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diretto da Romano Luperini

“Dove non mi hai portata”: indagine e quête di Maria Grazia Calandrone

Di mia madre, ho soltanto due foto in bianco e nero.

Oltre, naturalmente, alla mia stessa vita e a qualche memoria biologica, che non sono certa di saper distinguere dalla suggestione e dal mito.

Scrivo questo libro perché mia madre diventi reale.

Scrivo questo libro per strappare alla terra l’odore di mia madre. Esploro un metodo per chi ha perduto la sua origine, un sistema matematico di sentimento e pensiero, così intero da rianimare un corpo, caldo come la terra d’estate, e altrettanto coerente.

(Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi 2022, p.5)

Avvertenza per il lettore

A chi si tiene programmaticamente distante dalla cosiddetta autofiction – per sospetto di narcisismo, per fastidio patologico verso il genere, per bisogno melanconico di trama, intreccio, contesto, sistema di personaggi, tanti, vari, con nomi e mestieri altri rispetto a chi la storia scrive – diremo subito che questo libro di Maria Grazia Calandrone non lo è, non è un’opera di autofiction: lei stessa dichiara (l’abbiamo ascoltata a Catania) di trovare quell’etichetta urticante; e d’altra parte ad attenuare, se non a dissolvere, il sospetto basterebbe leggere la nota biografica che compare sul sito ufficiale di questa singolare poetessa, scrittrice, drammaturga, docente: una nota che, tanto nella forma sintetica quanto nella forma estesa, non fa mai riferimento alle sue vicende private. E dire che quella di Maria Grazia Calandrone non è una vicenda comune: fu abbandonata a soli otto mesi a villa Borghese in una calda giornata di giugno del 1965, ben vestita, ben nutrita. I suoi genitori, prima di gettarsi nel Tevere, inviarono una breve lettera a L’Unità, indicando il nome della bambina, il luogo e le ragioni dell’abbandono (non c’erano le possibilità finanziarie da sostenerla), il rifiuto dei parenti, le loro intenzioni suicide e affidandola alla compassione di tutti. L’avevano concepita fuori dal matrimonio né era possibile un matrimonio riparatore: sposata la madre, Lucia, in Molise, sposato il padre, Giuseppe, abruzzese, cinque figli. Per la legge italiana erano adulteri e concubini, dunque perseguibili; e Maria Grazia era una figlia illegittima, dunque destinata al brefotrofio. La lettera andò a buon fine: Maria Grazia fu adottata da Consolazione Nicastro [1], un’insegnante, e Giacomo Calandrone, un funzionario del P.C.I.; nata a Milano, restò a vivere a Roma.

Ma questi fatti erano già noti prima che volgesse al termine quella stessa estate del Sessantacinque: li riportarono i giornali di allora, seppure ricamandoci sopra col filo spinato di un moralismo colpevolizzante per famiglie perbene o per rivoluzionari impazienti – le prime sconcertate per l’abbandono come per il suicidio, i secondi critici per quella «sfida soltanto romantica» (p.223) sferrata dai due amanti suicidi alla società classista e perbenista. Però, chi temesse di trovare in questo libro ricami di filo più forte o più fine, sappia subito che non ce li troverà. Questo libro è una indagine, condotta nel linguaggio denotativo dell’accertamento dei dati, ma scevra di cinismo e di compiacimento impersonale; ed è una quête, condotta nel linguaggio connotativo della poesia, ma scevra di narcisismo liricheggiante. Maria Grazia Calandrone non fa della sua storia un referto autoptico e al contempo rifiuta per sé tanto il ruolo di vittima quanto «il fardello di questo eccesso di sacrificio» (p.225), quello che avrebbe compiuto la madre per lei (laddove il per del giornalista di Oggi, che allora raccontò agli italiani l’episodio, non sappiamo se fosse preposizione causale o finale).

L’indagine; ovvero quel che le cose hanno da dire nonostante noi

In quanto indagine, il lavoro di Calandrone consiste nella «ricostruzione di una retta» (p.207) lungo la quale disporre «i puri fatti» (p.197). Seguendo una geometria scrupolosa, Calandrone muove dal perimetro di Palata, il piccolo paese del molisano dove la madre era nata, e da lì si sposta per segmenti a lunghezza variabile, ma tracciati con precisione dalla misura incontrovertibile dell’accadimento (inizio, centro, fine), siglati da titoli brevi, che sono spesso come versi liberi, anticipi di poesie – e perciò pudichi e impudichi insieme (Senti questa creatura come ride; Martedì 29 giugno. Autopsia. Pianto della materia disabitata; La casa nuova. Vista con elementi mobili; Ti chiamavo col pianto (tra propilei neoclassici)…). Segmento dopo segmento, la scrittrice trova quindi l’area metropolitana di Milano e poi di Roma, e infine il volume ingombrante delle grandi questioni irrisolte di un’Italia misera e spersa ancora vent’anni dopo la fine della guerra (e forse un po’ anche oggi). Lo spazio arcaico di Palata motiva, se non giustifica, il matrimonio forzato di Lucia, «costretta a ceffoni» (p.43) (per meglio dire, «il padre la insegue col fucile lungo il corso principale del paese», p.41) a sposare Luigi: «il promesso sposo è lo scaccò, il buffone del paese», un «bietolone, umorale e inetto (…) spesso intontito dall’alcol» (p.41): e però la sua terra confina con quella della famiglia di Lucia; e tanto basta, a Palata, perché questa giovanissima donna, già sottratta agli studi («quelle scolastiche sono ore sottratte al lavoro», p.24), sia sottratta anche al suo amore giovanile:

Il pretendente è povero, non ha terreni, non è all’altezza di Lucia. Una mannaia. Colpito al cuore e nell’orgoglio, Tonino si accartoccia e ripiega sul mare da dov’è venuto (….). Senza quel rifiuto lontano, non sarei nata, e ciò mi avrebbe – credo – danneggiata. Ma la vita di Lucia sarebbe stata semplice e contenta. (p.32)

Invece è una vita infernale, con un marito impotente e violento, una suocera vessatrice, un paese che sa, compatisce o condanna, comunque non fa niente. Lucia si innamora di Giuseppe, più grande di lei di quasi trent’anni: è un reduce di guerra, partito probabilmente per la Guerra d’Africa nel 1938 e rientrato soltanto dopo un decennio, verosimilmente lungamente prigioniero; ma «qualunque cosa abbia visto, fatto o subìto in Africa, i familiari ricordano le parole di Anita, moglie di Giuseppe: “Tornato dall’Africa, mio marito non era più lui. La guerra l’ha cambiato. Era diventato inaffidabile, andava appresso a tutte le femmine”» (p.80). Lucia, però, non dovette essere una femmina come tutte, se Giuseppe, ingaggiato come capomastro nella costruzione di un acquedotto in Molise, la conosce, se ne innamora e decide di rimanere con lei, benché non a Palata: lì è subito evidente che i due non possano restare. Fuggono a Milano, sul «treno che trasporta i terroni» (p.109). Ma Milano assume presto le dimensioni di uno spazio tragico:

Negli anni Cinquanta gli emigranti che arrivano da Sud vengono sversati come scorie radioattive in discariche sociali ultraperiferiche, pullulanti di casette abusive e vagoni di treno adibiti a uso abitazione, o in quartieri di casermoni fabbricati in fretta nelle periferie delle città, intorno alle grandi fabbriche. Sono isole di fango e impalcature, aree non comunicanti col resto del tessuto urbano, città nelle città … (p.108)

Milano è l’impero delle cose

        e chiassoso è il dominio della merce (p.112; a capo così nel testo, ndr)

 «Lucia è sopraffatta dalle cose» (p.112): il lavoro in nero, il denaro che scarseggia, la bambina che deve portare il cognome di un uomo che non ne è il padre, una vita da braccati. È in questo spazio che Giuseppe e Lucia maturano la decisione di raggiungere Roma e affidare la piccola Maria Grazia alla compassione di tutti e i loro corpi al fiume. L’indagine di Calandrone mette insieme oggetti e voci, luoghi e persone, documenti e lettere, referti e timbri, senza trascurare alcunché, senza pregiudizio ma anche senza accampare il diritto di stratificare sui fatti la propria opinione ex post:

La realtà è un’opinione. Frequentemente sbagliata, perché di rado osserviamo le cose senza pregiudizio. Ma le cose esistono, e hanno una voce chiara. Per comprendere, basta osservare i fatti, senza sovrapporre ai fatti nessuna intelligenza umana. Lasciarsi attraversare dalle cose, fino a che esse esprimono quel che hanno da dire nonostante noi. Questo libro desidera essere opera di trascrizione e testimonianza dell’energia indelebile delle cose. La verità è nei fatti, emancipati dal nostro punto di vista. (p.123)

La quête; ovvero il cartiglio del pensiero

«Eppure. Dall’appurata chiarità dei fatti traspare ancora la brillante filigrana caratteriale e morale (…) di Lucia e Giuseppe» (p.205); accanto alla ricognizione dei fatti, c’è la ricerca, la quête ineludibile che si apre quando i fatti «li spostiamo in blocco nel contesto emotivo»: ecco allora che «sotto i nostri occhi, riga dopo riga, si srotola il cartiglio del pensiero» (p.213): non solo del pensiero che ha preceduto e determinato la scelta del luogo dove abbandonare una bambina di pochi mesi, ma dei pensieri tout court. E allora, con un lavoro di finissima e segreta sarcitura, senza mai cedere alla faciloneria del rattoppo, asciutta (mai fredda), Calandrone ricuce fatti e emozioni e restituisce Giuseppe e Lucia ai loro pensieri, a cui, senza difficoltà, crediamo: di tal genere, se non tali appunto. A garanzia di questa operazione c’è una lingua intimamente poetica, in cui a volte dichiaratamente risuona la lingua di altri poeti e scrittori (Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Pierpaolo Pasolini, Luciano Bianciardi, Vitaliano Trevisan) e che interviene non a colmare i vuoti, ma a mostrare i pieni: di cosa, cioè, siano piene le azioni che determinano i fatti:

Li vedo. Sono loro. Mi ostino. Fino a quando siete rimasti vivi? Conoscere l’orario dell’ultimo ritiro postale mi permetterà di conoscere fino a che ora i cuori di Lucia e Giuseppe hanno senz’altro seguitato a battere, la fascia oraria entro la quale entrambe le figure, dalla riva, scorrono giù, a confondersi con l’acqua. Piano, addirittura con amore. Adesso che mi sono spinta insieme a voi senza più argini su questa sponda, mi è permesso sapere che la vostra morte si è consumata con definitivo amore. Non vi posso fermare. Non allora, non ora. Mi siedo qui e vi guardo. Sento il suono che fate. Anche il suono dell’acqua

        somiglia all’ultima preghiera che esce dalla bocca di Lucia. A lei, pensaci tu. Madonna mia. È innocente. (p.204; a capo così nel testo, ndr).

L’osservazione della vita vera di Lucia dice che mai lei inoltra la richiesta di privatezza, agisce anzi allo scoperto, vive quello che sente sotto gli occhi di tutti. Non incurante, ma risoluta e cosciente del proprio volere e del diritto naturale del suo amore (p.123)

È un’operazione che non riguarda solo Lucia e Giuseppe, ma ognuna delle persone che ebbero una parte nella loro vicenda e che Calandrone cerca, incontra, interroga; risarcisce di pensieri (struggenti le pagine dell’incontro con Tonino, il primo amore di Lucia, pp.35-37). Ma Calandrone non è sola a ricucire le retteparallele su cui corrono indagine e quête: è con lei Anna, la figlia giovanissima, il punto in cui le rette s’incontrano, fatto e pensiero. «Netta. Semplice, chiara» (p.211), questa ragazzina di tredici anni accompagna la madre dove la sua non l’ha portata, «perché Lucia, che ha voluto a ogni costo scegliere la vita, ha infine rinunciato al dono della vita, come ultima libertà possibile» (p.241).

Chi legge le segue, si lascia portare. E dietro loro, accanto a loro (tutte e tre loro: Lucia, Maria Grazia, Anna) rifà la propria, di indagine, e si pone le domande di ogni quête, come se le ascoltasse per la prima volta: perché io, perché adesso e qui, per fare cosa, per chi.

[1] Alla madre adottiva è dedicato Splendi come vita (Ponte alle Grazie 2021, Semifinalista al Premio Strega, Finalista Premio Comisso)

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