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diretto da Romano Luperini

Se gli studenti parlano da soli. (Restituire una dimensione dialogica al colloquio dell’Esame di Stato)

Nel tempo non assediato dell’inizio dell’anno scolastico, è importante chiedersi come restituire senso e spessore culturale al colloquio che conclude il percorso degli studi superiori; una prova che negli anni ha oscillato fra il grottesco delle tre buste e la tragedia della pandemia, ma che in generale mostra limiti evidenti e una forte tendenza a incarnare un modello di scuola che tante e tanti fra docenti noi considerano vuoto e pericoloso. I monologhi d’esame di molti candidati sono infatti esempi perfetti di un repertorio intellettuale superficiale, di un deciso scadimento del valore delle discipline, della sostanziale scomparsa di una dialettica vera fra chi insegna e chi apprende. A questa ingessatura del colloquio in monologhi spesso insignificanti contribuiscono le indicazioni ministeriali di limitare al massimo le interferenze (leggi “domande”) da parte della commissione, il timore malcelato di incorrere in ricorsi o proteste, la costante tendenza a aggiungere nuovi ingredienti che frammentano il confronto e ne confondono la direzione: quest’anno, oltre ai PCTO e all’Educazione Civica, l’invito a utilizzare il curriculum dello studente, traendone indicazioni e elementi utili a valorizzare la personalità e la soggettività di ciascun candidato.

In questo modo, si proietta nel colloquio un’idea di scuola a misura del singolo individuo-cliente (secondo una logica coerente con la “personalizzazione” dei percorsi formativi su cui si spende tanta retorica), non del cittadino e della comunità.

Accanto all’imperativo di lungo periodo – difendere il valore e la funzione della scuola della Costituzione – resta però aperto il problema di preparare le classi a sostenere una prova importante e articolata: come fornire loro gli strumenti per interpretarla al meglio e per impostarla come dialogo vero con i docenti per il tramite dei saperi disciplinari, non come vuoto monologo autoreferenziale? Sulla base delle mie esperienze, da commissario e presidente di commissione, proverò a formulare alcune riflessioni teoriche generali e qualche esempio pratico, che immagino come spunto per una discussione libera da pregiudizi.

Lo farò senza nessuna nostalgia per il passato, convinto come sono che la dimensione del dialogo fra le discipline sia una fra le carte migliori da giocare nella scuola del futuro. Ma lo farò rigettando la retorica alla moda della nuova “centralità dello studente”, opposta alla vecchia “centralità dell’insegnante”: penso infatti che al centro della scuola debbano esserci prima di tutto le materie di studio.

Uno spazio per la critica

Che lo si legga attraverso categorie più vicine alla tradizione o più aderenti a una terminologia innovativa – che si parli cioè di “capacità critiche-argomentative” o di “competenze trasversali” – il colloquio costituisce il culmine di un percorso di consapevolezza culturale, emotiva, psicologica.

Manifesta cioè l’acquisizione di concetti e nozioni, selezionati e utilizzati in relazione a processi logici e cognitivi conosciuti, volti a affrontare e cercare di risolvere problemi intellettuali non conosciuti. Attesta il superamento di una dimensione impressionistica nel giudizio soggettivo (“è così perché è la mia opinione”), dimostrando la capacità di misurare il proprio pensiero su quello di chi ha segnato la storia della tradizione culturale al cui interno si cresce. Mette in luce la preziosa capacità di superare i ristretti confini del proprio ego, riconoscendo valore all’alterità e alla differenza, come elementi costitutivi di qualsiasi esperienza di pensiero significativa.

Tutte cose che, alla fine di un’estate delirante, culminata nella discussione sul martirio intellettuale di un generale ignorante (Giordano Bruno si porta su tutto, in questi ultimi tempi), sembrano ogni giorno più importanti e lontane. Perché, certo, il colloquio attesta spesso che le nozioni sono state acquisite in modo parziale e frammentario, e che l’impressionismo e l’autoreferenzialità dominano incontrastati nell’immaginario e nelle scelte intellettuali dei candidati: proprio come se fossero ministri o esponenti di primo piano del dibattito pubblico.

Criteri di argomentazione

Posti di fronte a una foto, un documento, un breve testo, una formula, pur nella notevole varietà di soluzioni escogitate dalle ragazze e dai ragazzi, spiccano tre tipologie di approccio logico. Proporrei di sintetizzarle in questi termini:

  • adozione di un criterio cronologico. Un criterio rassicurante e ordinato è costituito dalla scelta di un evento, data, periodo circoscritto, a partire dal quale costruire un discorso lineare, organizzato dalla ricorrenza del riferimento temporale. Ne è esempio tipico il tema delle due Guerre Mondiali, all’interno di ciascuna delle quali le persone collocano testi, scoperte, fenomeni, temi diversi. Il collante del ragionamento non è un’idea, ma una data o un periodo che diventano contenitore elastico e spesso vago (nel Decadentismo, per esempio, vengono fatti rientrare fenomeni e testi che spaziano per più di mezzo secolo)
  • opzione del criterio tematico. Si trova alla base di scelte e strategie diverse, dal semplice riferimento a macrotemi tipici del lavoro scolastico (le idee di “tempo”, “spazio”, “natura”, “identità” su tutte) ad un loro più articolato utilizzo nel contesto di un ragionamento soggettivo. Per esempio: il concetto di “crisi”, “cambiamento”, “rivoluzione”, in relazione alle diverse aree disciplinari; oppure le figure di “eroi” e “antieroi” nella scienza, nella storia e nell’immaginario. La prima accezione prevede di solito un’organizzazione descrittiva/ espositiva dei contenuti, in una successione che può essere quasi casuale, mentre la seconda strategia si colloca sul crinale fra descrizione e interpretazione, risulta spesso originale e imprevedibile, segnata da una robusta dose di coraggio intellettuale.
  • si può infine parlare di criterio interpretativo quando i riferimenti al tema scelto sono proposti in una forma assolutamente imprevedibile e soggettiva, indice di una volontà (non sempre ben realizzata) di assegnare loro un preciso valore in un patrimonio culturale personale e rielaborato. Ad esempio, nei colloqui di quest’anno, una ragazza particolarmente aperta al lavoro critico ha lavorato sulla “luce” (tema proposto dalla commissione) provando a evidenziarne le diverse valenze culturali (dalla definizione oggettiva della scienza agli utilizzi simbolici delle rappresentazioni letterarie e artistiche); oppure un ragazzo, evidentemente coinvolto dall’argomento, ha analizzato un’immagine familiare convenzionale mettendo il luce il senso della parola” famiglia”, dalla classificazione scientifica alla dimensione psicanalitica (dialettica amore/ morte)

Si può riconoscere nel primo approccio/ criterio la ricerca di un solido appoggio sui contenuti, nel secondo la valorizzazione dell’abilità di comprensione di testi, documenti e problemi, nel terzo la spinta verso una collocazione nuova e originale dei contenuti e delle abilità apprese.

In un esame ben pianificato e riuscito, le scelte operate dagli studenti rispecchiano le attese della commissione, determinanti nella selezione dei materiali di avvio e nella successiva conduzione della prova. Tuttavia, si ha spesso l’impressione che scelte e attribuzioni rispondano a criteri didattici vaghi o illogici. Per esempio, la ricerca di un’equa ripartizione dei materiali fra i commissari; o, peggio, la diffusa idea che studenti deboli debbano partire da materie umanistiche, perché se non sai di Scienze taci, mentre se non sai di Italiano inventi. Naturalmente, se una classe di scientifico ha un profilo mediamente basso (come mi è accaduto quest’anno) un simile atteggiamento genera una situazione insidiosa e confusa.

Sempre, però, solo la presenza di una strategia consapevole e dichiarata da parte dello studente consente alla commissione di dialogare in modo finalizzato e non dispersivo: per esempio, recuperando nozioni e contenuti formulati in modo sommario, quando il discorso è tutto proteso ad interpretare la realtà e rielaborare i concetti; oppure spingendo verso più concreti riferimenti testuali e documentali nel caso che lo studente scelga la via della pura e semplice esposizione di informazioni e concetti.

Il livello di consapevolezza di ciascuno studente rispetto alla costruzione del discorso e all’interlocuzione con i docenti non s’inventa ovviamente in sede d’esame. È frutto del lavoro di anni, e intreccia componenti individuali (in particolare l’orientamento e le passioni di ciascuna/o) e collettive/ collegiali (la capacità del gruppo docente di lavorare insieme alla costruzione di un pensiero autonomo, di un approccio critico al sapere, di una vera collaborazione con la classe, al di là delle sciocchezze sugli studenti che imparano da sé).

Quali esperienze culturali, quali esercizi, possono allora essere proposti a una classe per contribuire a prepararla alla situazione che si troveranno di fronte all’esame?

La disciplina fra le discipline

Il problema non è come superare le discipline in vista di una prova multidisciplinare: se così fosse, sarebbe infatti sufficiente organizzare le attività in forma aperta, sottraendo tempo, peso e valore al lavoro nella singola materia, per attribuirli al momento applicativo, inteso come intreccio fra i saperi. Rispetto a questa prospettiva, è relativamente semplice ideare e realizzare in qualsiasi momento (non solo dell’ultimo anno di corso) esercizi di simulazione del colloquio, proponendo materiali/ documenti/ testi e chiedendo a ciascuna/ o studente di individuare collegamenti e definire un percorso intellettuale che valorizzi gli apporti disciplinari nel quadro della sua personale curiosità e visione del mondo. Un simile approccio si caratterizza per la sua “orizzontalità”. Oltre a consentire l’acquisizione di una certa familiarità con la situazione che ci si troverà di fronte all’esame, suscita la motivata impressione di diminuire il peso del caso e dell’ignoto rispetto al colloquio: costruisce infatti una sorta di repertorio di “collegamenti noti”, che possono effettivamente diminuire il carico di ansia con cui molte ragazze e ragazzi affrontano l’incognita della prova orale dell’esame. La domanda se il gioco valga la candela, però, è legittima, per tre buone ragioni. In primis per svolgere quest’attività serve molto tempo (ovviamente sottratto al monte ore della materia) soprattutto si valorizza adeguatamente la sua dimensione collettiva, attraverso la socializzazione delle ipotesi formulate e la loro validazione ad opera del gruppo. In secondo luogo, la simulazione è puramente finzionale, perché la struttura oraria rigida non consente l’effettiva compresenza dei docenti, e la situazione comunicativa è ben diversa da quella che realmente ci si troverà di fronte all’esame. Si può generare, infine, una certa tendenza di alcuni studenti a “fissarsi” su alcune idee e collegamenti, che si traduce poi in sede d’esame in forzature intellettuali evidenti.

Si può invece partire dal presupposto di mantenersi nell’ambito dei singoli saperi disciplinari, sviluppando attraverso ciascuna materia l’attitudine, la capacità e il coraggio intellettuale indispensabili a riferirne le nozioni e applicarne processi e logica a nuovi problemi che possono essere incontrati; problemi che, spesso, impongono la convergenza e l’incrocio di sguardi e approcci differenti e fanno quindi emergere la dimensione trasversale della formazione culturale di ciascuno studente. Nello studio letterario e linguistico, esercizi mirati a questo scopo si sviluppano lungo una direttrice “verticale” di approfondimento disciplinare e potrebbero sembrare lontani dai requisiti e dall’approccio richiesti dal colloquio d’esame; tuttavia, la logica qualitativa che vi presiede potenzia con grande naturalezza la riflessione sul processo culturale di formazione del sapere e sulla sua dimensione storica e civile. Ne propongo un esempio reale, naturalmente tratto dalla mia esperienza didattica sulla storia letteraria e sulla comprensione dei testi, svolto con diverse quinte di liceo scientifico.

L’esercizio muove da letture significative sul tema del “confine” e del suo attraversamento (con la quinta di quest’anno: le prime pagine da “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, e da “Il barone rampante” di Calvino”). Il problema intellettuale è stato formulato in questi termini: le pagine che hai letto propongono una forte antitesi fra conosciuto e sconosciuto. Definiscine le caratteristiche nei testi letti. Quali altre situazioni letterarie ricordi, in cui la lettura di un’opera sia orientata da un’idea di “confine” e dal suo attraversamento? Pensi che quest’idea abbia assunto valenze e funzioni diverse nel corso del tempo? Cosa significa nel mondo che ti circonda?

In prospettiva d’esame, questo genere di esercizi disciplinari strutturati (che per uno svolgimento significativo richiedono alcune ore) presenta alcuni pregi evidenti:

  • è impossibile affrontarlo attraverso una semplice esposizione di contenuti/ informazioni minimi
  • impone di partire da un lavoro di comprensione e contestualizzazione linguistica/ culturale di ciascun testo (analisi), e di procedere in un secondo momento a costruire confronti e collegamenti (sintesi)
  • è costruito per stimolare la presa di posizione e l’espressione di giudizi soggettivi motivati, soprattutto in senso attualizzante

Si tratta con tutta evidenza di alcune fra le principali operazioni intellettuali previste dal Profilo Educativo Culturale e Professionale (PECUP) di ciascun indirizzo di studi, che costituisce un riferimento fondamentale nella progettazione e nello svolgimento dell’esame. Conoscenze, capacità e scelte che trovano precisa espressione nella griglia di valutazione del colloquio, e che lo orientano in una prospettiva dialogica e aperta.

Vale la pena, credo, di parlarne in maniera approfondita. Accettando di modificare alcuni aspetti della didattica disciplinare, senza trasformare le discipline in insalata mista, e il colloquio in un monologo autoreferenziale sull’insalata.

(Illustrazione di Stefania Melotto)

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