Su La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia di Massimo Recalcati
Perdita e trauma
Cosa accade dentro di noi quando perdiamo qualcuno che abbiamo amato e che dava senso al nostro mondo? O quando gli ideali nei quali abbiamo creduto e per i quali abbiamo vissuto si spezzano irrimediabilmente lasciandoci senza punti di riferimento o luoghi che ci appartengono? Come possiamo sopravvivere al senso di disperazione che pervade la vita umana in seguito all’esperienza della perdita?
Queste le domande alle quali tenta di dare una risposta il libro di Recalcati, La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, uscito per Feltrinelli nel novembre 2022, e nel quale viene posto al centro della scrittura proprio il rapporto della vita umana con l’esperienza traumatica della perdita, condizione inevitabile della nostra esistenza. Non è infatti possibile non sperimentare la morte, la scomparsa di chi o cosa dà un senso alla nostra vita, perché «la vita non può che scorrere attraverso i suoi innumerevoli morti»; eppure, ed è questa la tesi di fondo di Recalcati, è proprio grazie a questi morti, a queste perdite che costellano la nostra vita, che possiamo continuare a rinascere. Il libro si apre, infatti, citando Hannah Arendt, secondo la quale noi non siamo fatti per morire, ma per nascere, e per nascere innumerevoli volte.
L’esperienza della morte ci accompagna dunque costantemente, e non soltanto perché «è il destino inesorabile che ci attende alla fine della vita, ma perché in ogni istante della nostra vita c’è qualcosa che si perde, si stacca, si separa da noi stessi, scompare» (p. 21). Ed è una perdita irreversibile e sempre definitiva, che non conosce possibilità di ritorno: è un viaggio con un biglietto di “sola andata”. Morire non consente più diritto di replica, da quel momento siamo nelle mani degli altri, di coloro che restano e possono interrogarsi sul mistero della morte.
La domanda al centro di questo libro non è, infatti, “che fine hanno fatto i nostri morti?”, ma “cosa accade a chi resta, e a chi subisce l’esperienza della perdita”. Perché il lutto è la condizione dolorosa che colpisce chi resta e deve misurare la sua totale impotenza di fronte allo strapotere assoluto della morte. Ed è un’esperienza che non riguarda solo le morti fisiche di persone alle quali eravamo legati, ma accompagna necessariamente ogni separazione e ogni perdita, perché – come ci ricorda Freud – «il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via» (Freud in Lutto e Melanconia).
L’esperienza del lutto
Partendo proprio da Lutto e melanconia di Freud, testo fondamentale sul tema in questione, nel quale peraltro si affrontano considerazioni ancora oggi interessanti e attuali sulla guerra e sulla rimozione della morte nella civiltà moderna, La luce delle stelle morte prende in considerazione due concetti cardine in ambito psicoanalitico: quello del lutto e quello della nostalgia.
Il lutto è centrale nella prima parte di questo saggio, dove vengono analizzate le forme delle possibili reazioni di fronte alla perdita di una persona cara. Un lutto può infatti cronicizzarsi e dare luogo alla melanconia, cioè ad un’angoscia melanconica che scaturisce dall’impossibilità della separazione e dunque dalla fissazione verso qualcosa che è perduto e che non esiste più. Questa «adesione pervicace all’oggetto perduto» fa sì che il lutto si prolunghi indefinitamente nel tempo, impedendo la sua elaborazione simbolica e la separazione dall’oggetto perduto, che continua ad essere costantemente presente nella vita interna del soggetto, bloccandolo così ad un passato idealizzato e compromettendo la possibilità di un futuro. Inoltre, percependosi come colpevole della perdita, il soggetto melanconico si tormenta sottoponendosi ad un’incessante ruminazione che diventa rimpianto inconsolabile.
Un lutto, però, può anche essere apparentemente negato, condizione che dà luogo ad una reazione maniacale che porta al «misconoscimento» del lutto stesso, facendo prevalere «atteggiamenti euforici, iperattivi, esaltati, in aperta contraddizione con il dramma della perdita». Entrambi questi atteggiamenti, apparentemente alternativi, non sono altro che due differenti modi per «rigettare la difficile esperienza del lutto», condizione che invece necessita di essere riconosciuta, sebbene come inevitabilmente dolorosa, ed elaborata, affinché il soggetto possa liberarsi dal peso del suo dolore. E questo è ciò che Freud definisce «lavoro del lutto», attività che inizia quando il soggetto si trova costretto, sotto la pressione dell’esame di realtà, a prendere atto della inesorabilità della perdita e della conseguente necessità di iniziare un progressivo ritiro dell’investimento libidico da ciò che riguarda l’oggetto perduto. Per compiere il lavoro del lutto è infatti necessario spostare l’investimento libidico su un altro oggetto che non sia l’oggetto perso. Ed è indispensabile il lavoro della memoria, ovvero il ricordo dell’oggetto perduto in tutte le sue possibili rappresentazioni, attività che a sua volta diviene fonte inesauribile di dolore.
Elaborazione del lutto e sublimazione artistica
Alla memoria e al dolore psichico deve essere aggiunto un terzo elemento affinché si completi il lavoro del lutto: il tempo. Non esiste infatti lavoro del lutto rapido, il trauma della perdita esige tempo. Ma quando un lavoro del lutto può dirsi effettivamente compiuto per Freud? Quando alla libido del soggetto è concesso di ritornare presso di lui. Tornando a possedere la propria libido, il soggetto potrà infatti reinvestire libidicamente su nuovi oggetti del mondo: «un lavoro del lutto può dirsi allora davvero compiuto – secondo la lettura freudiana – quando l’assenza dell’oggetto non è più presente in modo opprimente, non tiene più in sequestro la libido del soggetto, quando diviene possibile per il soggetto recuperare un proprio desiderio vitale» (p. 75).
È proprio su questo punto che si interroga Recalcati, chiedendosi «E se invece, diversamente da quello che pensa Freud, il lavoro del lutto non potesse mai compiersi definitivamente? Se ogni lavoro del lutto portasse con sé qualcosa di incompiuto, un resto, uno scarto, qualcosa che non si lascia affatto dimenticare? (p.76)». Partendo dunque dalla concezione freudiana, Recalcati introduce la sua tesi di fondo, e cioè che non esiste lavoro del lutto che possa definirsi compiuto, aprendo in questo modo alla possibilità che nella vita e nella cura psicoanalitica, quel «resto», quello scarto che rimane e che non ci permette di staccarci completamente dalle nostre perdite, possa essere generativo di un nuovo desiderio: è questo il tema sviluppato nella seconda parte del libro. Non essendo possibile cancellare la cicatrice melanconica che il trauma della perdita ha inciso dentro di noi, poiché una traccia indelebile della sua presenza resterà sempre al nostro interno (del resto la nostra esistenza è fatta di innumerevoli «resti» degli oggetti – psicologicamente parlando – perduti ), possiamo però trasformare la nostalgia malinconica legata al rimpianto del passato, nella nostalgia-gratitudine, che «diviene una potente risorsa psichica di rinnovamento della vita». Qualcosa di quel dolore permane nella memoria, ma anziché bloccare melanconicamente il soggetto all’oggetto perduto, lo illumina riaprendolo alla vita. Ciò che è definitivamente morto torna a visitarci, è un resto vivo di un corpo morto che rende possibile alla vita di procedere avanti. Come accade con il fenomeno astrofisico della luce delle stelle morte, secondo il quale la luce che vediamo nel cielo e che continua ad illuminare la nostra vita proviene da corpi celesti morti milioni di anni fa.
Non si tratta, quindi, di occultare il vuoto e la perdita, o di negare il dolore, ma di elevare il trauma e trasfigurarlo in una nuova forma. Utilizzando una metafora lacaniana, non si tratta di suturare la ferita, ma di esporla ed elevarla ad opera d’arte. La ferita melanconica prodotta dal trauma della perdita si eleva alla dignità della poesia. Come accade, ci ricorda l’autore, in numerose opere artistiche nate proprio dalle rovine e dalle macerie. Tra le altre, Recalcati ricorda Reflecting Absence, l’opera che commemora le vittime dell’attentato terroristico delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, straordinario esempio di elaborazione incompiuta di un lutto. La struttura e la collocazione dell’opera, rimandano infatti a un tempo sospeso, a un vuoto, quello delle vittime e della distruzione, che non è occultato e non nega l’orrore e la morte. Anzi, è a partire dalla ferita e dal dolore che si rivela l’arte. E in questo risiede probabilmente l’aspetto più interessante e originale del lavoro di Recalcati: l’accostamento dell’elaborazione del lutto alla sublimazione artistica. «Il lavoro artistico si assimila così al lavoro del lutto, in quanto entrambi si confrontano con l’assenza provocata dalla perdita dell’oggetto. Ma questo confronto non sfocia in una paralisi melanconica in quanto genera un nuovo oggetto che è, al tempo stesso, esito dell’incorporazione dell’oggetto perduto e generazione di una forma inedita» ( p. 79).
La morte come occasione di rinascita
Questo nuovo lavoro di Recalcati si colloca a pieno titolo in quell’efficace operazione editoriale che l’autore sta portando avanti negli ultimi anni: dedicare brevi monografie, indirizzate al grande pubblico, a importanti temi filosofici e psicoanalitici della nostra cultura e della nostra umanità. Grandi questioni come la maternità e la paternità, ma anche l’amore, il desiderio, il perdono, e adesso il lutto e il dolore per la perdita, vengono affrontate riconducendole alla vita comune di oggi. Attraverso il pensiero di Nietzsche, Freud, Lacan, Heidegger, Sartre, e il racconto di esemplari casi clinici, Recalcati riesce a trattare argomenti di indiscutibile importanza psicologica e politica; e la formula del successo risiede proprio nella brevità, nella semplicità e nella chiarezza con cui si rivolge ai lettori. Una scrittura, dunque, non destinata agli addetti ai lavori, e che può correre il rischio di eccessiva semplificazione, nonché di volersi adeguare a un gusto dominante per compiacere le esigenze sociali.
Anche con La luce delle stelle morte, come spesso accade nei suoi libri più recenti, Recalcati ci conduce per mano, attraverso un ragionamento lineare che riesce a coinvolgere e allo stesso tempo a fare riflettere il lettore, verso una questione complessa ed estremamente attuale, mostrandocela, però, senza andare troppo in profondità, quasi da una distanza di sicurezza che ci permette di abbandonarci alle emozioni cogliendone l’aspetto più rassicurante. Del resto il tema del lutto, in una società come quella attuale, in cui l’imperativo di massima è sfuggire al dolore, al decadimento e alla morte, è sempre più spesso demonizzato e scongiurato. In un’epoca in cui si esaltano la forza e la vigoria fisica, la giovinezza e l’intraprendenza, come accettare dunque il dolore per una perdita o una separazione? Come sopravvivere senza farci inghiottire dal dolore? Conciliandosi con le esigenze di un pubblico di lettori alla ricerca di risposte efficaci, godibili e confortanti, il libro di Recalcati si offre come una sorta di manuale per sfuggire a questa sofferenza.
Eppure La luce delle stelle morte non è soltanto un tentativo di offrire conforto per la disperazione di una perdita o per il vuoto che essa produce in chi resta, c’è un aspetto che risulta più convincente, ed è il tentativo di comunicare al lettore la possibilità di una disposizione esistenziale capace di elaborare e integrare il negativo senza necessariamente rifiutarlo. È la possibilità di stabilire un rapporto diverso con il passato perduto grazie alla percezione di un sentimento nostalgico che non dimentica. Un po’ come l’Angelo della storia di Benjamin, che il vento trascina inarrestabilmente verso il futuro, ma al quale egli resiste volgendo lo sguardo alle macerie del passato «non per farne delle reliquie melanconiche, ma per riscattarne la sorte, per redimere tutte le innumerevoli vittime dell’ingiustizia e dell’infelicità» (p.114).
Da qui il grido di gratitudine dell’autore: «sono grato ai miei innumerevoli morti per quel che ho ricevuto; lo porto con me non come una reliquia da ossequiare, ma come qualcosa che attende ancora la sua realizzazione, come un vento di primavera, un vento australe che soffia da sud» (p.18). L’assenza non è colmata, sembra ricordarci Recalcati, ma la luce delle stelle morte ci indica quel «barlume» di montaliana memoria (che è anche «il segno smarrito») che ancora contiene un valore. Ed è proprio dal vuoto determinato dall’assenza femminile che si profila, nella poesia Il balcone di Montale, l’unica possibilità di salvezza, quella che soltanto la donna amata può indicare.
Il poeta tenta di sopravvivere scegliendo di allontanare la malinconia della perdita inseguendo una possibilità di speranza e di senso attraverso il ricordo e la ferita dolorosa prodotta dalla mancanza, che in questo caso non solo è accettata, ma esposta ed elevata alla «dignità della poesia». Nella terza strofa della poesia vuole forse mostrarci questo il poeta:
La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non s’illumina.
Dove la finestra che non si illumina, figura che allude alla separazione tra la vita e la morte, è pur sempre l’occasione per scorgere la vita. È il ricordo della separazione e della perdita, della mancanza di luce e del vuoto, al quale possiamo però guardare con un sentimento di gratitudine, perché capace di illuminare ancora il nostro avvenire e di farci rinascere.
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Può essere illuminante, riguardo al tema nodale della morte, porre a confronto con la postura di Montale quella di Sereni, anche per cogliere la differenza radicale che intercede fra di esse. E invero la poesia di quest’ultimo nasceva a contatto con i fatti e i fenomeni, sia interni sia esterni, della comune esperienza, che divenivano, grazie alla sua straordinaria sensibilità, l’oggetto di una incessante rielaborazione in cui i fatti, e dunque la vita, avevano un valore e una dignità autonomi rispetto a quelli della poesia, e non viceversa. Lo storico della letteratura Pier Vincenzo Mengaldo, che era un grande amico del poeta luinese, riferisce un episodio particolarmente significativo per capire non solo la psicologia di Sereni, ma anche uno dei temi focali della sua poesia. Un giorno Sereni propose a Mengaldo e alla moglie di quest’ultimo, di condurli nei luoghi, Luino e dintorni, della sua infanzia e della sua poesia. A un certo punto della visita a Luino il poeta portò i due amici al cimitero, e lì alla tomba di famiglia dove, accanto agli altri posti già occupati, indicò con un sobrio gesto il suo vuoto ad attenderlo. Era il gesto pacato e quasi senza tristezza, nota Mengaldo, di chi non ha temuto di vivere tutta la sua vita in compagnia dei morti e della morte. In quella visita al cimitero si manifestava in forma simbolica il cortocircuito fra la vitalità e la morte costitutivo della poesia di Vittorio Sereni. In effetti, i luoghi, quei pochi, quali Luino, Milano e Bocca di Magra, cui lo legava una lunga fedeltà, avevano per lui quasi una dignità sacra, e forse per questo agivano come fonti inesauribili della sua poesia. La fedeltà ai luoghi, alle cose e ai morti, peraltro, non è un tema né isolato né isolabile del suo comporre, giacché è intimamente connesso a tre temi fondamentali della sua poesia: l’amicizia, la storia e la “città socialista”. Semmai è da notare che l’autore degli «Strumenti umani» non ha mai temuto la vicinanza di quella che è per tutti “la signora della porta accanto”. E la ragione di questo atteggiamento sobrio e virile sta nel fatto che i morti non sono soltanto un amaro e pungente patrimonio privato («Voi morti non ci date mai quiete»), ma sono anche l’espressione del futuro, poiché, secondo una verità cristiana condivisa dal laico Sereni, essi abitano già la città a venire, e ce la additano («Non dubitare… parleranno»).