“Jazz Café” di Raffaele Simone – Un concerto di felicità e giustizia negate
«Sono qui per divertirmi! Capito? Basta penare, solo divertire!»
Con queste parole inizia Elba, uno dei sette racconti di Jazz Café, l’ultimo libro di Raffaele Simone, uscito nel 2023 per La nave di Teseo.
Forse proprio nel divertimento potremmo riconoscere una delle cifre stilistiche di questo libro, un fil rouge che tiene legate tutte le storie: perché in fondo divertirsi vuol dire essere felici, e la felicità è qualcosa a cui tendono tutti i personaggi di questi racconti. Uomini e donne che, nonostante la diversità dei loro destini, hanno tutti qualcosa in comune, la ricerca della felicità e della giustizia. Qualcosa che tuttavia potrebbe non essere concesso agli umani, del resto Hai mai visto felice uno che sia mortale? chiede il filosofo Ugo a Carlo Emilio D’Adda, protagonista dell’ultimo racconto della raccolta. Sì, perché sotto la leggerezza della narrazione, e il tono lieve con cui Simone racconta la ricerca della felicità da parte dei suoi protagonisti, non c’è niente di superficiale, anzi c’è tutta la complessità della vita e un’umanità afflitta dalla solitudine e dalla malinconia.
È il caso di Lucio, che si rifugia all’isola d’Elba, da cui il titolo del racconto, per trascorrere fuori stagione un periodo di riposo, ma soprattutto per scappare da un complicato rapporto con l’ex moglie. E quando incontra Aurora, «la donna coi capelli corti», sembra finalmente possibile anche per lui trovare un po’ di felicità, sentire la vita, riconoscerla «addensata in quella cellula di miele nella notte fredda, l’astronave rilucente che portava più felicità che tristezza, e poi profumi, illusioni, desideri». (p. 141). Simone intende forse svelarci che c’è un embrione di vita in quella «cellula di miele / di una sfera lanciata nello spazio», in quel legame tra lo spazio terreno e privato dell’uomo (e del poeta Montale) e lo spazio cosmico nel quale è lanciata l’astronave. Non c’è, insomma, totale rassegnazione per Lucio, e come per il Montale di Notizie dall’Amiata si schiude la possibilità di un senso cercando di andare oltre la propria limitatezza, aprendosi all’universo. Ma proprio quando sembra possibile che la storia del protagonista possa incontrarsi con quella della donna, quando anche lui capisce che «sarebbe bene che mi divertissi anch’io una volta, magari sia pure a Seccheto», la moto nella quale stava viaggiando «prese ad andare giù nel precipizio, fino a che il mare fu sopra lui richiuso» (p. 179): come l’Ulisse dantesco anche Lucio paga la sua audacia.
Anche all’avvocato «professore Cesare Stanti, uno dei più importanti di Roma» è mancata la vita. Protagonista del primo racconto, che dà anche il titolo alla raccolta, l’avvocato si vede costretto a fronteggiare un manipolo di ragazzi che disturba la sua quiete giocando a pallone. Ma quando quei “mocciosi” irriverenti lo derideranno chiamandolo “vecchio”, scoprirà «che in lui, che si era sempre condotto con decente razionalità, abitavano ancora quei sentimenti: ma tutto sommato non gli dispiaceva, erano passioni!, magari negative, ma erano le passioni di cui aveva sempre escluso il peso» (p.29). Tuttavia, anche se il problema alla fine sembra risolto, e l’equilibrio e la quiete sembrano ritrovati, per Stanti la vita ricomincia «dove si era interrotta».
Tutti i personaggi di questi racconti vogliono raggiungere la felicità attraverso un riscatto personale, inseguendo cioè un’ideale di giustizia che possa ristabilire le sorti. Ma in ogni storia, alla felicità si contrappone un ostacolo, un imprevisto, una caduta rovinosa che lascia intravedere soltanto un destino fragile, incerto, che impedisce di andare oltre la limitatezza umana.
Il segreto della felicità è forse quello di Ugo? Quello del filosofo di La vedova Benjamin, ultimo racconto di Jazz Café: «Il requisito fondamentale è che non ti importi nulla di nessuno! Questo è il segreto della felicità apparente». Se non sei felice è perché «non sei abbastanza superficiale». Ma se la felicità è nella superficialità, non può appartenere ai personaggi di questi racconti, che sono invece interpreti di amare tragedie quotidiane, vissute tra solitudine, paure e gesti mancati, lontani, insomma, da quell’ideale di ordine delle cose che prevede, appunto, felicità e giustizia.
Felicità e giustizia
Di giustizia si occupa Adriano Ciocca, protagonista del racconto Nuit Blanche, un giudice che si trova a Parigi in occasione dell’atmosfera movimenta della notte in cui sono «tutti svegli da sera all’alba, per le strade», nella sera in cui «tout le monde veut y aller, s’amuser…». Proprio in questa circostanza Adriano capisce che anche per lui «la possibilità di divertirsi magari c’era davvero», ma si scopre allo stesso tempo vittima di quella “parte maledetta” di cui dispongono gli esseri umani, ovvero una quota di energia superiore rispetto «a quella che gli serve per le cose normali» (p.180). Questa “parte maledetta” è quella che pulsa dentro come un cuore occulto, e che in quella notte parigina potrebbe trovare «un po’ di sfogo» spingendo il giudice a sperimentare il divertimento e a «sentirsi finalmente libero dai pensieri». Ma la “parte maledetta” è anche quella che può spingere a fare del male, ad uccidere, per esempio, come nel caso dell’uomo che Adriano deve giudicare, e che verrà condannato all’ergastolo nell’illusione che la giustizia possa ristabilire l’equilibrio e l’ordine. Proprio in mezzo al divertimento si palesa infatti il ricordo, e con esso riaffiorano riflessioni, scoperte, e anche la consapevolezza che l’uomo che si era macchiato di omicidio («Aveva fatto giustizia di un oltraggio insopportabile, immedicabile, irrisarcibile. Ma nello stesso tempo era stato giudice di sé stesso, come Adriano era giudice degli altri: aveva cercato di ristabilire il proprio onore trascinato nel fango, anche se poi la parte maledetta aveva preso il sopravvento, lo aveva trascinato come un uragano e condotto a quell’atto…», p. 200).
Ogni giudice, e forse ogni uomo, è dunque incline, pur senza accorgersene, alla «superbia, perché pretende di giudicare i suoi simili», e allo stesso tempo all’ «empietà, perché si carica di un compito scandaloso che agli umani non è concesso: contrastare la tendenza al male».
Felicità e giustizia sono dunque due mete che non arriveranno mai per questi personaggi. Ogni qualvolta si ha la sensazione che la narrazione stia per svelarci una verità, questa verità inevitabilmente si sfalda, lasciandoci in bilico tra cose reali e inventate, tra ciò che è “davvero vero” e ciò che possiamo escogitare con le parole. Per accorgersi, come accade alla protagonista del racconto Il ritorno, che «in noi di stabile c’è soltanto qualche brandello di storia che tutti conoscono e che non può essere negata» (p. 264)
Storie, dunque, che raccontano vite lasciate in sospeso o dall’epilogo inaspettato, ma mai senza senso. Prive di eccessi e di estremismi narrativi, forse persino incapaci di procurare nel lettore un divertimento fine a se stesso (precluso, del resto, anche ai sette protagonisti dei racconti), le storie di Jazz Café non impediscono che si apra un dialogo o uno spazio per fare riflettere il lettore.
Città inquiete e folla
Anche lo sfondo sul quale si stagliano i racconti, quasi sempre città inquiete e invase dalla folla, diventa uno spazio necessario alla riflessione. Per esempio nel racconto Santo subito, dove la moltitudine di persone sopraggiunta a Roma in occasione della morte del pontefice diventa mite, perché «bisognava essere santi per forza in quei giorni, e santi subito» (p. 83). Eppure anche, o forse proprio, in mezzo a quella Roma che «era diventata la maggiore concentrazione al mondo di soave gentilezza, di mitezza avvolgente, di imperiosa placidità» (p. 71), l’individuo privato della propria identità finisce smembrato, persino della propria abitazione.
È dunque nelle soluzioni impreviste di ogni racconto che si può rintracciare la capacità di sedurre il lettore, ma ancora di più nel garbo letterario che contraddistingue la narrazione, valore tanto più prezioso quanto più inattuale nel panorama della narrativa contemporanea.
Risulta difficile ignorare il piacere che produce la lettura di un libro scritto con tanta consapevolezza linguistica e letteraria. Una scrittura capace di slittare dallo stile sobrio, raffinato e limpido della lingua italiana, a quello degli idiomi delle località nelle quali sono ambientate le vicende; del resto il linguista Raffaele Simone sa come muoversi tra toni elevati e bassi. È soprattutto all’ultimo racconto che spetta una vera e propria celebrazione della letteratura e della scrittura. In esso Simone ci parla di un’arte che
se la prendi come si deve, cioè se ti lasci invadere, possedere da lei senza resistenze, diventa una presenza così penetrante che ti toglie ogni altra tentazione e ogni altro desiderio, si infiltra nelle tue carni, ti sgocciola dentro, pèrcola dentro di te a piccole stille, come un farmaco: non puoi pensare se non a quel che scriverai e a quel che hai scritto, ti annoterai maniacalmente le frasi e le parole, sentirai i personaggi come persone vere, trasferirai nella loro vita i tuoi sogni, lotterai per prevalere su loro o per liberarli da un guaio, sognerai i loro dialoghi, potrai volerli morti o viventi (pp. 298-299).
La scrittura, se scoperta e accolta, potrà forse aiutare a dileguare la tristezza, facendola diventare motore stesso dell’atto creativo. In quanto tale sarà poi capace di procurare qualche attimo di pura felicità, ma continuerà a portare con sé una nota malinconica: quella dell’esistenza.
La vita è infatti il vero motore di questa raccolta, la vita nelle sue forme più paradossali e in quelle più realistiche. Persino le numerose citazioni letterarie, da Dante a Montale, sono abbassate di livello e messe al servizio della narrazione, contribuendo, in questo modo, alla rappresentazione di quella complessa realtà che ci offre ogni racconto, e nella quale è possibile riconoscere una “storia importante” che un po’ ci appartiene.
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