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diretto da Romano Luperini

Sebben che siamo donne. Scrivere di/da donne

Non è questione di quote rosa. È questione di capire cosa accada nella letteratura quando anche alle donne è dato modo di prendervi ufficialmente parte come autrici – e non solo come lettrici, come animatrici di salotti, come dilettanti all’ombra dei professionisti della scrittura. È questione di capire cosa accada nella letteratura quando al punto di osservazione di un uomo si accosta definitivamente il punto di osservazione di una donna, come costante e non come eccezione; e come accade in ogni altro ambito dell’esistenza. È il compito che mi sono assegnata da un po’ e qui proverò a suggerire qualche coordinata a chi abbia desiderio di seguire questo percorso.

Due libri possono fare da guida; e qui vogliono essere suggerimenti fra i suggerimenti.  

Il primo: la capillare rivisitazione di quello che è sicuramente il mito fondatore della scrittura al femminile, Saffo, la ragazza di Lesbo (Einaudi, 2022), raccontato con ragione e sentimento da Silvia Romani. Definirlo un excursus sarebbe riduttivo: docente di Mitologia, Religioni e Antropologia del mondo classico, col supporto (oltre che – ça va sans dire –  dei versi) di un bel repertorio iconografico (le pitture vascolari, il marmo di Rodin, la feroce litografia di Daumier, le tele di Moreau, Amable, Denis…), Romani ricostruisce innanzi tutto il contesto e l’immaginario in cui nasce e di cui si nutre la lirica della poetessa e ne racconta il fascino esercitato su intere generazioni di artisti antichi e moderni: un repertorio di per sé sorprendente, da Catullo a Ovidio, da Verri a Leopardi, da Ortese a Pavese, da Baudelaire a Yourcenar; a molti altri e altre ancora. Ma soprattutto Romani ne restituisce l’incanto dell’universo lirico, come un nucleo solido e resistente annidato nei secoli in ogni uomo, in ogni donna.

Il secondo libro è, invece, la nuova edizione de Le signore della letteratura (La tartaruga, 2022; prima edizione: 1984) in cui Sandra Petrignani ha raccolto le interviste (vere o immaginate) a dieci grandi scrittrici italiane, oggi tutte scomparse  (Anna Banti, Maria Bellonci, Laudomia Bonanni, Fusta Cialente, Albe De Céspedes, Livia De Stefani, Natalia Ginzburg, Paola Masino, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Lalla Romano; e con dispiacere rinuncia a Dolores Prato). «Non è retorica femminista» – avverte la stessa Petrignani – «Le scrittrici qui raccolte non sono femministe. Appartengono a una età che questa parola  non contempla. Se ne infastidiscono. Ma sono tutte ugualmente consapevoli dello svantaggio e, insieme, della grandezza della femminilità. Hanno, quale più quale meno, sofferto – e lo dicono – di scarsa considerazione, mancanza di potere, esclusione. Perché sono scrittrici e non scrittori. Ciò che raccontano di sé disegna nell’insieme una comune condizione di isolamento, delle donne fra gli uomini, ma anche delle donne fra le donne» (p.12). Petrignani è (tra molto altro) anche autrice de La corsara (Neri Pozza, 2017; finalista al Premio Strega 2018), il bel ritratto di Natalia Ginzburg, alla quale dall’ottobre 2021 al gennaio 2022 La Repubblica ha dedicato una iniziativa editoriale notevole; e della quale, accanto all’opera narrativa, non può dimenticarsi l’opera di ascolto attento e fattivo delle voci più nuove della letteratura: è lei, per esempio, a captare per prima l’incantesimo di Menzogna e sortilegio di Elsa Morante (Einaudi, 1947) e a tenere a battesimo, proprio insieme a Morante, Althénopis di Fabrizia Ramondino (Einaudi, 1946).

Forte di queste guide, dopo aver riletto (con fatica gioiosa) le storie di Morante e il suo epistolario con Moravia (Quando verrai sarò quasi felice, Bompiani, 2021), passerei a Elsa di Angela Bubba (Ponte alle Grazie, 2022), il romanzo biografico, intenso nelle vicende e appassionato nello stile, che intreccia la confessione in prima persona al racconto in terza, anche (ma non solo) rimaneggiando in modo originale scritti di e su Elsa Morante. Quasi assecondandone l’indole anarchica e la sbrigliata vocazione al narrare, Bubba ci consegna un ritratto della scrittrice refrattario a lasciarsi catalogare come mito, santino o icona di generiche battaglie. Ripercorrendo la vita di Elsa – dall’infanzia difficile, agli incontri importanti, alla malattia –  rintraccia piuttosto il filo robusto che la lega non solo alle donne di oggi, ma all’oggi tout court.

Decisamente meno nota, ma sostanzialmente coetanea di Morante e Ortese (anche quest’ultima così viva nel ricordo tanto di Petrignani, quanto di Romani; oltre che nel mio: mai dimentico quel gioiello che è Il mare non bagna Napoli), è Paola Masino, scrittrice engagée e autrice di un incredibile romanzo, Nascita e morte della massaia  (Feltrinelli, 2018; con una bella prefazione di Nadia Fusini): composto nel 1938-39, avversato duramente dal regime fascista, fu pubblicato soltanto nel 1945, ma, oscurato dalla fama dell’opera di Massimo Bontempelli (di cui Masino fu compagna e, di circa trent’anni più giovane, in qualche modo vestale), poco se n’è parlato e, per quel poco, spesso riconducendolo al “realismo magico”. Merita pertanto una vera e propria riscoperta: per la vicenda surreale: è la storia di una bambina che – scegliendo di vivere in un baule dove mangia, dorme, legge – si sottrae, come può, al destino di massaia imposto dalla sua nascita borghese, finché vi si arrende, lo adempie coscienziosamente fino in fondo e ne muore; per lo stile, a volte crudo, a volte smagato, sicuramente ardito, attraversato da pulsioni fino ad allora inconfessabili per una donna; ma anche per la stupefacente attualità della riflessione che riconduce la questione della “condizione femminile” a una più ampia “questione sociale”, che non risparmia alcuno dalla necessità di assumersi le proprie responsabilità.

Volendo tracciare la parabola ideale che ha portato alla ribalta tante signore della letteratura, si rischia di compilare un novero deludente, sia che il novero le includa tutte, sia che ne selezioni solo alcune: opinabili sarebbero sempre i criteri. Dunque, per coerenza con il percorso che ho scelto di seguire e sempre forte delle mie “guide”, tra i tanti nomi possibili di scrittrici contemporanee, non ne farò che uno, quello di Daniela Ranieri, che firma uno Stradario aggiornato di tutti i miei baci di grande efficacia (Ponte alle Grazie, 2021; candidato al Premio Strega 2022 e inspiegabilmente escluso dalla finale, per un soffio). Attraversando le linee di tensione degli antichi miti maschili (Teseo, Giasone…), ne disegna uno nuovo e in fieri, quello della donna affetta da dongiovannismo femminile, capace (mentre narra, nell’epoca post-covid, di un viaggio in Sicilia, e d’altri viaggi, lunghi o brevi, e di altrettante soste) di rappresentare vigorosamente il “randagismo sentimentale” non solo delle donne, ma di un’epoca votata alla disgregazione di ogni relazione autentica tra gli esseri umani e tra gli esseri umani e la natura, la città, la periferia, le cose. Iridescente, seducentissima la lingua, spregiudicato lo stile, nutrito da letture sostanziose e risoluto nella ricerca di una forma nuova e opportuna per raccontare il disincanto, la fragilità, la inadeguatezza, la solitudine senza sconfinare nei territori battuti da distopie da supermercato.

Infine, a chi, seguendo questo percorso, desiderasse uscire dall’Italia e avesse già letto l’Inventario di alcune cose perdute di Judith Schalansky (Nottetempo, 2020; torna Saffo anche qui), potrei suggerire una scorta d’eccezione, Elisabeth Strout e il suo Oh William! (Einaudi, 2022; traduzione di Susanna Basso): ritroviamo ancora una volta Lucy Barton, la scrittrice affermata che continua a sentirsi invisibile, la donna «venuta dalla feccia» che ormai vive, sola, in un sobrio appartamento di New York, ultrasessantenne, legatissima alle due figlie divenute adulte, indipendenti, professioniste; spose. Stavolta Lucy, proprio mentre tenta di elaborare il lutto per la perdita di David – il secondo, amatissimo marito, violoncellista –  è alle prese con i turbamenti del primo – l’ingombrante e fascinoso biologo William. Lo accompagnerà nel Maine, alla ricerca delle sue oscure radici familiari, e sarà un viaggio nei meandri della psicologia femminile e della psicologia maschile, laddove pericolosamente si incontrano e si necessitano a essere come sono.

Ma a chi, uscendo dai confini italiani, fosse gradito comunque restare entro quelli della generazione da cui abbiamo preso le mosse (Masino, Morante, Ortese, Ginzburg, per citarle con scrupolo anagrafico; appena più giovane Ramondino), suggerirei di non perdere una piccola perla: il Racconto delle nove città (Passigli, 2009; traduzione di Gabriele Mazzitelli), uno dei dieci cosiddetti “racconti americani” di Nina Berberova (classe 1901), fuggita dalla Russia nel 1922 e vissuta prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Di questo racconto folgorante (il cui titolo originale è significativamente In memoria di Schliemann) il protagonista è un anonimo impiegato, inaspettatamente in ferie per soli tre giorni (tanti gliene ha concessi il calcolo impersonale di una macchina), che fa un viaggio in una città sul mare e ne scopre, ad uno ad uno, gli strati, come fosse una nuova Troia. Erede di una dinastia di “sradicati” (e anche la protagonista dello Stradario, in qualche modo, lo è: «Sono incompatibile col funzionamento delle cose», dice lei stessa di sé), l’impiegato di Berberova si fa carico delle inquietudini di una umanità in esilio anche quando resta in patria; e ci accompagna alla scoperta dei livelli nascosti di ognuno di noi:

Rimasi sdraiato senza muovermi, fissando il nero profilo di quella città. La linea spezzata dei suoi tetti si stagliava nettamente sull’alba rosata, era una città enorme, si susseguivano file di grattacieli, e questa possente, nera visione ora pareva sorgere dall’acqua, ora traspariva attraverso un angusto strappo tra le nuvole mattutine, che sembravano poltrire sul Golfo e tra le quali il sole cercava di aprirsi un varco verso l’acqua e la terra. Ciò che più mi stupiva in tale visione era la commistione di orrore e bellezza: da un lato veniva distrutto qualcosa che era appena nato in me, dall’altro mi si riproponeva ciò che vi era sempre stato, qualcosa di abituale, con cui convivevo, che sentivo mio e a cui mi ero, tutto sommato, rassegnato. Questo sentimento era ora cresciuto, ponendomi di fronte ai suoi limiti e alle sue leggi, e non c’era modo di ribellarsi, di discutere o di cercare un possibile dialogo. (pp.59-60)

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