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diretto da Romano Luperini

Ritorniamo sulla poesia di Charles Simic a quasi un anno dalla scomparsa del poeta non tanto per saggiarne il segno della durabilità ma per interrogarci sulla dinamica e sui fattori che a tanti l’hanno fatta percepire come prodotto artistico di rilievo assoluto. Tanto più eclatanti la sua originalità e il suo peso specifico, si direbbe quasi miracolosi, se si pensa che si parla di un poeta che fino ai 15 anni – età in cui dalla natia Belgrado, nel 1954, approdò negli USA – non parlava la lingua in cui avrebbe poi composto versi tanto memorabili da ottenere i più prestigiosi premi nella terra d’adozione e all’estero. Lingua in cui avrebbe scritto saggi, tradotto magistralmente poeti della sua terra d’origine quali, tra gli altri, Vasko Popa e Ivan Lalic, e in cui avrebbe esercitato un magistero anche come professore di letteratura e scrittura creativa all’Università del New Hampshire per più di un trentennio.

Per fare questo, non c’è forse modo migliore che rileggere i versi contenuti nella selezione da lui curata, uscita nel 2013, New and Selected Poetry (1962-2012, NSP), che offre una sintesi eloquente della sua poiesis marcandone, nel susseguirsi delle varie sezioni, le linee di uno sviluppo coerente per quanto attiene all’originalità. Simic vi ha raccolto i componimenti che desiderava gli sopravvivessero, rivedendone alcuni o dando loro nuovi titoli, operando una cernita accurata tra la produzione di mezzo secolo di lavoro. Sono almeno quattro nel canone le edizioni di selected, antologie che segnalano quel bisogno irrinunciabile di riflessione critica sul proprio operare che è propria dei grandi poeti. Una selezione, questa, cui seguì l’assegnazione l’anno dopo del prestigioso Zbigniew Herbert International Literary Award, a segnalare l’ideale ricongiungimento con l’ambito mitteleuropeo da cui proveniva, e con un poeta da lui molto amato. Egli era già stato insignito del Pulitzer Prize nel 1990 per il prosimetro The World Doesn’t End, e ed era stato prescelto quale Poet Laureate nel 2007. Negli anni successivi, Simic pubblicò altre quattro significative raccolte: The Lunatic , nel 2015; Scribbled in the Dark, nel 2017;: Come Closer and Listen nel 2019 e, ultima, del 2022, No Land in Sight: Poems, libri che ne avrebbero confermato tematiche e grandezza.

Gli esordi

Esclusi risultano dalla selezione del 2013 i suoi primi testi, anche quelli che pure avevano meritato l’attenzione della prestigiosa Chicago Review, che pubblicò nel 1959 due sue poesie, e tutti i componimenti che non avevano passato la prima, impietosa disamina che Simic ebbe modo di fare, durante il servizio militare in Germania negli anni ’60. Versi d’apprendistato, che risentivano delle varie influenze, riecheggiando di volta in volta la voce dei mostri sacri che aveva avuto modo di leggere e conoscere da immigrato adolescente durante la scuola secondaria e all’università. Si tratta di Whitman, Dickinson, Moore, e poi Frost, Lowell, Crane, letti voracemente, come egli stesso confessa, spinto da una curiosità inesauribile che lo vede, appena sbarcato, determinato ad apprendere quanto più possibile della nuova lingua e della sua letteratura. Il giovanissimo poeta si trovò, mentre muoveva i primi passi in ambito poetico, ad affrontare una doppia sfida: scrivere in un’altra lingua e in un’altra tradizione letteraria. E’ indispensabile dire che il giovane Simic non è attratto soltanto dalla letteratura, in cui pure si immerge con entusiasmo, ma anche dalla musica – un estimatore e vero esperto del blues – dal cinema, una passione mai abbandonata, e dalle arti visuali – la pittura il suo primo interesse – che lo porteranno a scrivere riflessioni illuminanti tanto sui musicisti quanto sugli artisti, e su questi ultimi, di importanza cardinale gli scritti su Joseph Cornell, così imprescindibili per capire la sua poetica e su cui torneremo.

Alcuni elementi distintivi

La prima sezione del libro s’intitola Selected Early Poems e copre l’arco temporale che va dal ’62 al 1985. Più di 20 anni di attività riassunti in circa 90 pagine che si aprono con “Butcher Shop”, poesia molto antologizzata e a ragione perché preannuncia alcune importanti costanti formali.

Macelleria
A volte, passeggiando a notte fonda,
mi fermo davanti ad una macelleria chiusa.
C’è una sola luce nel locale
come la luce in cui il carcerato scava il suo tunnel.

Un grembiule sta appeso ad un gancio:
le chiazze di sangue vi disegnano una mappa
dei grandi continenti di sangue,
con i grandi fiumi e gli oceani di sangue.

Ci sono coltelli che scintillano come gli altari
di una chiesa buia
dove si portano gli storpi e gli idioti
perché siano sanati.

C’è un ceppo di legno dove le ossa vengono spezzate,
raschiate e pulite: – fiume prosciugato nel suo letto
dove io vengo nutrito,
dove nel profondo della notte sento una voce.

Abbiamo già qui, infatti, alcune delle figure ricorrenti della poesia di Simic: un flaneur decaduto, che si aggira la notte per la città deserta attratto dagli oggetti esposti in vetrine di ogni sorta -”Le vetrine mi aspettavano/ impazienti per il mio arrivo”come scriverà più tardi (“Il neofita”) – rigattieri, banchi dei pegni, negozi dell’usato, dime-stores (capaci di generare alchimie, come scriverà nel libro su Cornell), fabbriche abbandonate, sollecitato da quanto vi è esposto perché sembra portare il carico di altre esistenze. Come dirà in seguito, si tratta per lo più di oggetti appartenuti ad altri migranti che prima di lui erano approdati in America; oggetti muti, in nessun altro modo recuperabili se non facendone materia di una particolare attenzione. “Object poems”, li definirà – dedicati a forchette, coltelli, scarpe, matite , ecc – in una sorta di crociata in apparenza antipoetica, ma che sottolineava l’importanza dell’attenzione che la vera osservazione richiede: “Guardi e non vedi. E’ così familiare da essere invisibile”(“Notes on Poetry and Philosophy”, The Life of Images). E’ una riformulazione, a ben vedere, della teoria dello straniamento delineata da Victor Sklovskij, di cui proprio “Macelleria” sembra una conferma. Non è tanto sull’immagine del sangue, pur semanticamente cospicua, su cui è utile attirare l’attenzione ma sullo slittamento sorprendente – defamiliarizzante, appunto, secondo la lezione del critico formalista – che viene operato attraverso l’accostamento delle immagini, lo scarto delle similitudini : la luce del negozio ricorda quella del tunnel scavato dal carcerato; le macchie di sangue di un grembiule esondano in fiumi e oceani di sangue; il luccichio dei coltelli rimanda alle luci degli altari e il ceppo, il tagliere ripulito, con tutte le sue possibili connotazioni, a un fiume disseccato fino al letto da cui, con procedimento ossimorico (una delle figure retoriche più congeniali e ricorrenti, come nella poesia di una poeta amata, Emily Dickinson), nutrirsi, insonni, nel cuore e nel silenzio della notte.

Il silenzio è altra condizione cardinale. Dal silenzio della notte nella città deserta a quello della propria camera, segnato dall’insonnia – “Il re senza corona degli insonni”, si definirà nella raccolta The Lunatic – riemergono ricordi, dettagli all’apparenza insignificanti, che sono però testimonianze e conferme dell’esistere. All’insonnia è addirittura dedicata una raccolta, Hotel Insomnia: Qui si parla di me quando ricordo/ e vado, o Tempo, masticando e rimasticando le tue lunghe unghie insonni” (“Sonetto romantico” Hotel Insomnia).

Un altro componimento, che in questa prima sezione ci è utile per avvicinarci alla complessità della poesia di Simic e al suo retroterra, è “Prodigy”:

Bambino prodigio
Sono cresciuto chino
Su una scacchiera.

Amavo la parola scaccomatto.
Il che sembrava impensierire i miei cugini.

Era piccola la casa
Accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
Per via di carri armati e caccia.

Fu un professore di astronomia in pensione
Che m’insegnò a giocare.

L’anno, probabilmente, il ’44.

Lo smalto dei pezzi che usavamo,
quelli neri,
era quasi del tutto scrostato.

Il Re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.

Mi hanno detto, ma non credo sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.

Ricordo che mia madre
Spesso mi bendava gli occhi.
Aveva quel suo modo spiccio d’infilarmi
La testa sotto la falda del soprabito.

Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.

“Questa poesia parla della poesia”, sostiene Paolo Febbraro, nell’introduzione alla edizione italiana di The Lunatic, il gioco degli scacchi come una metafora dello schema che ci costruiamo per controllare e contenere la violenza intorno a noi. Si tratta di una violenza udibile – i vetri che tremano per i bombardamenti – e visibile – i morti appesi ai pali del telefono – la violenza da cui la madre tenta di schermarlo coprendogli la testa con le falde del soprabito. Violenza che il poeta non può fare a meno di elaborare . Come affermerà a chiare lettere in “Cameo” : “Ho avuto una piccola parte, muta/ in un epica sanguinosa. Sono stato parte dell’umanità bombardata e in fuga”.(Walking the Black Cat). Quel periodo riemerge di frequente nei ricordi : “Mi portò alla mente i tedeschi in marcia, superata la nostra casa nel 1944. (…) La terra che tremava, la morte che passava. (“Due cani”, The Book of Gods and Devils). Si tratta di immagini, situazioni, che continueranno a ricomparire nel flusso di coscienza dell’insonne, nella vigile attenzione ai dettagli, ai volti incontrati per caso, agli oggetti osservati, e che saranno incorporate nei versi, giustapposte a immagini del presente, sul palcoscenico in cui si impone e si accampa la compresenza dei morti e dei viventi, per usare l’espressione di Aldo Capitini. Non soltanto i morti, ma anche tutto ciò che li ricorda sono componenti cardinali dell’universo poetico e dell’arte del poeta serbo. Presenze che si faranno preponderanti negli anni ’90, all’erompere delle guerre nell’ex Jugoslavia, in cui il suo paese d’origine, la Serbia, ebbe un ruolo negativamente fondamentale. Nella raccolta del 1994, A Wedding in Hell ,l’anno è importante, troviamo versi generati dalla preoccupazione centrale del decennio, l’incubo da cui pensava di essersi risvegliato e in cui invece si trova a ripiombare. In “Leggendo la storia” che presenta le immagini al rallentatore dei condannati a morte che si avviano al patibolo, e dei loro boia, il poeta è come se vedesse “ogni faccia pallida davanti a me/ Come li vedrebbe un giudice/ che pronuncia una sentenza” immagini al contempo di tempi lontani e di un presente ignominioso.“Salmo” presenta l’ inevitabile domanda al Dio assente, i cui rappresentanti in terra affiancano i carnefici:”Gli assassini erano risoluti/ ed euforici e i tuoi sacerdoti/ erano al loro fianco ad assicurarsi/ che con le nostre ultime parole non bestemmiassimo contro di te”.

È importante sottolineare la congiunzione tra ciò che egli visse da bambino e gli eventi sanguinosi del presente, resi ancora più gravi e imperdonabili dall’insensatezza degli isterismi nazionalistici che nulla hanno appreso dalle esperienze terribili del secolo che sta per chiudersi e di cui era stato diretto testimone. La raccolta li contiene entrambi, i secondi mai dimenticati ma questa volta riproposti come moniti e condanna, in un invettiva che non lascia spazio ad alcuna ironia. Sono ancora gli stessi “pazzi/ a governare il mondo”, gli epigoni dei dittatori della sua infanzia di cui la nonna profetizzava la fine, che ricompaiono in “Imperi” nella stessa raccolta, “Uno dei vostri eroi teneva un comizio./”Mostro” lo apostrofò./ Ci furono applausi e salve di fucili per il mostro. “Potrei ucciderlo a mani nude”proclamò. E’ la rabbia della vittima predestinata. Non le avevano forse le zingare profetizzato “guerra, malattie e carestie e una lunga lista di disgrazie, come quelle che toccarono a chi fu testimone e vittima delle catastrofi del Novecento causate dall’ascesa al potere di dittatori sanguinari?

Il ritorno alla vita

Testimone di atrocità per essere scampato al massacro e aver visto , bambino, “uomini impiccati sui pali del telefono”, egli si è conquistato il diritto e al contempo assunto il dovere, da sopravvissuto, di dare del tu alla morte: “Ho la giustificazione signora Morte/ la vecchia nota che mia madre scrisse/ il giorno che mi assentai da scuola” (“Il segreto”, da A Wedding in Hell ). Si sottolinea questa aspetto, peraltro centrale perché dà conto anche dell’intensità dell’emozione generata in un adolescente dal ritorno alla vita, a un’esistenza piena, che l’approdo in terra americana provocò. Una sorpresa e un’ eccitazione che costituiranno caratteristiche fondamentali dell’opera del poeta a un livello profondo. Egli sarà naturalmente e inevitabilmente portato a considerare in ogni sua azione il miracolo dell’esistenza in vita, il problema dell’essere che approfondirà poi in una ininterrotta ricerca filosofica.

Il senso di questa meraviglia, egli lo rappresenta compiutamente nel saggio “Reading Philosophy at Night”, in cui descrive l’illuminazione toccatagli in sorte mentre viaggiava in metropolitana a Chicago e rifletteva sulla domanda di Parmenide: “Perché c’è qualcosa invece di niente?”

“Fu come se mi si aprissero gli occhi. Non potevo fare a meno di osservare gli altri passeggeri. È incredibile, pensai, noi tutti qui, che esistiamo” (Wonderful Words, Silent Truths).

O in un’altra poesia :“Con una lucidità miracolosa, anche tu finisti per riflettere/ Su come fosse strano tutto./ Charles, dicesti, assolutamente strano che siamo tutti qui. (“Morte, la filosofa”, The Book of Gods and Devils).

La poesia, dirà, è un tentativo di recupero di sé, di riconoscimento di sé, di ricordo di sé, la meraviglia di essere di nuovo (“Notes on Poetry and Philosophy” in The Life of Images, p.26. )

Una rivelazione che lo conferma non soltanto nella convinzione che non esiste tema, argomento, immagine, materia, segno, sogno o incubo coi suoi mostri e fantasmi che non possa costituire oggetto di poesia, ma che in questo caleidoscopio possono ben coesistere piani temporali disparati, compresenze fondamentali, poiché, a seguire la lezione di Parmenide, il tempo è solo apparenza:

“Abito ancora in tutte le mie vecchie case,/ con occhiali scuri anche all’interno/dividendo il letto in segreto/ con i fantasmi…” (“Ai sogni”, da My Noiseless Entourage).

Un’anima affine

A Simic si attaglia alla perfezione quanto egli stesso scrive a proposito dell’arte di Joseph Cornell in Dime- Store Alchemy, in rapporto sia alla poetica sia alla sua stessa creatività – “Il genio e l’originalità di Cornell disarmano i critici, li rendono partecipi e ispirati”. Cornell, come Simic in parte negli stessi anni, percorre la città andando a caccia di oggetti disparati che colpiscono l’attenzione nelle vetrine polverose di negozi dell’usato e cianfrusaglie, oggetti che sembrano chiedere di essere sistemati in nuovi insiemi, in un nuovo ordine. Un’impresa che Cornell porta a termine in modo originale. Così Simic, anche lui attratto dagli stessi angoli, da quegli stessi oggetti, segnati come lui dice dall’”enigma dell’ordinario” (The Life of Images). Gli sparsi frammenti che Cornell utilizza come pezzi del suo geniale approccio diventano mutatis mutandis, i mezzi utilizzati da Simic nella composizione, “fare poesia con sparsi frammenti di linguaggio (…) nel tentativo disperato di dare forma alle ossessioni”. Come Cornell, anche Simic è molto attratto dalle pratiche surrealistiche e dal collage in primis. Ma pur avendone subito il fascino, sarebbe sbagliato incasellarlo rigidamente in tale poetica. La città affollata, infatti, è un labirinto di analogie, una foresta simbolista di corrispondenze, sollecita il voyeurismo (Il cacciatore di immagini, p.33). Sia Cornell sia Simic sono bricoleur geniali nel senso dato a questa attività da Claude Levy Strauss e poi ripreso da Genette e Butor, che consiste nell’utilizzare materiali e strumenti per un uso diverso da quello per cui erano stati concepiti. Un’attività ha alla sua base il salvataggio di ciò che è stato eliminato, buttato via” . Come osserva Butor, a proposito del bricolage, si tratta di riciclare a partire dalla “ricerca di oggetti perduti, dell’oggetto disprezzato verso il quale sarai obbligato a volgere lo sguardo in un modo diverso. Da lì sarà possibile spostare lo sguardo sull’ultimo degli uomini nella metropoli”. Per Cornell, scrive la sua biografa Jodi Hauptman, uno dei principali problemi estetici di consisteva nel dare a questi oggetti una seconda vita” (Stargazing in the Cinema: On Joseph Cornell”).

Ma l’arte combinatoria di Simic, non si limita a gestire immagini fuggevoli, volti e oggetti visti nel labirinto della città. E’ un approccio che richiede studio, riflessione, ricerca, che comporta fallimenti, ripensamenti fino a quando non si arriva all’equilibrio del componimento. A volte ottenuto per caso, dopo una lunga partita o un corpo a corpo con i frammenti di linguaggio o le immagini disponibili, nell’esercizio di un’arte combinatoria individuale volta non tanto a chiarire l’enigma dell’ordinario o il mistero dell’essere, ma a catturarne uno sprazzo, a percepirne la presenza. Il momento e la sua volatilità costituiscono alla fine il nocciolo della questione. “L’eternità è gelosa / del momento presente,/ mi trovai a pensare!/ E poi il momento finì.” (“La promessa di matrimonio”, The Book of Gods and Devils) .

Nessuna terra in vista

Nella sua ultima raccolta, dal titolo eloquente – Nessuna terra in vista – ricompaiono gran parte di quei momenti e di quelle immagini; i temi cari alla sua poesia: la città in primis, con l’occhio rivolto ai derelitti che dormono per strada (“The Music Box”); le vetrine dei rigattieri; gli insetti, osservati nella loro precarietà, metafora della umana vulnerabilità : “Mosca malata, che procedi a passi lenti e dolenti /In alto su uno stretto parapetto”; i ricordi della guerra: “Dalla finestra / da cui guardavo da bambino /In una città occupata /silenziosa come un cimitero”; “Mia madre mi portava in braccio/ fuori da un edificio in fiamme” (“On This Street”); gli amici e le persone care che non ci sono più, in versi che riportano alla mente quelli di Osip Mandel’stam in “Leningrad”:

Ho un sacco di amici morti
e vie in cui vago a tutte le ore
a occhi aperti o chiusi
sperando di incontrarli.
(“I miei averi”)

E infine la meraviglia attesa e sempre sfuggente, temperata dall’ironia, rispetto all’inafferrabilità del momento o dell’epifania, simboleggiati dall’evento cosmico che l’essere umano non registra – “il portento, unico in una vita, la rosa pulsante della cometa”, aveva scritto Seamus Heaney, e che solo le antenne dei cani percepiscono, come accade in “Il mistero”:

Cosa sanno che noi ancora non sappiamo
I bastardelli che abbaiano all’unisono 
su e giù per la strada?
Ladri che penetrano in una casa.
Una sposina impiccata ad un albero.

I padroni dovrebbero
intimargli di smetterla
Riportandoli tutti a casa,
Dato che sono riusciti a svegliare
Tutto il dannato vicinato.

A meno che non si tratti d’altro
Stanotte  ad agitarli tutti,
La visione di una stella che la fa finita
Dopo milioni di anni
e svanisce in una picchiata lenta.

Credit immagine di copertina: Charles Simic © Poetry International 1997 – Pieter Vandermeer

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