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diretto da Romano Luperini

Scusi, per il maschilismo inconsapevole? Chiedi a Verga

Non scende. La percentuale di donne uccise non scende. Uniti gli apici delle colonnine annuali sugli istogrammi, ne esce una retta segmentata, con minime oscillazioni verticali, inchiodata orizzontalmente. In termini di consapevolezza sociale, vuol dire che in questi ultimi vent’anni gli uomini non sono stati in grado di elaborare una diversa percezione nei confronti del mondo femminile.

Questo, penso, nel momento in cui – a fine ottobre di un paio di anni fa – mi trovo a decidere quale repertorio di racconti e stralci di Giovanni Verga far incontrare alla mia classe di adulti della sera. Perché leggere un testo (non è banale ribadirlo) significa sceglierlo; ovvero immaginare, preventivamente, come lavorerà sui cervelli di chi ascolta. È questa la sua memoria “didattica”: la sintomatologia delle reazioni che ogni insegnante categorizza di anno in anno nel proprio archivio mentale, altrimenti detto esperienza. È piaciuto, il testo? è stato utile? ha indotto riflessioni? ha provocato discussione? c’è stata necessità di mediazione? si è riusciti a governare il confronto? Il canone si può leggere anche in questi termini: la stratigrafia di ciò che storicamente funziona.

Un’inerzia sulla quale il tempo presente lavora ininterrottamente; perché ai testi letterari, di fatto, viene chiesto di continuo un confronto. Dunque, nella tarda pandemia (e nel pieno dello sconquasso lungo e silenzioso che ha ribaltato le aule scolastiche), con i dati che arrivavano mostrando tutta la drammatica slabbratura sociale del rapporto di genere, non posso negare che portare in lettura una storia nella quale una donna viene uccisa è stata una decisione non disgiunta dal malessere rivelato dalle cifre criminali.

In caso di crisi scegliere un testo urticante.

Femminicidio, patriarcato, incapacità genitoriale, sessualizzazione, stigma. Le ha tutte, La lupa, per mettere scomodo il suo lettore. Troppa l’incandescenza della sua protagonista: quella gnà Pina donna matura (scandalosamente più matura del destinatario della sua passione), sola in modo imperdonabile (vedova, dunque monca), socialmente sistemata ma non troppo (non assoggettata cioè a un capofamiglia che la accasi nuovamente, come convenienza vorrebbe), addirittura (addirittura!) padrona di entrare e uscire per le strade a piacere, disponendo del proprio spazio e senza dover rendere conto a nessuno del suo tempo. Troppo il morbo sotteso al triangolo amoroso, messo in moto da una donna che ha il carico di due colpe difficilmente emendabili: l’impudenza di esprimere la volontà di desiderare in un mondo in cui, vale la pena ricordarlo, se di suo il desiderio maschile è considerato come un peccato che va tenuto a bada, quello femminile proprio non è concepito (e passeranno altri cento anni prima che i comportamenti femminili giudicati “abnormi e inadeguati in campo sessuale” non finiscano più per destinare le sciagurate al manicomio); e in secondo luogo è, la gnà Pina, una donna-madre che di materno ha nulla; anzi: prende decisioni e lavora come un uomo (peraltro, come altrimenti potrebbe far campare la famiglia, non si sa), ma soprattutto, pur di stabilire un legame con l’oggetto della sua passione, non si fa scrupolo a consacrare la figlia al capriccio passeggero di quel tale Nanni che pare uscito dalla pubblicità di un frantoio – unto, palestrato, instancabile, e tanto sfacciatamente sicuro dei propri lombi (ché, ovviamente, mal gliene incolse). Storia di insubordinazione sociale, insomma, questa novella datata 1880; di emarginazione, di sensi, di non riducibilità in nome di un amore letale, primitivo, non inibito neppure dai legami di sangue. Una autentica giostra degli orrori (maldicenza, sberleffo, calunnia, provocazione, aggressività, oggettivazione, brutalità) che sottopone la protagonista a un controllo sociale ossessivo, permettendole di sopravvivere all’interno della comunità solo a patto di un assoluto, spregiato esilio. E, per finire – omaggio alla violenza mascolina di prassi – l’omicidio di lei, paradigmatico e rituale, con tanto di scure, papaveri rossi e sole che incocca la lama affilata facendola brillare stagliata sul verde inconsapevole dei campi.

Dunque, una domanda, a questo punto, è necessaria: cosa significa, oggi, nel nostro presente ammalato di violenza di genere, leggere una storia di femminicidio? E: come leggerla?

Letteratura come antistaminico all’infebbramento sociale.

I modi in cui un testo è interrogabile sono molti. Quello che questo modesto esperimento (ripetuto non per l’ultima volta anche nell’anno corrente, dati gli esiti) induce a pensare è che: sì, La lupa è una novella utile da leggere, e da tornare a rileggere, soprattutto se si ha qualche dubbio sulla tenuta dei classici, e sulla loro capacità di parlare ad ogni tempo – perfino al di là del contesto (e delle motivazioni) in cui sono stati concepiti.Tuttavia, più ancora, serve leggerla non solo perché è giusto dubitare sempre del fatto che quello che allestisce Verga nella sua novella sia stato capito, ma addirittura perché ciò che la lettura fotografa di noi, restituendoci alle nostre reazioni e alle nostre posture, è qualcosa che probabilmente neppure un autore ben allenato all’osservazione della compagine umana come Verga avrebbe potuto immaginare.

Silenzio: parla il testo.

Prendiamo allora una classe serale: uomini e donne (soprattutto donne, giovani e mature, con storie personali spesso faticose e complesse) che di fatto altro non sono che un campione fedele della società nella quale viviamo. Per capire quale percezione e opinione abbiano interiorizzato dei personaggi, letta in aula la novella, viene proposto, immediatamente dopo, un lavoro in piccoli gruppi: definire come vada a finire la storia, individuare dieci aggettivi per descrivere ognuno dei tre personaggi, esprimere un giudizio su ciascuno e fare una riflessione sulla regressione dell’autore. Niente di particolarmente clamoroso, insomma; a parte il fatto che l’assenza di un confronto preventivo guidato lascia corsisti e corsiste davanti al testo senza altra mediazione che quella della propria umana comprensione.

Chi è già danneggiato scagli la prima pietra.

La scuola serale, peraltro, frequentata da persone non di rado già impiegate in contesti sanitari (ovvero, di attenzione sociale) è, nello specifico caso, un istituto professionale a indirizzo sociale abituato a lavorare sovente con ragionamenti trasversali nei confronti della relazione, della percezione di sé e degli altri. Rispetto a un’aula del diurno, insomma, parrebbe legittimo considerare la vicenda esposta a un margine più solido di comprensione adulta.

Invece.

Torquemada? C’est moi!

Se tutti, unanimemente, sono concordi nel concepire nel non scritto l’uccisione della gna’ Pina (sì: siamo davanti a un femminicidio, è chiaro), la connotazione che emerge della donna nelle parole scelte dai corsisti e dalle corsiste rispedisce la compagine del serale diretta tra i banchi della chiesa di quella comunità rurale immaginata di un secolo e mezzo fa.

Perché, nel secondo decennio degli anni Duemila, dalle donne e dagli uomini che l’hanno incontrata su carta la gna’ Pina viene letta come “spietata, audace, provocatrice, sensuale, insaziabile, meretrice, egoista, calcolatrice, autorevole, sola, consapevole”.

E, ancora: “manipolatrice, passionale, tentatrice, disperata, libertina, ribelle, lavoratrice”.

Per finire con: “demone, adulatrice, selvaggia, immorale, posseduta, seduttrice, furba”.

In altre parole, neanche la domanda sulla regressione dell’autore – che ha fatto, è evidente, davvero un buon lavoro mimetico, e avrebbe dovuto accendere un sospetto sul punto di vista della narrazione – ha arginato la scissione tra una teorica (retorica?) condanna nei confronti dell’omicidio di genere e la puntuale stigmatizzazione di una donna letta (ancora!) nei termini della colpa e del peccato. Il giudizio sintetico che ne esce, non a caso, ventila nei termini un ambito di religiosità che ha uno spiacevole e incredibile retrogusto di Inquisizione. In buona sostanza, per le classi interpellate, la gna’ Pina altri non è che un diavolo (sic), una tentatrice, una approfittatrice (?) che se ne infischia del giudizio (di chi? e quindi?). E, per suggello, una corsista riassume: «Perché ha la bocca rossa, prof, e si sa che chi ha la bocca rossa… insomma…», a paradossale sostegno di una posizione rivestita da donne, sorelle, madri, figlie cui almeno una volta in vita sarà capitato di colorarsi le labbra.

Lo sventurato, buon’anima, rispose.

A questo punto vale la pena rivolgere l’attenzione verso il trattamento dedicato dalla classe a Nanni. E qui, la musica cambia, perché il tenore degli aggettivi a lui riservati afferisce a ben altri campi semantici: “giovane, debole, fallito, ingenuo, lavoratore, irresponsabile, poveraccio, impaurito, solitario”.

Oppure: “sconfitto, pentito, prostrato, cedevole, schiavo, religioso, recidivo”.

Ma anche: “confuso, disperato, insicuro, traditore, ipocrita, stupido”.

Il giudizio – che autocensura l’agito finale del personaggio, su cui il gruppo si è asserito concorde all’inizio del laboratorio – è, in definitiva, assolutorio e deresponsabilizzante: Nanni è debole (dunque, vittima), non sa resistere, senza spina dorsale, smidollato (e, dunque, omicida?).

Emersioni di significato.

Se le parole scolpiscono il paesaggio nel quale si muovono i nostri pensieri e i ragionamenti che ne scaturiscono, è abbastanza evidente che l’esperimento permesso da La lupa ha in sé un portato di riflessione sociale che è riduttivo definire come attuale: nessuna proiezione didattica preventiva – per quanto nata dentro il malessere scaturito dalla lettura dei dati sugli omicidi di genere – avrebbe potuto prefigurare ciò che è emerso in termini di scissione del giudizio, tanto meno in un gruppo composto da giovani adulte con accesso a informazioni e connessioni, da donne che in varia misura hanno affrontato nella loro vita discriminazioni e limitazioni di genere (a partire dalla negata possibilità di terminare o proseguire gli studi imposta dalle famiglie) e da corsisti non digiuni da esperienze di esclusione o svantaggio (e, per converso, anche di evoluzione e cambiamento). E il dato sul quale varrebbe la pena soffermarsi è proprio l’inconsapevole introiezione dei meccanismi della postura sociale dello stigma operata praticamente da tutti, senza contraddittorio, e stanata da una scrittura di centoquarant’anni fa, con buona pace di chi potrebbe pensare che questa abbia ormai passato il suo tempo. Anzi.

Vuoi misurare il tuo tasso di patriarcato implicito? Leggi Verga. E scopri il mondo in cui vivi.

Postilla, ovvero: finale (una settimana dopo).

«Insomma, prof, guidando verso casa ci ho ripensato. Ma che cosa siamo se non ci accorgiamo delle intenzioni di quello che leggiamo?».

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