Estratto da Romano Bilenchi. Storia e antologia della critica (1933-2018)
È uscita di recente una monografia critica, a cura di Gabriele Fichera, in cui si ripercorre per intero l’opera di Romano Bilenchi, dall’esordio negli anni Trenta alle ultime prove. La rivisitazione dei racconti e dei romanzi è affiancata inoltre da un’ampia ricognizione della critica che, lungo gli anni, ha accompagnato l’autore di alcuni capolavori della narrativa italiana moderna: Conservatorio di Santa Teresa, Gli anni impossibili, Amici.
Ne scaturisce un profilo teso a mettere in evidenza la ricchezza di sfaccettature del lavoro di Bilenchi, che fu non solo narratore penetrante e raffinato, ma anche saggista, giornalista e organizzatore culturale, traduttore, consulente editoriale; infine uomo civile, militante con passione nelle più aspre battaglie delle idee.
Completano il volume la bibliografia aggiornata, mentre l’antologia della critica presenta una nutrita schiera di brani d’autore, con testi talora non facilmente reperibili insieme alle letture di maestri come Franco Fortini, Gianfranco Contini, Giacomo Debenedetti, Maria Corti, Luigi Baldacci.
Ringraziamo l’autore e l’editore per la concessione.
5. Conservatorio di Santa Teresa (1940)
5.1 Dell’origine
Conservatorio di Santa Teresa, composto fra il 1936 e il 1939 e dedicato a Carlo Bo, esce a Firenze nel 1940 per le edizioni Vallecchi. È il romanzo della ricerca dell’origine, di quel mondo segreto e incantato dell’infanzia che sembra fatto di giornate mute e indistinte. Si tratta di un mondo dai contorni sfumati, ma solido, da cui idealmente proviene tutta l’opera di Bilenchi. Questo mondo interiormente fluttuante lo ha descritto benissimo, in anni molto vicini a quelli del Conservatorio, Cesare Pavese, in uno scritto del 1945 intitolato L’adolescenza, che confluirà in Feria d’agosto. Paveseinquadra in termini paradossali questa fase della vita dell’uomo come l’epoca della vita più autentica, ma allo stesso tempo della non coscienza di se stessi. Come la stagione in cui «non sappiamo ammirare, cioè cogliere quel che ci accade» (Pavese 1951, p. 286). Siamo sempre nei dintorni del concetto di “origine”. Questa epoca infatti «si perde nell’indistinto (ivi, p. 283)». La stagione di Sergio è quella che prepara l’adolescenza. Bilenchi nel Conservatorio cerca di ritrovare quel tempo autentico in cui la persona si forma. Non si tratta però di fissare sulla pagina ricordi ben formati. Non si tratta neanche di rintracciare trasfigurazioni culturali, ma di recuperare ciò che le ha precedute. Ancora Pavese: «Ma c’è tutta una plaga d’indistinte giornate di cui chi riesce a cogliere e fermare l’atmosfera sfiora il segreto della propria natura più gelosa. In esse incontrammo la nostra realtà, la meno influita e incantata di cultura e quella che sotto tutte le rivelazioni future serberà inconfondibile l’impronta dell’istinto. C’è in esse come un solido suolo, un fondamento ultimo, uno schietto e incancellabile stampo. Tutto viene di là» (ivi, p. 284; corsivi miei). Queste parole potrebbero essere idealmente assunte come il più preciso dei commenti alle pagine di Conservatorio. È la straordinaria resa di questi attimi epifanici, custoditi nelle scaturigini più profonde del tempo, a rendere infatti oltremodo prezioso questo romanzo. Per di più, della stessa natura saranno gli attimi in cui la pittura di Rosai, secondo Bilenchi, libera dalle loro catene il mondo della natura e quello degli uomini. In Amici, con una forse casuale, ma comunque significativa, risonanza lessicale con Pavese, Bilenchi dirà: «Rosai era riuscito a fermare gli umori di cui la città e la campagna si ammantavano in un’ora particolare di una particolare stagione e sembrava avere spezzato la catena che teneva legati gli uomini fra loro» (OC, p. 775; corsivo mio). Di questi attimi è intessuta la prosa poetica di Conservatorio di Santa Teresa. Sono, per dirla con la Woolf, «momenti d’essere», d’intimità estrema con le cose e di proustiana «tenerezza».
Fin dalle prime battute del romanzo l’incipit aggancia il nodo tematico dell’origine, perché scava nell’essenza umana, mettendone in luce l’originaria e fondante dicotomia fra quiete e ricerca, tranquillità e avventura. Rubando ancora a Proust le sue parole, stavolta sul musicista Vinteuil, potremmo dire: fra la bianca Sonata, serena e maestosa, e il rosseggiante Settimino, bruciante e appassionato. Subito Bilenchi mette a confronto alba e tramonto, oriente e occidente. È un po’ come se il lettore si trovasse di nuovo di fronte agli affreschi del Buono e del Cattivo governo, polarizzati simbolicamente fra le scene idilliche della parete orientale e quelle infernali della parete occidentale. La prima pagina del romanzo si configura infatti come lampante compendio dell’opposizione fra estremi. I due versanti della villa, che danno uno sull’alba e l’altro sul tramonto, si tramutano in metafore incrociate dell’infanzia/adolescenza e della “vecchiaia”. È come se Bilenchi riuscisse a ricreare poeticamente l’antica unità di tempo aristotelica, per cui nelle ore della giornata che si susseguono dall’alba al crepuscolo si consuma un’intera vita; si compie il destino dell’eroe. I due versanti del paesaggio vengono collegati infatti al carattere profondo di chi vive nelle ville. Nei casi in cui l’esposizione è a oriente prevalgono «tranquillità, soggezione verso la natura, i cui segni si ripetono ogni giorno più desiderati dall’apparire del sole» (ivi, p. 231). Per chi vive in ville disposte verso occidente invece pare più urgente un certo «istinto di avventura e amore per il creato nelle sue bizzarrie». In questo caso non si può che fissare le crete, da cui provengono «effluvi di un mondo chimerico» (ibidem).
A conferma del fatto che con queste divaricazioni siamo di fronte a un elemento caratterizzante di Bilenchi si può osservare che una simile dualità si riavrà nel racconto La miseria. Qui il confronto sarà fra i boschi della campagna da una parte e i giardini e gli orti di città dall’altra. I primi riservano delle sorprese, i secondi invece nella loro piatta regolarità non accendono la fantasia. Tornando al Conservatorio è interessante notare che la villa dove vive il protagonista Sergio ha finestre su più lati proprio per non inibire ai personaggi e al lettore quel senso di completezza estetica e conoscitiva che deve condurre a contemperare gli estremi in un tentativo di sintesi poetica. Questo equilibrio ideale si dovrebbe infatti tradurre nel processo di crescita del fanciullo[1]. Bilenchi si sofferma anche su come sono costruite le ville appena descritte. Questo testimonia ancora una volta come appartenga in profondità allo scrittore una sorta di mens geometrico-costruttiva. La tendenza a ricreare mentalmente il mondo circostante sarà presente anche nel protagonista del racconto La miseria. Quando la neve cade sui palazzi della città, modifica i loro colori e i loro profili, dando la stura a quel lavoro dell’immaginazione che rende felice il ragazzo: «e quella particolare felicità era la condizione più adatta affinché la mia mente si donasse tutta alle sue costruzioni. Davo allora una nuovo assetto alla città» (ivi, p. 640; corsivo mio). Inoltre bisogna pensare a come Bilenchi “compone” le sue raccolte di racconti, rivisti e corretti continuamente e inseriti spesso in un ordine nuovo. Si impone fin da subito nell’autore una “volontà costruttiva”, che poi è una tipica caratteristica di ogni “stile tardo”.
Come la strada campestre dove Bruno si era innamorato della madre, anche la villa dove vive Sergio è «accuratamente nascosta» (ivi, p. 232) dalla vegetazione. Al contrario le altre ville sono tutte bene in vista, e ciò risulta sgradevole agli occhi di chi narra, perché questa ostensione avviene a detrimento della natura. Le altre ville infatti «non permettevano di pensare ai prati, alle vigne, agli alberi» (ibidem). La funzione della siepe leopardiana qui si ripropone come instancabile generatrice di immagini. È attraverso una sorta di pudore narrativo e un raffinato lavoro di sottrazione che si dischiude in Sergio la dimensione della fantasticheria. Ed è per questo motivo, poco dopo, che le avventurose crete possono essere avvicinate al margine di un deserto. Solo sull’uniforme si può distendere la tavolozza variopinta delle emozioni e delle avventure. In questo senso le due facce del paesaggio evocate sin dall’incipit sono complementari oltre che contrastanti, poiché hanno bisogno l’una dell’altra, implicandosi a vicenda.
La distinzione fra unitario e frastagliato, regolare e articolato si ripresenta più tardi quando Sergio paragona la città alla campagna. Come il pittore Elstir secondo Proust praticava nelle sue tele un continuo scambio metaforico fra marine e terraferma, anche Sergio concepisce la straniante somiglianza fra il profilo della città con i suoi punti alti e quelli bassi e quello di una collina «non troppo rilevata» (ivi, p. 317). Attorno alla città si distende un immensa pianura che lascia stupito Sergio e lo stimola alla riflessione. Per lui infatti la campagna rappresenta una sorta di indelebile matrice percettiva attraverso la quale “vedere” il resto del mondo. Ancora una volta ne nasce un confronto di tipo contrastivo: «Tutto era diverso dalla campagna che si estendeva intorno alla villa. Lassù la natura al primo contatto si scomponeva nei suoi elementi più affascinanti: le colline, le crete, il fiume. Ora la bellezza era data da una inscindibile unità» (ibidem; corsivo mio). Il frammento sembra contrapporsi alla totalità. L’attitudine scompositiva implica dei rischi estetici. A suo tempo li segnalò Nietszche a proposito dell’arte di Wagner e in generale di ogni décadence letteraria. Staccare il dettaglio dal tutto per fruirlo isolatamente può far perdere di vista il senso complessivo delle cose. In realtà qui Bilenchi sta rappresentando un aspetto della mens infantile, in virtù del quale la fantasia non fa altro che ampliare le proporzioni del dettaglio precedentemente scisso dal contesto in cui si trova. D’altra parte Sergio sarà capace anche di proiettare una visione dall’alto sulla pianura sottostante, generando uno sguardo che gli insegnerà come collocare ogni cosa al suo posto all’interno di un quadro più ampio.
5.2 Gite al fiume
Nel processo di scoperta e conquista progressiva del paesaggio che si dipana nel romanzo giocano un ruolo decisivo i diversi episodi di gite al fiume vissute assieme alle due figure femminili che dominano il romanzo: la madre di Sergio e la zia. In una di queste gite, ad esempio, Marta e Vera ad un tratto falciano tutti i fiori che trovano sul loro cammino. Si tratta di un gesto violento che impaurisce Sergio. Si nota un certo sadismo, perché le due donne chiamano il ragazzo proprio per mostrargli come recidono i fiori, mentre lui grida e si dispera. Durante un’altra escursione al fiume, fatta con la madre in una notte d’agosto alla luce della luna, il fanciullo avverte un’angosciosa sensazione di sprofondamento: «A poco a poco invadeva Sergio la sensazione di un progressivo morbido affondare nell’umidità dell’erba e a tratti lo assaliva il timore di scivolare nell’acqua, risucchiato da qualche forza misteriosa e irresistibile» (ivi, p. 251). Nello stesso episodio un altro elemento profondamente perturbante è dato dal motivo del canto delle rane, descritto nella sua inquietante traiettoria sonora, che va dall’iniziale armonia alla confusa distonia finale. All’inizio la rane sembrano cantare tutte a tempo, come se ci fosse una sola rana «impegnata nel calmo e armonioso discorso» (ibidem). I diversi gruppi si attengono allo stesso ritmo. Poi pian piano i gridi diventano disordinati e assordanti, al punto da creare del malessere nel ragazzo. Dalla regolarità unitaria all’irregolarità dissonante. E Marta commenta così: «Sono come uomini che non riescano a vivere per altri uomini» (ibidem) – e si ricordi il fulminante giudizio che Bilenchi darà sull’amico Vittorini come uomo che, al contrario, sapeva vivere anche attraverso gli altri. Il fiume viene osservato più tardi da un altro punto di vista molto diverso. Stavolta siamo in città: «Il fiume, uscendo dalla stretta valle, perdeva la sua forza nervosa e la sua bellezza a tratti selvaggia» (ivi, p. 286). Secondo Vera il fiume in questo caso è imbruttito e martoriato dalla civiltà umana, coi suoi ponti, canali, le barche, renaioli, etc. A Sergio invece non dispiace affatto tutto quel formicolio di operai che con le loro attività lavorano attorno al fiume, anzi a «quella seconda natura del fiume» (ivi, p. 287) che tanto lo alletta. Al di là del fatto che il motivo del fiume ritornerà nell’incipit di I silenzi di Rosai, si deve notare come affiori qui il grande tema bilenchiano del lavoro umano che trasforma in profondità il volto del mondo. Questo motivo riapparirà con forza nel ritratto degli operai al lavoro nel racconto Pomeriggio.
5.3 Crudelitas
In ogni caso ci troviamo di fronte a frangenti particolari, in cui Sergio comincia a conoscere qualcosa di sfuggente che si avvicina alla morte. In una parola, viene chiamato a crescere. L’episodio del precipizio e dei fiori rossi ha un significato molto chiaro. Anche qui il bambino tende a ingigantire ciò che vede. La zia Vera, nel corso di una delle loro gite al mare, conduce Sergio fuori dalla città, perché vuole mostrargli questo baratro. Abbiamo un’altra scena di metaforica iniziazione all’eros. Il precipizio, questa «enorme fenditura nella terra» è «pauroso e affascinante» (ivi, p. 365) al tempo stesso. In quel momento «muoversi significava morire» (ivi, p. 366). Ancora una volta il bambino percepisce il reale allargando il dettaglio minuto. Sergio rimane confuso: «Sembrava che gli elementi dei quali era formata la campagna intorno alla villa fossero stati portati lì senz’ordine, in una brusca scomposizione» (ivi, p. 366). Il suo mondo viene disarticolato. L’oscurità profonda attrae, ma disorienta. Gli giungono in aiuto «alcuni fiori rossi, carnosi, senza foglie» (ibidem) che stranamente nascono proprio sull’orlo dell’abisso. Sergio chiede di che fiori si tratti e perché si formino proprio lì, ma la zia non risponde e lo porta via. Il tramonto del sole imprime al paesaggio circostante un movimento veloce, che è la traduzione simbolica del disorientamento di Sergio e delle sue fantasticherie. Nella pagina successiva, non a caso, arriverà il turbamento del ragazzo di fronte alle spalle che Vera ha denudato, mentre si pettina allo specchio. Ma fare conoscenza con la morte significa essere richiamati al principio di realtà e al problema della violenza e del dolore. In questo senso c’è almeno un altro momento molto intenso che va qui annotato: l’episodio “espressionistico” delle punture ai muli. Siamo sempre in città e l’albergo dove alloggiano Sergio e Vera ha davanti a sé una caserma. Dalla finestra si vedono in piazza dei soldati e degli uomini malmessi, che devono essere prigionieri di guerra. Questi sono costretti a tenere fermo un mulo mentre un dottore pratica una puntura sotto l’occhio dell’animale. Il mulo scalcia con violenza e uno dei prigionieri, colpito dai calci, cade per terra dolorante. Lo spettacolo crudele si ripete più volte in modo imperterrito. Sergio viene «sopraffatto dal terrore. Gli sembrò che l’ago gli entrasse in uno zigomo» (ivi, p. 371). il ragazzo si ritrae improvvisamente dalla finestra per evitare di vedere ancora e si stringe alla zia. Violenza della storia e umana crudeltà si saldano in una breve scena dal valore allegorico. Ma va detto che per Sergio il senso di ciò che ha visto è doppiamente grave, in quanto anche il padre è stato a lungo prigioniero di guerra. Non a caso subito dopo la scena dei muli l’immagine allegorica della Crudeltà riemerge, in modo alquanto sorprendente, e secondo moduli ironici che tendono a sdrammatizzare i toni. Il prigioniero ungherese Antonio, per conoscere Vera, attira l’attenzione di Sergio, spaventandolo con una finta serpe di legno. La scena è meno “innocente” di quanto sembri, perché rivela l’ennesima connessione “sentimentale” con i grandi affreschi senesi di Lorenzetti. Essa appare infatti come la traduzione narrativa di un emblema allegorico medievale che doveva essere ben noto a Bilenchi e che resta assolutamente cruciale per tutta la sua opera. Crudelitas campeggia infatti, insieme ad altre personificazioni, nella Allegoria del Cattivo governo di Palazzo Pubblico a Siena. Se la si osserva un po’ da vicino si può vedere come sia rappresentata proprio nell’atto di spaventare un bambino con una serpe in mano.
[1] Per un possibile riferimento letterario, a nostro avviso vanno ricordate le prime pagine delle Affinità elettive di Goethe, romanzo peraltro a suo tempo evocato, seppur in termini generici, da Macrí (1941, p. 355). In esse si dice che i due protagonisti Charlotte ed Eduard si costruiscono una casa-microcosmo in modo che, attraverso la porta e le finestre, sia possibile osservare con un solo sguardo i diversi tratti del paesaggio, ubicati in punti opposti dello stesso.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Grazie per questo stralcio del libro. E’ molto interessante prendere in considerazione un autore che e’ rimasto molto in ombra, sconosciuto ai piu’ credo. Fa parte di quello che da qualcuno viene definito “nuovo realismo” che include Moravia, Alvaro, Silone, Bilenchi appunto e Carlo Bernari. Di questi scrittori l’unico di cui non ho letto mai niente e’ Bilenchi.