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diretto da Romano Luperini

L’apocalisse moderna di “Tasmania” di Paolo Giordano

«Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere»

«Lavora a un libro su dei fatti accaduti in Giappone settant’anni fa di cui non interessa più niente a nessuno. Sono curiosa: qual è il criterio con cui sceglie di cosa scrivere?» (p. 211). «Ed è in qualche punto del percorso a ritroso per l’Europa, in quella coda del nostro viaggio insieme, che mi viene la risposta – semplice, semplicissima […]Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere» (p. 258), rivela alla fine della narrazione il protagonista di Tasmania, l’ultimo romanzo di Paolo Giordano, uscito per Einaudi nel 2022. 

La scrittura diventa in questo romanzo un modo di fare i conti con la sofferenza, quella personale e privata, e quella altrui; quella di chi è vicino quotidianamente, e quella di chi anche soltanto attraverso un incontro riesce a commuovere, tanto da permettere «a stento [di] trattenere le lacrime» (p. 253). Una scrittura diversa rispetto ai precedenti romanzi di Paolo Giordano, e non solo perché abbandona tematiche più adolescenziali da romanzo di formazione, ma perché sceglie di raccontare in prima persona, attraverso un io narrante nel quale si possono riconoscere molti aspetti nell’autore stesso (viene identificato con le stesse inziali dello scrittore, P.G., è un fisico e un giornalista come Giordano, e come lui ha quarant’anni), la complessità del presente. Un libro autobiografico, dunque, o un’autofiction, per raccontare, con una visione più matura e contemporanea, se non addirittura disillusa, il nostro tempo. Questa epoca di crisi (climatica, morale, politica, affettiva) dove si respira un contatto costante con la morte e con la distruzione, dove il futuro sembra negato e non c’è più speranza. Soltanto quella commozione che fa piangere il suo protagonista, ma che scopre alla fine essere anche il motore della sua scrittura, può ancora salvarci. La commozione per il protagonista del romanzo diventa senso di appartenenza, necessità di condividere, anziché di rimuovere, come invece il tempo presente sembra indicarci. Del resto ci stiamo talmente abituando a questo clima di sofferenza che l’epoca in cui viviamo porta con sé, che preferiamo rinunciare a comprendere la realtà e scegliamo di fuggire davanti alle paure, proprio come accade al protagonista di Tasmania nelle prime pagine del libro.   

Un universo cupo e destabilizzante

Scrittore e giornalista scientifico laureato in fisica, P.G. inizia il suo racconto nel 2015, quando si trova a Parigi per assistere alla conferenza delle Nazioni Unite sull’emergenza climatica, proprio qualche giorno dopo l’attacco terroristico al Bataclan. Il protagonista è un uomo che ha perso le certezze, sopraffatto da avvenimenti soggettivi e privati che lo destabilizzano, come la crisi di coppia che sta attraversando con la compagna Lorenza, e da angosce che riguardano eventi collettivi che minano la stabilità umana: dalle minacce climatiche al terrorismo di matrice islamica, dal rischio nucleare fino alla questione di genere. Paralizzato e incapace di reagire alle inquietudini, la conferenza sul clima diventa la scusa per fuggire da tutto:

Se non ci fosse stata in previsione una conferenza sul clima è probabile che avrei inventato un’altra scusa per partire, un conflitto armato, una crisi umanitaria, una preoccupazione più grande e diversa dalle mie da cui farmi assorbire», p. 5

Perché trovare pericoli più grandi e più minacciosi dei nostri, consente forse di ridimensionare il disagio che avvertiamo dentro di noi, la nostra piccola catastrofe personale («Forse sta tutta lì la fissazione di alcuni di noi per i disastri incombenti, quell’inclinazione verso le tragedie che scambiamo per nobile, e che costituirà, credo, il centro di questa storia: nel bisogno di trovare a ogni passo troppo complicato della nostra vita qualcosa di ancora più complicato, di più urgente e minaccioso in cui diluire la sofferenza personale. E forse la nobiltà, in tutto questo, non c’entra davvero niente», p. 5). Quella del protagonista è dunque una fuga, un tentativo di rimozione che quest’epoca sembra suggerirci per non guardare in faccia i traumi e le paure. Quelle collettive che riguardano l’assenza di un futuro, ma anche quelle private che hanno a che fare con crisi di coppia, rapporti genitoriali, legami di amicizia.   

Accanto al protagonista tutti i personaggi sembrano infatti dominati da una rassegnazione passiva, o si arrendono a un presente destabilizzante e incerto, o restano inquieti perché incapaci di dominare la frustrazione. Hanno inoltre perso la capacità di dubitare, di interrogare l’esistenza e forse anche loro stessi. Non è forse rinunciando a dubitare, e lasciando invece prevalere un moto di rabbia, che Novelli, fisico che si occupa di modelli climatici, studioso di nuvole, e amico del protagonista, decide di mettere in evidenza che «le donne entravano nel mondo scientifico con le stesse identiche opportunità dei maschi, ma rapidamente restavano indietro» (p. 151), sostenendo, così, l’esistenza di una disparità di potere. Disparità che non trova fondamento, secondo il professore, in un’ingiustizia sociale, ma in un fondamento logico: «le scienziate avevano meno successo in ambito scientifico perché erano, in media, meno capaci» (p. 152). Si era tuttavia chiesto Novelli,  l’uomo delle nuvole, «perché le giovani scienziate faticassero così tanto a pubblicare intorno ai trent’anni, dopo essere state delle studentesse eccellenti»? (p.157). Aveva considerato il maschilismo intrinseco nell’accademia, le incombenze famigliari, i condizionamenti sociali contro cui ogni giorno, superata una certa età, queste donne sono costrette a combattere? Proprio questa rinuncia a voler guardare oltre, e la conseguente resa alle proprie paure, finisce per isolare il professore, che esce sconfitto e accusato di sessismo e misoginia.  

La capacità di commuoversi, (forse) unica salvezza contro la perdita di senso

Eppure in questo presente senza speranza, abitato da un’umanità fragile, inetta e in preda al caos, si devono trovare ancora occasioni di riscatto, possibilità di vita. Giordano sembra lanciarci qualche segnale in questo senso, e ci invita a scorgerli nell’ambito familiare e privato, dove per esempio si scopre una Lorenza capace di guardare avanti ancora con fiducia («con me accanto potevi lasciarti andare […] saresti stato ancora vivo, anzi saremmo stati vivi entrambi. Infatti siamo ancora vivi e siamo qui, insieme», p. 225), ma anche nelle intense pagine dedicate alla ricostruzione degli eventi legati alla bomba atomica in Giappone, forse tra le pagine migliori del libro («Si è coricato a pancia sotto coprendosi le orecchie e gli occhi con le mani, come gli avevano insegnato nelle esercitazioni a scuola. Da quella posizione, prima che l’onda d’urto lo investisse, un attimo prima di svenire, ha fatto in tempo a pensare al significato di quel rosso così intenso: qualcosa di molto grande e di molto vicino a lui stava bruciando», p.126), o nel turbamento del protagonista mentre stringe le mani a Terumi-Tanaka, sopravvissuto  al bombardamento di Nagasaki, grazie anche alle nuvole, sembra volerci dimostrare che dobbiamo, e possiamo, risvegliarci dall’assuefazione nei confronti delle tragedie contemporanee («Se non ci fossero state le nuvole, Terumi e sua madre e i suoi compagni di classe si sarebbero trovati a un chilometro scarso dal ground zero, all’interno del raggio di radiazione, dove le possibilità di sopravvivenza sono minime […] Senza nuvole, la storia sarebbe andata alla rovescia: dopo l’esplosione sarebbero state le zie Rui e Koto a scavalcare il monte Konpira per cercarli, a rivoltare i cadaveri a uno a uno a caccia di un brandello di vestito tatuato sulla pelle, e a riconoscerli infine, madre e figlio, ad arrangiare le loro pire con mezzi di fortuna, circondate dalla devastazione peggiore che l’umanità avesse mai conosciuto» (p. 132).

La velocità con cui rimuoviamo dalla nostra memoria è così rapida da consentirci una forma di salvezza, ma il prezzo da pagare è la perdita di senso. In questo presente minaccioso, soffocante, dove non sembra esserci speranza, il romanzo intende suggerirci che esiste ancora un’alternativa alla fuga e alla pulsione di morte: la capacità di commuoversi.

È forse per questo che Paolo Giordano ha scelto, con questo romanzo, di esporsi personalmente, perché non poteva parlare della sofferenza altrui senza stabilire un rapporto di fiducia con il lettore, senza dichiarare in prima persona di vivere la sofferenza di questo presente, e di credere nel riscatto che possono offrire le emozioni. La realtà ha invaso in modo così drammatico la quotidianità, e l’impatto è stato talmente forte, da rendere necessaria l’assunzione di responsabilità, che in Tasmania si concretizza nella scelta di mescolare verità e finzione, perché la finzione da sola è diventata sospetta. Ma invece di risolversi in una concreta speranza di cambiamento e di trasformazione, anche la possibilità di riscoprire un futuro possibile affidandoci alla commozione, rischia di essere assorbita e fagocitata dalla staticità che incombe nella narrazione, dalla profonda sensazione di angoscia che domina nel romanzo. Una situazione di impasse immobilizza infatti i personaggi in un presente asfittico dal quale sembra impossibile potersi riscattare. E persino l’immagine della Tasmania, questo luogo ideale per salvarsi in caso di Apocalisse, che risulta «abbastanza a sud per sottrarsi alle temperature eccessive. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non troppo piccola ma comunque un’isola, quindi più facile da difendere» (p. 100), finisce per diventare una fugace apparizione nel testo, un “altrove” sognato ma incapace di porsi come vera salvezza e alternativa alla catastrofe imminente, nonché alla perdita di desiderio e di passione per la vita che aleggia in tutta la narrazione. Anche come luogo geografico in sé la Tasmania potrebbe costituire una via di salvezza soltanto per pochi uomini economicamente privilegiati. E allora cosa resta all’uomo comune? Resta forse la possibilità di salvarsi grazie all’impegno del singolo nei confronti dei problemi climatici, di un passato da salvaguardare, e dunque di una memoria collettiva da conservare; restano le relazioni umane, gli affetti, e la possibilità di mantenere viva un’idea di solidarietà e di appartenenza comune. Questa speranza, però, fa fatica a emergere, e leggendo il romanzo tende a restarci addosso soprattutto la sensazione di essere inesorabilmente destinati al declino e alla catastrofe.

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