessante notare come a scuola, spesso, la tentazione sia quella di metterli in secondo piano, confinandoli in un limbo di letture facoltative, di analisi o parafrasi affrettate, superficiali.
Forse perché il poemetto, in particolare quello ottonovecentesco, è un genere impegnativo, che richiede tempo e pazienza, proprio quando il tempo e la pazienza, in quinta, sembrano non bastare mai; o forse perché, in un programma di storia della letteratura, in cui un pertinace istinto di sopravvivenza conduce il docente ad aggrapparsi alla stampella stucchevole della categoria o della periodizzazione, proprio il poemetto, a tali resilienti occhi (mi si perdoni l’ironia), potrebbe rappresentare il Nemico, in quanto creatura ibrida, dunque scomoda: mostruosa entità con cui sarebbe preferibile, per quieto vivere, non entrare mai in tenzone.
Che tale confronto, invece, possa essere utile, molto utile, per comprendere la condizione umana di una data epoca, non credo ci sia di discuterne: pochi generi letterari ci raccontano con pari efficacia, attraverso la loro stessa forma, il paradosso della frattura definitiva, ma pure l’attrazione tenace, tra prosa e verso, tra romanzo e poesia, tra epica e lirica; e l’aspirazione congiunta sia al “cantar” che al “contar”, che tende al tutto, come gli antichi poemi del mondo, ma si sente nulla.
Eppure, di tutta questa complessità esistenziale, poco o nulla giova alla programmazione disciplinare, alla stesura del DOCUMENTO DEL 15 MAGGIO, all’inquietudine di docenti e studenti che anelano, ciascuno a suo modo, per ragioni (e timori) diversi, a un nutrito corpus di testi brevi, tutti circoscrivibili e facilmente indicizzabili, per foraggiare l’illusione che un maggior numero di titoli corrisponda all’aver letto di più, fatto di più, al sapere di più.
Comprensibile, pertanto, la preferenza di una programmazione più snella e dinamica che prediliga testi più brevi ed “economici”. La poesia di Pascoli, naturalmente, non fa eccezione; per i più, lui resta prima di tutto il poeta di Myricae. Eppure, esplorare quest’altro ramo di produzione, molto ricca per giunta, quali I poemetti (primi e nuovi), I canti di Castelvecchio o I poemi conviviali non contraddice, né sfata, il lavoro che si potrebbe fare leggendo in parallelo le liriche di Myricae; piuttosto lo integra, donando profondità e maggiore senso di completezza.
A seguire, potrete trovare qualche cenno esegetico, o spunto operativo, circoscritto per esigenze di trama (o per indolenza dello scrivente) alla poesia La cavalla storna, nella speranza che possa giovare a chi volesse riproporre l’esperimento.
Sulle cavalle storne
Per la serie: poesie che prima hanno fatto scuola (letteralmente) e poi sono uscite dal canone; o un’indagine sul limbo della fama e dell’oblio di un testo letterario.
A ben guardare, una faccenda piuttosto intrigante, soprattutto alla luce del programma di quinta liceo, che invita gli studenti a ridefinire – attraverso un più ampio confronto, magari interdisciplinare, con l’epistemologia e il relativismo scientifico – la consapevolezza che tutto sia discutibile e nulla immutabile: perfino la nostra letteratura italiana che, se indagata con occhio critico, ci fornisce così un’occasione preziosa per seminare un po’ di dubbi legittimi sul perché si leggano certi autori, certi testi, secondo certi temi, certe linee interpretative… si potrebbe perfino arrivare a mettere in discussione quel monumento voluminoso e possente che è la manualistica della nostra disciplina: un leviatiano bibliografico, tendente all’enciclopedico, che agli occhi degli studenti si erge invincibile. Indubitabile. Una summa. Ai nostri, disincantati, insomma.
Ma il potenziale de La cavalla storna non sta solo in questa caccia al canone mutato, a cosa sia successo alla scuola, all’Italia, a noi.
A livello metrico, i distici di endecasillabi a rima baciata suggeriscono agli studenti, intuitivamente, la cadenza di una filastrocca (o forse di antiche nenie bretoni, ma questa è un’altra storia…). E ciò li fa prima sorridere, poi pensare: perché proprio a causa della loro orecchiabilità, hanno corso il rischio di giudicare i versi preventivamente, sottovalutandoli. In chiave diacronica, si tratta di un’occasione irripetibile per riflettere su ciò che, nella scuola di ieri, era stato punto di forza – rime e metrica scandivano il ritmo di uno studio diverso, che tratteneva le informazioni oralmente –; mentre oggi, nella società degli ipertesti e Wikipedia, è curioso notare come proprio tali sonorità siano percepite, almeno a primo impatto, come una lallazione da infanti, difficile da prendere sul serio. Insomma, leggere oggi La cavalla storna coincide con un’esperienza di straniamento che passa attraverso il dubbio e la decostruzione su ogni livello di senso, e proprio per questo costituisce, a mio avviso, un’esperienza utile, costruttiva (andare oltre l’apparenza lo è sempre).
A livello di macrotesto d’autore, rende più sfaccettata e intima l’analisi del X Agosto, componimento immancabile in ogni programmazione, con il pregio di socchiudere nuove, eppure antiche, “invisibili porte”.
Per quanto riguarda i contenuti, da amara lirica autobiografica, la vicenda dell’assassinio paterno si apre a un più ampio respiro narrativo, si fa fiaba della buonanotte da sussurrare in una notte orfana che non potrà mai essere buona; si fa oracolo delfico, non appena si realizza che i notturni pascoliani (leggere per credere) vibrano tutti di energie mitologiche, oltre che oniriche, visionarie; e dunque, nel ricordo, nel sogno, l’ombra della madre può avere, deve avere, i lineamenti, la voce della Pizia; può, come Tiresia, come la madre d’Odisseo, affacciarsi dall’Ade per interrogare il fato e gli spiriti della natura, in cerca di una verità, di un senso, di un nome da strappare al silenzio. Nulla a che vedere con la filastrocca strappalacrime – oh cavallina cavallina storna… – con cui l’istituzione scolastica del regime banalizzò, sabotandola, la memoria di questo poemetto presso i posteri.
Proprio la cavalla, protagonista indiscussa del componimento, se osservata con sguardo non banale, si fa a sua volta creatura mitologica, destriero medianico, ippogrifo ariostesco capace di condurci “altrove”, tra i sentieri fatati di un reame dove “il sogno è l’infinita ombra del vero”; un luogo in cui lirica ed epica sono le due facce dello stesso obolo per il traghettatore infernale.
Spontaneo risulta, allora, il collegamento con i cavalli parlanti di Achille, Balio e Xanto, che nel poemetto La cetra di Achille pure piansero, presentendola, la morte del Pelide, in un notturno in riva al mare da togliere il fiato; o ancora quello con Bucefalo, l’altrettanto leggendario destriero di Alessandro Magno, nell’omonimo Alexandros, cantato nell’atto di inseguire il sole immortale, glorioso tesoro, per ambizione, per gioco, o forse per avere un motivo per non voltarsi mai indietro, sfuggendo alla propria spaventevole ombra.
Nella sua produzione, Pascoli dedicò versi raffinatissimi a ciascuna di queste cavalcature, le descrisse, le cantò (e ricantò) in modo colto e minuzioso, ma sempre secondo la propria sensibilità, senza mai cadere nell’esercizio di stile, virtuosismo elegante ma sterile: i Poemi conviviali costituiscono, in quest’ottica, una prova di aemulatio che gli antichi avrebbero certamente gradito; e che forse risulterà gradita anche a noi posteri, ogni giorno un po’ di più, come dimostra il sempre crescente interesse per una composizione complessa, ma inesauribile, qual è L’ultimo viaggio, la cui presenza costante nelle antologie scolastiche, anche a piccole dosi (da maneggiare con cura!), la dice lunga sulla sua riconosciuta importanza.
Sulla ristabilita presenza de La cavalla storna nei libri di scuola, invece, oltre che nella programmazione di classe di uno stolto, quale io sono,credo ci sia ancora parecchio da lavorare. Tirando le somme, si tratta di un poemetto generoso in termini di spunti per l’analisi e l’interpretazione del testo letterario, ma che paga lo scotto di essere invecchiato presto e male, e non per colpa sua.
Mi rincuora, con il senno di poi, il ricordo degli studenti, ora diplomati, che se ne sono occupati: nel resoconto alla classe, riferivano di un testo piacevole e musicale, letto senza difficoltà e poi approfondito con sostanza. Alla loro esposizione è subentrata, con naturalezza, l’osservazione critica di chi, tra i compagni, arrivava alle stesse conclusioni tematiche, o stilistiche, o filosofiche, attraverso strade ed esperienze di lettura diverse.
Nel complesso, il bottino è stato grande, ben oltre le mie aspettative.
Avevo lasciato loro un paio di settimane per analizzare il proprio poemetto dal punto di vista formale, dei contenuti e dell’interpretazione. Più di tutto, però, avevo raccomandato di realizzare l’elaborato pensando al momento in cui il loro lavoro sarebbe diventato comunicazione, arricchimento didattico per il resto della classe; lasciandoli però liberi di procedere nella maniera a ciascuno più congeniale.
Ciò che mi è tornato indietro, sono state presentazioni in power-point e slide preparate con cura, brani estrapolati e declamati timidamente o a gran voce; interpretazioni e analisi del testo un po’ scopiazzate da internet, un po’ ricercate sui libri o in sé stessi; tanto, tantissimo lavoro di squadra: perché è fondamentale, soprattutto in quinta, che gli studenti imparino a organizzarsi in autonomia e con senso di responsabilità.
Nell’arco di tre o quattro ore in classe, destinate alle esposizioni, ho visto concretizzarsi i segni di un lavoro profondo, condotto da più angolazioni e con impostazioni e metodologie talvolta molto differenti tra loro. Preso atto dell’impossibilità di poter conoscere tutto, gli studenti hanno approfondito accuratamente qualcosa e, attraverso lo scambio e la condivisione, anche conosciuto per sommi capi l’intero corpus proposto dal docente. Un’impostazione non dissimile da un’attività di ricerca (o dall’essenza del genere poemetto), con uno spiraglio aperto sul problema di adattare ciò che si sa alla mente di chi ancora non sa: formativo per loro e, per una volta, meno stressante per me.
Ho adottato delle valutazioni orali, di gruppo, tenendo conto della capacità comunicativa e della sintonia complessiva tra compagni e, naturalmente, del livello di coinvolgimento, di profondità, di analisi e rielaborazione critica e personale che l’elaborato mostrava.
Sono andati bene, di un bene che va oltre le griglie di valutazione.
Tra i ricordi che mi porterò dietro negli anni, c’è lo sguardo sognante e un po’ malinconico di una studentessa, mentre leggeva alla classe alcuni versi significativi tratti da La cetra di Achille; o, in Alexandros, la scoperta, per qualcuno, di un Pascoli che non scrive solo di campi, uccelletti e famiglia, ma che ha sognato, e cantato, gli eroi antichi, con la moderna consapevolezza che l’eroismo non esiste.
De L’aquilone, non dimentico la tenerezza di chi ha affermato che il “fanciullino”ela poesia possono essere ovunque, perfino nei ricordi d’infanzia, soprattutto nei ricordi d’infanzia, e che non c’è nulla di male a emozionarsi leggendo, o raccontando, e che è stato bello (ma anche un po’ triste) tornare bambini insieme a Pascoli, e giocare insieme a lui a far volare gli aquiloni.
Di Italy, mi porto dietro la ricchezza interpretativa di un paio di studentesse che, per quanto riguarda la contaminazione e sperimentazione linguistica, portavano nel loro vissuto non solo lo studio liceale delle lingue, ma anche una storia personale d’emigrazione, tale da motivarle a cercare nel poemetto qualcosa di più prezioso di un buon voto.
Ancora, in un’ingenua lettura di Digitale purpurea, tutta psicanalisi e Fiori del Male, ho rivisto me stesso tra i banchi dell’università, mentre la esponevo a Massimo Castoldi, e lui sorrideva, prima di demolirla una terzina alla volta.
In conclusione, nulla di geniale, né di rivoluzionario, ripeto: come insegnante, non sono né l’uno né l’altro, né ci tengo a esserlo. Sono solo un tale che, soprattutto quando ha a cuore qualcosa, preferisce tacere per non straparlare.
Per una volta però, è andata bene: non ho (quasi) avuto bisogno di dire nulla.
Se poi, di tutta questa ricchezza, qualcosa si sia conservato fino agli esami di maturità, s’ignora: ero commissario esterno; la mia giurisdizione e autorità letteraria si sono esaurite al termine degli scrutini. Così come s’ignora quanto i versi dei poeti, negli anni che verranno, resisteranno alla prova del tempo, indelebili nella memoria e nel cuore di chi li ha studiati: ma questa, si sa, è la scommessa del nostro mestiere.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Una completa disamina della fortuna dell’opera pascoliana, che nel tempo è stata diversamente valorizzata. L’articolo consente di constatare come il canone non sia un contenitore immodificabile ma una condizione fluida che riflette l’epoca e le persone che la abitano. E il caso della Cavallina storna, tanto cara ai miei nonni ma pressoché improponibile per studenti di oggi, è esemplare