Ritornare a scuola. Brevi pensieri per insegnanti
LN riprende le proprie pubblicazioni con questo articolo di apertura del nuovo anno scolastico di Daniele Lo Vetere.
Ho provato a fissare alcuni punti fermi per questo inizio d’anno scolastico, per chiarirli innanzitutto a me stesso. Sono brevi pensieri, tutti, in futuro, da articolare. Sono (relativamente) indipendenti e possono perciò essere letti uno dietro l’altro o autonomamente l’uno dall’altro.
1) Lasciar essere i giovani
Si parla molto dei giovani e di quello che la scuola dovrebbe fare per loro, adeguandosi alle “nuove esigenze” formative. Ma le nostre società hanno l’esagitazione di quegli individui ansioso-depressivi, che, per scaricare fuori di sé l’angoscia, parlano a raffica o si impegnano iperattivisticamente in cento progetti. Ho l’impressione che più parliamo di giovani, meno li “lasciamo essere” davvero. Sono sempre esposti alla luce di adulti petulanti che prefigurano al posto loro il mondo. Come recita un recente libro: sii te stesso, ma a modo mio.
2) Lo studente leggermente decentrato
Lo «studente al centro»? Prendiamo sul serio il compito di liberare e non asservire, di mettere la nostra intelligenza e cultura a disposizione dei nostri allievi, curiamo la nostra capacità di ascolto e di empatia verso di loro. Ma nessuno è “al centro” in questo mondo: non gli studenti, (non gli insegnanti!). Certo, la scuola è lì per consentire a ciascuno di porsi la domanda “chi sono?”, ma l’ipse non è l’idem (Ricoeur): c’è l’identità pura e semplice con se stessi, dell’io sono io, dell’essere già qui e già dato (l’idem); c’è l’identità che contiene in sé l’altro, il tu e il non-io, nonché la temporalità, il mutamento di un sé che non è fisso, piatto, sclerotizzato, ma in continuo dialogo con il mondo, con le esperienze, con gli altri (l’«ipseità»). L’insegnante, gli autori e i testi del presente e del passato, i compagni di classe, sono lì a farci da specchio, da modello, da limite. Nessuno accetti di stare ai margini, ma scopriamo le virtù dello stare leggermente decentrati.
3) Lavoratori e lupi
L’insegnante è un lavoratore molto particolare ma è un lavoratore, con i diritti di tutti i lavoratori. Chiunque – politico, opinionista, dirigente – cerchi di lasciar passare questi diritti per privilegi e li ponga in contrapposizione ai diritti degli studenti e delle famiglie, all’efficienza o all’equità del sistema, è un lupo travestito da pecora.
4) Uguaglianza degli educatori
I nostri stipendi sono inadeguati, chiediamo un loro aumento, ma gioiamo almeno del fatto che ce li garantisca lo Stato, che siano uguali per tutti, che siano in una parola esenti dalle dinamiche del mercato. Certo gli insegnanti non sono tutti uguali, tutti ugualmente capaci, ma dobbiamo continuare a lavorare come se lo fossimo. Chiediamo, certo, che gli straordinari vengano pagati, ma facciamo attenzione al fatto che oggi gli extra e gli accessori, nonché le proposte di avanzamento di carriera fondate su logiche meritocratiche, portano con sé l’insidiosa forma mentale del “valore aggiunto” che possiamo garantire all’istruzione.
Tutto ciò vale anche per le scuole: sono tutte diverse, ma la “finzione” costituzionale della loro eguaglianza è un meraviglioso, anche se controfattuale, ideale. Il nostro lavoro deve mantenere fermo il suo valore d’uso, la sua utilità sociale immediata, sottraendosi il più possibile alla logica del valore di scambio, tra domanda dell’utenza e offerta formativa. In fin dei conti il “core business” è lo stesso in tutte le scuole del regno: italiano, matematica, inglese, storia, scienze naturali, … Promuovere la propria scuola per i propri progetti “caratterizzanti” e per quel laboratorio o gita scolastica in più non è molto diverso dal gioco di marketing sulla presunta nuova terza forza pulente del proprio detersivo, in un mondo in cui gli altri detersivi ne offrono solo due. La verità è che i detersivi fanno tutti, grosso modo, la stessa cosa.
5) Colleganza
Confidiamo nelle migliaia di insegnanti che, benissimo, bene, al limite “onestamente”, fanno il proprio lavoro in silenzio. Diffidiamo del piccolo narcisismo dell’insegnante eccezionale coi follower. Diffidiamo dello storytelling della scuola globalmente grigia e arretrata da cui sorgono ogni tanto piccole isole di felicità colorata, per merito di un preside presenzialista o di un collega protagonista. Ricordiamoci dell’etimologia della parola “collega”: essere affidatari congiunti di uno stesso compito. Questa colleganza richiede o prossimità fisica – la stessa scuola – o prossimità politica – un progetto comune: la cosa che più spiace delle “storie” di insegnanti e scuole eccezionali è che siano indistinguibili dal frame narrativo-giornalistico, dalla forma del caso “uomo morde cane” e che siano perciò inservibili come esempi per la nostra quotidianità educativa.
6) Mercificazione e dissociazione
L’accelerazione impressa dal Pnrr alla moltiplicazione di corsi di formazione a pagamento, per lo più in didattica mediata dalle nuove tecnologie, è stata spaventosa. Tramite le nostre mail, i nostri account sui siti delle case editrici, i nostri profili sui social newtork siamo diventati un target appetitoso e bombardato. Ammesso che si riesca a scovarli in questo infinito emporio, alcuni di quei corsi saranno certamente interessanti. Ma non deve sfuggire l’inarrestabile avanzata della forma-merce in ogni ambito della nostra vita sociale. Anche la scuola ormai è un campo di conquista. Come nella scelta di un nuovo libro l’odierno lettore è costretto ad andare alla ricerca faticosa della qualità letteraria in un campo esploso di produzioni in serie e di casi editoriali gonfiati a forza di steroidi pubblicitari e di premi letterari, così gli insegnanti sono ormai consegnati al ruolo di consumatori di beni formativi.
Questo quadro è aggravato da una fondamentale dissociazione: in un mondo in cui tutti surfano spericolatamente, senza alcun obbligo etico o limite legale, nel mare delle merci, si dice che spetta a noi insegnare ai nostri studenti ad essere cittadini attivi ed esseri umani integrali, non consumatori passivi. Siamo insomma l’amico responsabile, che il sabato resta sobrio e riporta a casa tutti sani e salvi, quando gli altri si sfasciano in eccessi programmaticamente perseguiti. Siamo quelli affidabili, ma in fondo considerati decisamente noiosi e poco originali.
7) Valutazione e prestazione
La nostra è una società fondata su reiterati atti di valutazione. Valutiamo l’alloggio su Airbnb e veniamo a nostra volta valutati come ospiti; chiunque può recensire un ristorante su Tripadvisor o un libro su Amazon; questionari di gradimento sono ormai pane quotidiano ovunque si offra un servizio, dalla pulizia del bagno in autogrill alla lezione universitaria. Poter contare sulla valutazione di molti altri in effetti ci dà alcune garanzie di previsione, quando facciamo le nostre scelte di consumatori. Avere il potere di valutare è poi, a suo modo, inebriante. Ma per uno che valuta, c’è qualcun altro che viene valutato. Sapere di essere sottoposti a una valutazione spinge il valutando a comportamenti adattivi, oltre a generare ansia. I gesti spontanei, poiché imprevedibili, vengono marginalizzati.
Ci sono perciò un elemento di assoluta verità e una profonda insufficienza nel discorso sulla valutazione formativa e l’abolizione del voto. L’elemento di verità è la preoccupazione per lo scarso spazio concesso alle motivazioni intrinseche all’apprendimento, che la struttura burocratica della scuola tende a scoraggiare. L’elemento di insufficienza è la miopia di guardare soltanto alla vita nelle classi, quando le scuole stesse, e le università, sono ormai “valutate e punite” (Pinto) e i “voti” vengono attribuiti ormai ovunque, da chiunque, a chiunque. Molto dello stress da valutazione che i nostri studenti vivono dipende innanzitutto dall’introiezione fin dall’infanzia dei valori di una società della prestazione. Non confondiamo i sintomi con le cause.
8) L’impotenza della scuola “autonoma”
In parallelo con le trasformazioni della società, la scuola vive una serie di paradossi che fanno tra loro sistema. Come lo Stato e la famiglia – le istituzioni classiche della modernità – la scuola subisce un processo di deistituzionalizzazione, di perdita di autorevolezza e di capacità di garantire la coesione sociale; viene così dichiarata “autonoma”, ma poiché ciò non significa diritto alla sregolatezza, aumentano i doveri di rendicontazione, per stabilire se il suo “autonomo” operato abbia rispettato determinati parametri e si sia mosso correttamente entro il quadro stabilito a monte; proprio in conseguenza della progressiva crisi delle altre istituzioni, la scuola vede a lei delegati molti compiti educativi di supplenza. In una formula: fai quello che neppure altri possono o sanno più fare, fallo con alti standard, assumitene la responsabilità, rendine conto. Se viviamo una sensazione di frustrante impotenza, non è strano.
9) Preparati al lavoro o fallisci
La proposta di una filiera tecnico-professionale, che ridurrebbe di un anno la durata degli istituti tecnici e professionali, il Pcto, l’orientamento obbligatorio introdotto quest’anno, i test d’ammissione alle facoltà universitarie svolti già nella primavera del quinto anno: nell’arco di pochi anni il fiato sul collo della scuola è diventato minacciosamente ansante. Anche in questo caso la dissociazione psichica è terribile: anticipare l’ingresso nel mondo del lavoro, costruire per tempo competenze utili, orientare già da ora lo sguardo sul futuro. Per costruirlo? Sembra di no, dal momento che quest’ansia anticipatrice va di pari passo con l’affermazione che il futuro sarà flessibile, tumultuosamente mutevole, tanto da rendere velleitaria ogni immaginazione preconizzante. Dunque che cosa stiamo in effetti convocando nel presente dei ragazzi e delle ragazze, se non il fantasma dell’angoscia futura?
10) Buon inizio
Per fortuna, tutto quello che la lucidità della ragione vede e la volontà di non essere falsamente ottimisti spinge a dire nulla al ver detraendo, viene sorpreso dalla realtà, dalla vita, dalla natura: «Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? […] Non v’è uomo così profondamente persuaso della nullità delle cose, della certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra all’allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una gioia della quale altri si degni di metterlo a parte» (Leopardi, Zibaldone, 1651-1652). Perciò, conclusa la riflessione preliminare sul rientro a scuola, ora è il momento di rientrarci davvero, lasciandoci sorprendere da quanto incontreremo e che la nostra ragione nemmeno riesce ad immaginare. Buon inizio!
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Grazie per le belle riflessioni, del tutto condivisibili. Negli anni ho imparato a diffidare di questa corsa al nuovismo e a cercare di tenere saldi questi principi di “buone pratiche”: instaurare un rapporto di collaborazione proficua con i colleghi, creare un clima di classe sereno, disposto all’ascolto reciproco nella consapevolezza che nessun ostacolo è insormontabile, selezionare nella massa di sollecitazioni a volte aggressive da cui siamo bombardate quelle che possono davvero migliorare la mia didattica ed essere un “plus” nel mio agire in classe. Sono elementi che, oltre a quelli che ha proposto Lei, orientano la mia professionalità.
Buon anno scolastico a tutti noi.
Il punto 5 mi sembra il più importante: si tratta di “lavorare insieme”, ma che cosa vuol dire lavorare insieme? Non è un generico trovarsi tra amici. Nella scuola molti sono convinti di lavorare collettivamente: “Ma sì, noi siamo un gruppetto, ci troviamo insieme, la pensiamo allo stesso modo, facciamo cose bellissime, ci vogliamo bene.” Non è questo. L’organizzazione nasce dalla constatazione che uno non ce la fa a realizzare una cosa da solo, ma per far questo ha bisogno di cercare chi è capace di portar dentro competenze complementari alla sua e, per far questo, occorre rendersi conto che, all’interno delle organizzazioni, non trovo persone che si sono scelte, ma trovo persone che collaborano perché sono portatrici di competenze complementari rispetto al compito unitario, a prescindere dal fatto che si piacciano o non si piacciano. E allora dei tanti significati che il vocabolo ‘professionalità’, nella sua plurivocità semantica, può evocare c’è sicuramente, io credo, anche quello di non lasciarsi dominare dalle dinamiche socio-affettive e, quindi, certamente avere moti dell’animo come amicizia, inimicizia, simpatia, antipatia, amore, odio, tutte queste cose che caratterizzano le relazioni
socio-affettive umane. Tuttavia, se uno è un professionista non se ne fa dominare. “Non mi piaci, però tu hai una competenza complementare alla mia rispetto a un compito che è nostro, e allora collaboriamo.” Ebbene, lavorare insieme significa rivalorizzare il concetto di collega, non di amico, poiché l’organizzazione è fatta di colleghi, non di amici. I gruppi primari sono fatti di amici e, guarda caso, i gruppi primari non hanno compiti da realizzare, stanno insieme sino a quando dura il piacere di stare insieme. Le organizzazioni non sono gruppi primari; le organizzazioni sono gruppi che sono costituiti perché c’è un compito unitario da realizzare attraverso l’integrazione di apporti, di competenze complementari, che vanno, per l’appunto, integrati fra di loro. Non sono fatte da amici, quindi, ma sono fatte da colleghi. Che poi i colleghi possano anche diventare amici è un altro discorso, ma sono piani diversi. Dunque, è il concetto di collega che va recuperato; di più, colleghi che lavorano all’interno di unità organizzative formalizzate. Ed è la formalizzazione la chiave di volta di una struttura organizzativa che abbia le tendenza, tutta istituzionale, a durare nel tempo, giacché un gruppo o un’unità organizzativa non formalizzati, basati sull’informalità, in cui le relazioni, i ruoli e i compiti non sono resi ufficiali ed espliciti e documentati, in cui le esperienze che si fanno e le modalità operative sono lasciate alla spontaneità, quando quel gruppo o quell’unità si scioglie sparisce tutta l’esperienza di quel gruppo o di quell’unità. Al contrario, se la struttura è formalizzata, se i ruoli sono formalizzati, se le procedure sono formalizzate, dentro quei ruoli, quelle strutture e quelle procedure formalizzati si annida l’esperienza fatta dal gruppo, che in quel momento fa funzionare quella struttura. E quando quel gruppo sparisce resta la struttura formalizzata, resta un’esperienza capitalizzata, che i nuovi che subentrano possono prendere, leggere, proseguire, confutare, ma comunque partendo da una base, che non è lo zero assoluto. E quindi la formalizzazione delle strutture è la condizione indispensabile per costruire l’identità istituzionale di una scuola, separata dall’identità personale di chi ci lavora in un certo momento, ed è il veicolo della socializzazione dei nuovi che arrivano, nonché lo strumento dell’apprendimento dall’esperienza.