Piergiorgio Bellocchio e i Quaderni piacentini
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Per ricordare un intellettuale controcorrente come Piergiorgio Bellocchio può essere utile rimemorarne l’impresa più rilevante: la vicenda dei Quaderni piacentini, [1] importante rivista politico-culturale nel solco della tradizione aperta dal Politecnico. I primi numeri dei Quaderni piacentini, nel 1962, furono ciclostilati in proprio da Piergiorgio Bellocchio e da Grazia Cherchi che, con Augusto Vegezzi a Piacenza avevano fondato il circolo “Incontri di cultura”. Per alcuni aspetti prefigurazione del ‘68, il circolo era uscito dalla dimensione provinciale e aveva stabilito contatti con una parte rilevante della cultura italiana: Elio Vittorini, Ernesto De Martino, Enzo Paci, Danilo Dolci. Ma il vero interlocutore di Bellocchio e dei giovani piacentini è Franco Fortini la cui Lettera ad amici di Piacenza può essere considerata come l’atto di fondazione della rivista.[2] Da Fortini, i piacentini ereditano la vocazione alla minoranza, la tendenza all’eresia e l’inscindibilità del nesso politica-cultura. Questa lettura battagliera e militante dei testi letterari, delle opere artistiche o dei posizionamenti degli scrittori nel nuovo campo culturale, interpretati come sintomi dei poteri e delle egemonie, costituisce la cifra del “metodo” critico dei Quaderni piacentini e ciò appare evidente fin dall’editoriale del primo numero:
Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia portata non solo all’esterno ma anche all’interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può e si deve essere seri senza essere noiosi. Con allegria.
Esterno e interno possono anche essere letti come equivalenti di esteriorità e interiorità, conflitto sociale e autocoscienza. In tal modo si può sostenere che, sebbene il baricentro della rivista, fra il 1966 e gli anni settanta e cioè nel passaggio da una fase pionieristica al successo, si sposterà nella direzione della dimensione sociopolitica, la critica della letteratura e del cinema (soprattutto i saggi di Fortini, Cases, Solmi e le recensioni di Bellocchio, di Fofi, di Berardinelli) e ancor più la presenza delle voci di poeti come Majorino, Giudici, Sereni, Raboni, Roversi e Cesarano costituiscono la sua radice più originale, indocile e propulsiva.
Quaderni piacentini, insomma, si configura come rivista fatta da giovani e rivolta ai giovani, e che costruisce, insieme a un progetto di critica radicale (modellato sui francofortesi, e su Marcuse soprattutto) e a una nuova consapevolezza politica, nuove forme di scrittura e di comunicazione. La rivista è, per questa ragione, lo strumento che più di altri prepara il terreno del ‘68: sul numero 28 (settembre 1966), che registra l’ingresso nel comitato direttivo di Goffredo Fofi, si pubblicano le Considerazioni sul materialismo di Sebastiano Timpanaro; nel numero 30 escono le Note sulla rivoluzione culturale cinese di Edoarda Masi; il numero 31 (luglio 1967), dedicato a Imperialismo e rivoluzione in America Latina e redatto in collaborazione con i Quaderni rossi, conosce larghissima diffusione fra i militanti del nascente movimento studentesco. Infine, i quattro fascicoli pubblicati nel 1968 (numeri 33-36), consacrano il successo della rivista: il numero 33, che contiene lo scritto Contro l’università di Guido Viale, esaurisce in pochi giorni le 8.000 copie mentre i numeri successivi, usciti nel 1969-70, raggiungono la tiratura eccezionale di 13.000 copie.
Insomma, la rivista di Bellocchio è un vero e proprio campo di tensioni, non solo per l’urto fra i diversi sguardi disciplinari coesistenti ma anche per i difformi modi di interpretarli. Sulle pagine dei Quaderni piacentini cultura, arti e società si illuminano, si straniano e si contraddicono a vicenda, secondo un modello problematico, di verifica dell’immaginario oltre che di critica del dominio e elaborazione di strategie politiche, in cui il nodo dei rapporti tra tensioni dell’interiorità e conflitti della storia è trattato in modo sostanzialmente estraneo al lessico e ai codici del marxismo dogmatico: a testimoniarlo sono a esempio le discussioni su pedagogia, psichiatria e psicoanalisi e le aspre divergenze tra Elvio Facchinelli e Giovanni Jervis, Fortini e Timpanaro intorno ai temi, che diverranno centrali nel ‘77, della ribellione antiautoritaria e del “desiderio dissidente”.
L’originalità critico-letteraria di Bellocchio e degli amici di Piacenza, nonostante la perentorietà dei giudizi, consiste nello sforzo di problematizzare: a esempio La Storia di Elsa Morante, fra tutti i romanzi italiani del secondo Novecento forse quello che, con Il Gattopardo, ha scatenato a sinistra un più accanito dibattito critico, ideologico e estetico viene discusso sui Quaderni piacentini grazie alle voci discordanti di Raboni e di Cases. Per il primo La Storia “non è un libro consolatorio, non è un libro disperato: è un libro sull’atroce non presenza di una felicità possibile”, [3] per il secondo invece è la ricezione di massa del libro a svelarne i limiti, accomunando borghesi e rivoluzionari delusi, unanimemente inteneriti dal “fanciullino incorrotto che si sentono sopravvivere nel cuore nonostante l’inflazione della loro moneta e dei loro ideali”.[4]
La critica dei Piacentini, in un decennio in cui la rivista politico-letteraria poteva pensarsi come “intellettuale collettivo”, ha saputo accogliere insomma intorno ai testi letterari il conflitto delle interpretazioni.
Di lì a poco, con la fine degli anni Settanta, il terrorismo e la restaurazione, lo scenario muta radicalmente. I Piacentini avvertono precocemente il nuovo spirito del tempo: ne sono testimonianze l’editoriale di Cases contro la cultura della casa editrice Adelphi,[5] la polemica di Jervis contro l’“idealizzazione del negativo”[6] e l’individuazione delle mode culturali della middle class onnivora da parte di Berardinelli e di La Guardia:
Il pane quotidiano di questa intellettualità teorica, “autonoma” e ruotante sull’asse del proprio discorso, è fatto di Hölderlin, Rimbaud, Heidegger Lacan. (…) Una generazione di militanti politici di cultura marxista vuole trasformarsi in un esercito di santoni del pensiero eccezionale. Stalinisti dell’oltranza, sacerdoti di un dionisismo filosofico da catena di montaggio, eliminano le contraddizioni e le spaccature a forza di nominarle e di adorarle. Bisogna davvero credersi ultrauomini e leoni filosofici per sopportare l’eterno ritorno della restaurazione capitalistica. [7]
Occultate le contraddizioni, o trasferite armi e bagagli nella sfera dell’Essere, l’eredità dei Quaderni piacentini (chiusi nell’aprile 1980) nel contesto postmoderno degli anni ottanta prosegue orfana dei movimenti e accecata da un trauma collettivo. Nelle successive esperienze di Bellocchio, di Berardinelli[8] e di Fofi, [9] l’autoproduzione e la ricognizione letteraria e cinematografica, sono l’esito di una mutilazione e di una sconfitta epocale, a cui sembra poter sopravvivere, postumo, solo il moralismo antimoderno. [10] Ciò che nei Piacentini stava faticosamente assieme (la critica della società, delle ideologie, dell’economia politica, e la verifica dell’immaginario, dell’autocoscienza poetica e letteraria) si scinde e, dividendosi, rischia di reificarsi in puro sarcasmo solitario e antipolitico[11] o in mero piacere della letteratura[12]. Ma proprio quella scissione, talvolta cinica, esalta a tanti anni di distanza il nucleo dell’impresa di Piergiorgio Bellocchio che oggi più ci manca: la critica della cultura e della società.
[1] Della rivista esistono due antologie: “Quaderni piacentini” 1962-1968, a c. di L. Baranelli e G. Cherchi, Edizioni Gulliver, 1977, e Prima e dopo il ’68, a c. di G. Fofi e V. Giacopini, Roma, minimum fax, 1998). Recentemente è uscito il volume di G. Pontremoli, I “Piacentini. Storia di una rivista (1962-1980), Edizioni dell’asino, Roma, 2017 a cui si rinvia per una ricostruzione militante dell’intera esperienza. Di grande utilità inoltre G. Muraca, Cronistoria dei “Quaderni piacentini”, in Id., Da Il Politecnico a Linea D’ombra. Le riviste della sinistra eterodossa, Poggibonsi, Lalli, 1990, pp. 51-95.
[2] F. Fortini, Lettera ad amici di Piacenza, in L’ospite ingrato, Bari, De Donato, 1966, poi in L’ospite ingrato Primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 78-84.
[3] G. Raboni, Il libro di Elsa Morante, Quaderni piacentini, nn 53-54, dicembre 1974.
[4] C. Cases, Un confronto con Menzogna e sortilegio, Quaderni piacentini, nn. 53-54, dicembre 1974.
[5] C. Cases, Gottfried Benn difeso contro un suo adoratore, in Quaderni piacentini, n. 50, luglio 1973.
[6] G. Jervis, Il mito dell’antipsichiatria, Quaderni piacentini, nn. 60-61, ottobre 1976.
[7] A. Berardinelli, G. La Guardia, Restaurazione e liberazione. Osservazioni sull’invecchiamento della Nuova sinistra, Quaderni piacentini, n. 69, dicembre 1978.
[8] Diario è una rivista trimestrale a quattro mani, prodotta in casa da Bellocchio e da Berardinelli dal 1985 al 1993: un quaderno di piccolo formato color carta da zucchero che abbina le voci aforistiche e soggettive dei due autori a quelle di Kirkegaard, Leopardi, Simone Weil, Orwell, Thoreau, Baudelaire, Herzen. Il passaggio dal noi all’io nella critica implica in Diario la negazione di qualunque interlocutore collettivo e il restringimento dello spazio politico-culturale all’abito della morale individuale. Cfr. P. Bellocchio, A. Berardinelli, Diario 1985-1993. Riproduzione fotografica, Quodlibet, Macerata, 2010.
[9] Fofi fonda a Milano Linea d’ombra, mensile culturale che esce dal 1983 al 1995 e il cui maggiore impegno è dato dallo spazio offerto ai giovani autori, al confronto fra le arti (narrativa, poesia, saggistica, giornalismo, cinema, teatro) e all’apertura agli autori stranieri.
[10] È quanto argomenta B. Pischedda in Com’è grande la città, Marco Tropea editore, Milano, 1996.
[11] Cfr. A. Berardinelli, Nel paese dei balocchi: la politica vista da chi non la fa, Donzelli, Roma, 2001.
[12] Esemplare a questo proposito il tragitto di Alessandro Baricco che proprio da Linea d’ombra muove i primi passi. Cfr. G. Cherchi, Scompartimento per lettori taciturni, Feltrinelli, Milano, 1997.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Commento lasciato sulla pagina FB di Adriano Sofri)
Condoglianze alla famiglia e onore a Piergiorgio Bellocchio. Ho cominciato a leggere i piacentini dal 67-68. Ma penso che se si parla solo di essi non si capisce più quale occasione d’oro si perse tra ’67. ’68 e ’69. Per me bisogna ricordare insieme e confrontare almeno quaderni piacentini e Quaderni rossi. Qualcuno ricorderà che ci fu persino un numero il 31 del luglio 1967 in collaborazione con Quaderni Rossi e Classe e Stato (https://bibliotecaginobianco.it/?e=flip&id=37…).
Comunque non perdono ai piacentini (redattori e collaboratori) di essere stati anche il vivaio “pluralista” di carrieristi e opportunisti poi accomodatisi nelle università e nei mass media alla faccia della “rivoluzione”. Meglio per me i quaderni rossi.
Bello l’articolo di Emanuele Zinato che cita il mio articolo Cronistoria dei Quaderni piacentini ma si dimentica di citare il mio libro Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici che mi ha aiutato a presentare a Padova… Ciao Romano, ciao Emanuele, un grande abbraccio.
Caro Ennio, anche diversi redattori dei Quaderni rossi sono poi saliti in cattedra, ma
né loro, né i direttori e i redattori dei Quaderni piacentini hanno rinnegato il loro passato, a parte Berardinelli e Fofi che fanno storia a sé. Un caro saluto.
Il gruppo dei «Quaderni Piacentini» sembrava scaturire da quei figli inquieti del più inquieto Fortini che riconoscevano negli scontri di piazza i segnali della ribellione al sistema, ma rifiutavano di scendere nella mischia restando alla finestra a guardare, curiosi e distanti, critici anche nei confronti degli stessi “compagni di strada”. Nella lotta politica e sociale si impegnarono invece i Sofri e i Rieser, mentre Bellocchio e la Cherchi si misero a disposizione per pubblicare gli interventi degli altri, rimanendo incerti fino all’ultimo: proprio loro che con sicurezza avevano sempre distinto e indicato i “libri da leggere” e quelli “da non leggere”. La lotta armata, l’autonomia e tutto il resto ridussero lo spazio per quel tipo di centrismo “au-dessus de la mêlée”, e allora tornare a casa divenne urgente, l’unico modo per non sparire nel “gorgo” e continuare in solitudine ad elaborare quel che era stato e ancora avveniva. Dai «Quaderni» nacque il «Diario», dove a dire la loro erano i soli Berardinelli e Bellocchio, sempre più convinti di aver visto giusto e di aver perso definitivamente la partita. Del resto, dalla parte del torto non c’è vittoria che tenga, quantunque anche nel perdere sia necessario avere stile, essere bravi a subire la sconfitta con eleganza, senza querimonie o piagnistei. Così accadde, ad esempio, con la impietosa stroncatura del primo celebre romanzo di un “mostro sacro” della scena culturale come Umberto Eco, ed è per questo che da quelle pagine emana ancor oggi un fascino particolare che seduce sia chi col “cattivo nuovo” non vuole ad ogni costo compromettersi sia chi invece ci prova. Infine, mi sia concesso un riferimento personale che reputo significativo: con Piergiorgio Bellocchio intrattenni, diversi anni fa, un breve contatto epistolare e una lunga telefonata, che rivelò da parte sua (egli non mi conosceva e io avevo semplicemente cercato e trovato il suo numero nell’elenco telefonico di Piacenza) una straordinaria disponibilità, priva della benché minima traccia di supponenza.