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diretto da Romano Luperini

All You Can Eat. I fondi PNRR, l’inclusione e la scuola pubblica italiana

Mentre inizio a scrivere queste righe, nella mia scuola è in corso la riunione della commissione PNRR – quel gruppo di insegnanti, cioè, deliberato dal Collegio dei docenti, che ha l’incarico della “progettazione e gestione [delle] risorse comunitarie”, costituitosi in vista dell’inconsueta mole di fondi (circa 500mila Euro) che, grazie al PNRR, sono piovuti sulla nostra scuola, così come su come molte altre, senza che nessuna sia stata chiamata, in nessun momento di questa vicenda, a fare qualcosa di più di quello che è stato chiesto a dirigenti e docenti dall’inizio dell’emergenza pandemica: e cioè, ricevere direttive, testa bassa, ed eseguire.

Di questa commissione, io, per istinto e meditazione, non faccio parte. Per la prima volta dall’inizio dell’emergenza sanitaria, ho scelto di chiamarmi fuori da una azione che – per quanto possa trovare politicamente, socialmente, civilmente, amministrativamente scorretta (ma non più delle molte altre che abbiamo dovuto attraversare: basterà ricordare che l’anno scorso, in questo momento, passavamo il nostro tempo a caricare sul portale della sanità elenchi di contagiati e contatti stretti, facendo con tutta evidenza almeno parzialmente le veci del dipartimento di igiene e prevenzione pubblica) – è oggettivamente un capitolo importante di questa storia. E’ anche per un atto quasi di giustificazione verso quei colleghi che hanno deciso di immolarsi impegnarsi in un processo per il quale nutrono le mie stesse perplessità, che mi piace provare a scrivere qualcosa a proposito dei fondi destinati alle scuole del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: se la responsabilità di sguardo e argomentazioni è interamente mia, devo al confronto con loro, sempre eccezionalmente fecondo, lo sviluppo di pensieri sparsi in una riflessione articolata, che, pur prendendo in considerazione in generale tutto l’approccio al finanziamento scolastico previsto nel PNRR, si concentrerà in modo particolare sulla linea che riguarda la “riduzione dei divari territoriali”.

Una linea del tempo disallineata

Il primo elemento che balza agli occhi, fin dalla sua approvazione, nell’ormai lontano 2021, quando si parla di interventi per le scuole del PNRR, è il suo sostanziale disallineamento dalla realtà scolastica.

Al momento di progettare gli interventi da inserire nel Piano, ancora in piena emergenza pandemica, la consapevolezza che quanto previsto sia stato condiviso con le scuole solo ex post, a giochi fatti, pochissimi emendamenti proponibili, non sostanziali, è stata da subito pervasiva. Questo elemento, non nuovo, non inatteso, non fa che confermare la sensazione di scollamento tra vertice e base presente come dato di fatto da anni in tutta la scuola pubblica: uno scollamento che segna un divario – territoriale, educativo, di riconoscimento professionale – tra chi la scuola pubblica la dovrebbe incorniciare, coordinare e indirizzare democraticamente (gli organi ministeriali, dallo stato centrale fino agli ambiti territoriali) e chi la scuola, quotidianamente, per professione, la agisce.

Si tratta però, in questo caso, di un dato ancora più straniante quando si situa nel contesto di quanto accaduto durante l’emergenza: una esperienza di eccezionalità e sperimentazione (e frammentazione) didattica sul quale, a livello centrale, non è mai stato costruito un momento lungo di restituzione pubblica, lasciando che tutta quella enorme sperimentazione individuale – nelle singole scuole ma, spesso, al chiuso dei singoli schermi – restasse rimossa, e quindi mai elaborata, nell’utopico inseguimento di un possibile “come prima”.

Tale elemento è tanto più grave se si considera che anche nell’a.s. 2020/21 una parte significativa delle patrie scuole (dalla terza media alla quinta superiore) è restata completamente chiusa alla didattica in presenza per un numero di mesi che è andato dai due e spiccioli delle realtà più fortunate – il comune di Pisa, dove insegno, è stato tra quelli – a una quantità di giorni che, sommata, è andata a fare più di un quadrimestre; tutto questo mentre la didattica ordinamentale laboratoriale di tecnici e professionali veniva sostanzialmente azzerata e, da gennaio in poi, quelle stesse classi dalla terza media alla quinta superiore sono potute tornare alla didattica in presenza “al massimo al 50%”, con la coda velleitaria del 70%, introdotta senza apportare nessun cambiamento all’organizzazione economica e sociale, nel DL di fine aprile 2021 del governo Draghi.

Mentre nella stesura del PNRR si ragionava su linee progettuali atte a “colmare i divari territoriali”, dunque, attraverso “un’ondata di “innovazione” (meramente tecnologica) a botte di fondi PNRR” (Emanuela Bandini), nello stesso tempo quei divari si rinunciava a conoscerli, studiarli, capirli nel profondo, perché un trauma rimosso potesse trasformarsi in un trauma utilmente superato.

Il risultato è stato che nell’estate del 2022 gli istituti scolastici si sono visti recapitare a bilancio una serie “apparentemente” (tornerò in seguito sul termine) cospicua di fondi, senza una linea guida, un’istruzione, un’indicazione di metodo.

L’anno scolastico è iniziato così: con una quantità di bit-coin sul conto e nessuna chiarezza su che cosa, dal punto di vista gestionale, fosse necessario fare per poter progettare delle azioni educative e didattiche correttamente inseribili in una cornice conforme agli standard dei finanziamenti europei (che, lo ricordo, prevedono, e giustamente, griglie di monitoraggio e rendicontazione molto strette e puntigliose). Così, mentre le scuole procedevano con le scadenze organizzative e didattiche classiche del I quadrimestre (revisione dei PTOF, con la connessa attivazione dei progetti per l’a.s. in corso, e, soprattutto, stesura dell’aggiornamento triennale dei documenti strategici: Rapporto di Autovalutazione di Istituto, Piano di Miglioramento, e Rendicontazione Sociale), nei fatti non è stato possibile né in sede di Collegio dei docenti, né in sede di contrattazione di istituto (dove si sarebbero potute destinare delle parti del FIS ad azioni progettuali o formative di supporto specifico alle linee del PNRR) tenere conto di quei fondi attraverso un piano di programmazione adeguato. Merita ricordare, in questo senso, che la scadenza ultima per la pubblicazione di RAV, PdM e RS (e della relativa revisione del PTOF) era la data di inizio iscrizioni per il 2023/24 (9 gennaio 2023); e che la scadenza ordinatoria per la sottoscrizione del contratto di istituto è il 30 novembredi ogni a.s. Peccato che le “istruzioni operative” per la dispersione scolastica siano arrivate alle scuole con la nota RU 0109799 del 30/12/2022, vale a dire dopo la scadenza ordinatoria della contrattazione e a quattro giorni dall’apertura delle iscrizioni (cioè a una data alla quale la maggior parte degli istituti aveva già discusso, esaminato e approvato tutti i documenti strategici per il triennio futuro, quello che cade dentro l’intervallo temporale di finanziamento del PNRR) – e in piena pausa natalizia, in un venerdì di vigilia di un giorno prefestivo normalmente preso come chiusura da tutti i Consigli di Istituto, ça va sans dire.

Il supermarket di Prometeo

Questa espressione, presa dal titolo di un bel volume del 2006 di Marcello Cini, è particolarmente adatta a rappresentare il bombardamento pubblicitario e più o meno informativo che – mentre si attendevano con ansia indicazioni operative chiare e soprattutto tempestive da parte del Ministero dell’Istruzione (che, nel frattempo, è diventato anche del Merito) – ha viceversa investito le scuole, grosso modo in progressione aritmetica da settembre a fine ottobre e poi geometrica a partire da novembre. Così come era successo per le varie azioni dei PON (Programma Operativo Nazionale), le pressioni sono state portate avanti con un livello di invasività degno di miglior causa, che non ha esitato a fare uso di numeri di telefono privati per chiedere conto delle ragioni di una mancata partecipazione o risposta rispetto a quanto offerto dal catalogo della scintillante merce in vendita per ciascuna delle azioni.

Sulla posta istituzionale (ma anche su quella dei docenti), la corsa è stata costante: proposte di webinar formativi di ogni tipo di ditta privata legata al digitale con in calce la tipica formula “saremo poi lieti di fornirle il supporto necessario per gli acquisti degli arredi innovativi, sulla base del nostro catalogo”, esperti di varia natura con l’offerta di supporto per la “costruzione di laboratori contro la dispersione”, richiesta di enti o associazioni del territorio che, una volta attinto alla (pubblica) lista di scuole destinatarie dei finanziamenti per i “divari territoriali”, hanno bussato alla porta degli istituti prescelti per proporre lietamente la propria compartecipazione alla cottura della torta.

Con tutti i rischi connessi di un clamoroso effetto boomerang. Come già accaduto, per esempio, nei PON per gli acquisti delle Smartboard, i vincoli stretti di acquisti per quanto riguarda le linee “Ambienti di apprendimento innovativi” e “Laboratori per le professioni digitali del futuro” rischiano infatti di trasformare la progettualità delle scuole sui nuovi arredi o laboratori in una vera e propria partita di giro, nella quale non è possibile che ciascun istituto possa decidere che cosa è indispensabile per migliorare didatticamente i propri spazi: quello che si può comprare è solo 4.0 e solo con certe specifiche – e poco importa se, con quella stessa cifra, si potrebbero acquistare, per esempio, dei semplici videoproiettori da fissare ai soffitti di aule prefabbricate con pareti che non reggono le Smartboard, oppure pensare a un investimento finalmente congruo nel piano bagni delle scuole.

Il risultato sarà allora quello prefigurato anni fa dalla nota vignetta che rappresentava l’arrivo delle LIM in una scuola che cade a pezzi: le LIM sono state recapitate, e montate (e altrettanto velocemente vengono ora gettate via come ferri vecchi, alla faccia dei percorsi di “Sviluppo sostenibile” previsti dalle linee guida della cosiddetta neo-materia, anch’essa imposta dal 2019, “Educazione civica”) mentre tutto intorno il Titanic affonda incurante, ma a ritmo 4.0.

Un po’ di conti

È tempo allora di ragionare un po’ sui numeri. In questa scuola del futuro, inondata (si fa per dire) da finanziamenti faraonici, in cui le pareti saranno sostituite da schermi, e gli alunni resteranno al pomeriggio a fare ripetizioni private coi docenti in modello 1:1 per evitare di essere dispersi (è una delle azioni vincolo della linea sui divari territoriali: adesso va di moda chiamarlo mentoring, ed è il modello, noto, delle scuole di recupero anni, oppure, nella sua versione socialmente accettata, del volontariato) restano inalterati (o, al massimo, ricalibrati al rialzo) i parametri che quantificano, per legge, il numero minimo di alunni per classe, l’eventuale dimensionamento scolastico, i numeri di personale ATA (bidelli, amministrativi e tecnici). Ed è in questo senso che – parametrato sugli investimenti che sarebbero necessari per rendere la scuola strutturalmente più inclusiva e pubblica – è possibile infine quantificare per davvero il contributo del PNRR alle scuole. Nel mio istituto, per esempio, il contributo pro alunno elargito dal PNRR si sostanzia in circa 555 euro, pochi spiccioli (bastevoli a stento per comprare il parco libri di prima e di terza): l’investimento necessario per ridurre anche di una sola unità l’organico degli alunni per classe si attesta intorno al miliardo e duecento milioni annui (un aumento percentuale di circa 40.000 unità docente per circa 30.000 euro annui di spesa per ciascuna unità).

Invece, è a queste classi pollaio (che restano tal quali), con questi numeri di docenti stabili in una scuola (spesso, oltre che precari, non abilitati: perché a oggi un canale formativo abilitante degno di questo nome per l’accesso a una professione delicatissima, in Italia, nella scuola secondaria, è precluso), con questi numeri di personale amministrativo, che si rivolge il PNRR. Proponendo una maschera di compilazione univoca (cui si può accedere, esclusivamente, con le credenziali del preside), non solo complessa, ma che non permette simulazione di intervento, perché non consente, nella sua compilazione, rettifica di errore. Devono bastare, per compilarla, le risorse amministrative esistenti, in una cronica mancanza di personale (attribuito, così come i bidelli, in base al valore assoluto del n. student* e non sulle classi e/o gli indirizzi) e in un momento di massimo impegno come è quello (per molte scuole) degli scrutini, della chiusura delle iscrizioni e della configurazione degli organici di diritto. Devono bastare, per compilarla, i webinar proposti alle scuole (alla faccia della didattica hands on e dei compiti autentici), in cui si parla, si parla, si parla, senza nessuna possibilità di sperimentare.

Un po’ di didattica

In una scuola post-pandemia (e post molte altre cose), nella quale il numero di alunni con BES in certe realtà (per esempio: quelle che hanno ricevuto i finanziamenti per i divari territoriali) arrivano costantemente a un terzo per classe, l’inclusione territoriale non si fa facendo restare a scuola al pomeriggio (in zone nelle quali spesso, al termine degli orari scolastici canonici, non esiste trasporto pubblico) gli alunni più ‘sfigati’ (socialmente, economicamente, scolasticamente – spesso tutte queste tre cose convergono) a fare il mentoring, oppure i gruppi di studio organizzati per livello (mentre nel frattempo gli altri, i fortunati, quelli ‘bravi’, o che ‘possono’, vanno a fare il corso di canoa in inglese nella palestra privata, abbonamento esclusivo tutto l’anno). Perché l’inclusione scolastica, quella vera, si fa a scuola, ordinamentalmente, per tutti. Si fa con orari più distesi, non 5 o 6 ore di seguito con al massimo un quarto d’ora di pausa, facendo finta che sia ovvio e naturale quello che naturale non è nemmeno per noi insegnanti; si fa in edifici adatti, progettati per essere una scuola, e congrui spazi di ricreazione (sportiva o meno) intorno; si fa rimanendo tutti, al pomeriggio (con un servizio mensa, anche per la secondaria di II grado), per fare le attività di tutti. E dunque si fa, banalmente, con tutta quella serie di “anche meno” che ho già ricordato in altra sede: meno alunni per classe, meno plessi per preside, meno pratiche da gestire per unità di personale amministrativo, meno ambienti da pulire per singolo bidello. E invece no: perché in quello stesso 30/12/2022, mentre il Ministero dell’Istruzione (e del Merito) provvedeva a inviare alle scuole il documento di istruzioni per la linea PNRR sull’inclusione, il Parlamento provvedeva intanto, con bella simmetria, ad approvare la legge di stabilità, nella quale, di tutti questi provvedimenti cruciali, in perfetta continuità con tutti i governi precedenti, non c’è traccia.

Poi, certo, una volta garantiti questi elementi di base (la cui assenza costituisce una deroga pesante alla seconda parte dell’art. 3 della Costituzione), allora la lotta alla dispersione si può fare anche con delle belle strumentazioni digitali che, in presenza di professionalità compiuta attraverso una regolare abilitazione, possono rivelarsi senza dubbio un buon supporto alla didattica; anche con laboratori innovativi (utilissimi, specie negli indirizzi professionali e tecnici); anche, se necessario, con la collaborazione di enti locali, istituzioni, associazioni del territorio che possano garantire un valido contributo culturale e scientifico. A patto che tutto questo non piova sulle scuole dall’alto dell’ennesimo meccanismo vessatorio e capestro, ma parta, e sia guidato, dalle singole istituzioni scolastiche, nel pieno esercizio della loro autonomia organizzativa e didattica.

E magari anche con della specifica formazione che – riflettendo sulle costrizioni imposte dalla didattica pandemica – analizzi se qualcuno di quei vincoli si possa trasformare davvero in opportunità, consentendo finalmente sia di uscire dalla facile equazione “digitale = inclusione”, sia di superare la dicotomia in cui troppo spesso sembra immerso il dibattito tra docenti: tecnocrati vs tecnofobi (con di lato il gruppo minoritario di coloro che hanno risolto da tempo il proprio rapporto con la tekne: dal gessetto, al teletrasporto, alla moka del caffè). Ma il PNRR la formazione dei docenti, sui macro-progetti proposti, non la finanzia.

Conclusione: una storia sbagliata

Nella sua lettera di saluto, datata 16 gennaio 2023, ai colleghi del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione, alla vigilia del termine del suo mandato (cominciato per volere del Ministro Bianchi), l’ormai ex Capo Dipartimento Stefano Versari (ex provveditore dell’Emilia Romagna), ha scritto, tra le altre cose, che “nonostante le migliori volontà, l’Amministrazione e le istituzioni scolastiche paiono talora appartenere ad universi paralleli”. E’ una affermazione con la quale non posso che essere decisamente d’accordo. Vorrei però sommessamente ricordare all’ex Capo Dipartimento Versari, che non io, ma lui, era Capo Dipartimento mentre usciva il DL sul rientro a scuola 70%” senza uno straccio di organizzazione; non io, ma lui, era Capo Dipartimento nel momento in cui è stato varato il “Piano estate”; non io, ma lui, era Capo Dipartimento quando, a distanza di due giorni, è stata inviata alle Direzioni Regionali la circolare sugli organici 2022, che prevedeva le classi pollaio di sempre; non io, ma lui era Capo Dipartimento quando è stato chiesto ai docenti di sostituirsi agli operatori sanitari per gestire i tracciamenti col green pass; non io, ma lui, era Capo Dipartimento durante la progettazione unilaterale, senza coinvolgimento capillare della comunità scolastica, del PNRR. Un PNRR che, per tutti i motivi che ho cercato di argomentare, ben lungi dal rilanciare il senso civico di una istituzione pubblica, si limita a proiettare su di essa, nella forma della beneficenza una tantum, le ombre lunghe dell’azienda e di un peloso modello di volontariato professionale.

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