Inchiesta sulle scuole di scrittura/ Giulio Mozzi, direttore della Bottega di narrazione
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo inchieste sugli editor, sui traduttori, sulle copertine, sulla scrittura per giovani-adulti e sui narratori d’oggi, continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura.
Nella sua Introduzione al volume Convergenze del 2010, Remo Ceserani rilevava il persistere di una «straordinaria vitalità della narrazione in tutte le sue forme»: da una parte il genere romanzo, «un gatto sornione dalle sette vite», dall’altra il diffondersi di un «vero e proprio bisogno di narrazione (…) in pratiche conoscitive che programmaticamente si distinguono dai romanzi», lo storytelling.
A oltre dieci anni da quel saggio si assiste alla continua espansione delle scuole di scrittura, alcune delle quali includono la pratica dello storytelling nei loro intenti programmatici.
Come è approdato/a alla docenza in una scuola di scrittura? Da quanto tempo insegna? Ha frequentato a sua volta una scuola di scrittura?
Non ho frequentato nessuna scuola di scrittura, anche perché ormai ho una certa età. Ho cominciato a scrivere nel 1991, a trentun anni, e all’epoca in Italia le scuole di scrittura quasi non esistevano. C’erano le esperienze pionieristiche di Raffaele Crovi e Giuseppe Pontiggia a Milano, quella della Scuola Omero a Roma, e per quel che ne so nient’altro (e all’epoca, comunque, non ne sapevo niente). Sono stato formato alla scrittura per tre vie: dai genitori, colti di cultura scientifica ma buoni lettori di letteratura e buoni educatori alla lettura; dalla scuola pubblica, che ho frequentato fino alla maturità classica incontrando almeno un paio di insegnanti d’eccezione (Renato Bortot per Filosofia, Diana Burla per Letteratura italiana); e nell’ambito della mia prima esperienza lavorativa, presso l’ufficio stampa della Confartigianato veneta, dove entrai ventenne come dattilografo ed ebbi la buona sorte di avere come capoufficio Guido Lorenzon, che vide in me delle qualità e le coltivò, facendomi diventare giornalista. Non ho fatto l’università; avrei potuto, anzi, ero fortemente sollecitato dai genitori; feci un’altra scelta.
Dopo il liceo feci il servizio civile, un anno e otto mesi, presso un collegio-orfanatrofio. Lavoravo con un gruppo di una dozzina di ragazzini (prima e seconda media). Comperai qualche libro di Mario Lodi, in particolare i cinque volumetti del Mondo, e pensai che avrei potuto fare qualcosa di simile con i miei ragazzini. Mi procurai un ciclostile usato (o forse ricordo male, ciclostilavo in parrocchia e il ciclostile usato arrivò più tardi). Fu un’esperienza interessante, come dire? Prodromica.
Cominciai a insegnare scrittura e narrazione nell’ottobre del 1993, quindi ventinove anni fa. Nell’aprile dello stesso anno avevo pubblicato il mio primo libro di racconti. Mi fu chiesto di condurre un corso di «scrittura creativa» presso un circolo culturale della mia città, Padova. M’informai di che cosa fosse questa cosa chiamata «scrittura creativa», studiai i pochi manuali che all’epoca si trovavano – molto pochi e molto poco utili, a quel che ricordo –, rilessi qualche saggio che avevo letto durante il liceo (Mimesis di Auerbach, Anatomia della critica di Northrop Frye, I formalisti russi di Todorov e qualche altro), e mi buttai. All’inizio la mia era una didattica decisamente selvatica. Proponevo esercizi con indicazioni elementari («descrivi la strada in cui abiti», e cose del genere), e li discutevamo allo spasimo. Chiedevo agli allievi di portare i loro scritti, e ancora allo spasimo li discutevamo.
Nel giro di un paio d’anni la curiosità per la «scrittura creativa» si diffuse. Condussi corsi presso circoli culturali e biblioteche pubbliche. Nacque a Torino la Scuola Holden, e mi fu chiesto di tenere dei seminari. Nel 1996 Stefano Brugnolo mi propose di lavorare con lui a un’opera che uscì in due volumi, nel 1997 e nel 1998, presso Theoria, e si chiamava Ricettario di scrittura creativa. Nel 2000 la riprese, ampliata, Zanichelli, e a tutt’oggi ha venduto quasi ventimila copie. La pubblicazione del Ricettario mi portò a lavorare parecchio con scuole (secondaria superiore, prevalentemente) e gruppi di insegnanti. Il fatto di insegnare mi costringeva a riflettere molto sulla scrittura. Nel 1997 pubblicai presso Theoria (e ci fu una seconda edizione nel 2002 ampliata, presso Fernandel) Parole private dette in pubblico. Conversazioni e racconti sullo scrivere. Nel 2001 il neonato editore Sironi di Milano mi chiese di creare una collezione di narrativa italiana. Imparai così, sul campo e senza nessuno che me lo insegnasse, il lavoro di editing (lavorai per Sironi fino al 2008, poi per Einaudi Stile libero fino al 2014 e per Marsilio fino al 31 dicembre 2019). Tra gli autori che pubblicarono con me la loro prima opera posso citare Laura Pugno, Franco Arminio, Tullio Avoledo, Alessandra Sarchi, Giorgio Falco, Vitaliano Trevisan, Alberto Garlini, Arianna Ulian. Per me insegnare e fare editing sono due attività quasi indistinguibili. L’insegnamento che so offrire è in gran parte una sorta di editing permanente.
Nel 2011 ebbi l’occasione, grazie all’editore milanese Laurana, di avviare una vera e propria scuola, che chiamammo Bottega di narrazione. Mi resi conto quell’anno che ormai, a forza di stare in aula quindici-venti ore alla settimana, a forza di editare lavori altrui, a forza di mettere me stesso alla prova nella scrittura, a forza di meditare e di scrivere sulla scrittura, ero diventato un insegnante di scrittura e narrazione fatto e finito. Mi sentivo, dopo diciott’anni che facevo quel mestiere, sicuro. Risponderò quindi alle domande facendo riferimento a questa esperienza – di squadra e non individuale – molto più che a quella – solitaria – dei primi anni. La Bottega di narrazione si distinse subito tra tutte le scuole di scrittura italiane per due caratteristiche: primo, il corso principale – il Laboratorio annuale – non era articolato in un piano di studi preciso: si lavorava, in gruppo, sui romanzi in corso d’opera degli allievi (si entrava, e tuttora si entra, per selezione), e si confidava che questo lavoro molto pratico facesse saltar fuori, e permettesse di affrontare con maggiore efficacia didattica, anche tutte le questioni teoriche (il che puntualmente avviene); secondo, il metodo di discussione dei testi era tutto. La nostra pratica fu presto imitata, e questo mi convinse della validità della scelta. A distanza di undici anni l’impianto del Laboratorio annuale – e quello che Laboratorio annuale del giallo, che abbiamo introdotto nel 2021 – è rimasto sostanzialmente quello, anche se abbiamo cercato di mettere un po’ d’ordine nella parte teorica dell’insegnamento. Non ci è mai interessato l’insegnamento prescrittivo («un buon romanzo si fa così e così»); ci interessa il lavoro maieutico. Ogni romanzo deve trovare la propria forma attraverso la discussione. È anche per questo, credo, che le opere narrative degli allievi della Bottega sono spesso piuttosto anomale – e non è facile convincere un editore a pubblicarle. È un rischio che ci assumiamo volentieri, e che chiariamo bene ai nostri allievi.
In che cosa consista questo lavoro maieutico, non mi è facilissimo spiegarlo. Si fanno domande. Si prende il testo e lo si scuote, lo si scuote, finché non ne piove giù la sostanza. Ci si domanda se ogni episodio, ogni scelta strutturale, ogni soluzione di scrittura, potrebbero essere cosà anziché così, o magari cosò o cosù. Scrivere un’opera letteraria significa compiere delle scelte a ogni passo, e su ogni scelta si discute. Certe volte il lavoro maieutico si fa talmente accanito che, per scherzo, gli allievi hanno cominciato a parlare di «trattamento Mozzi».
Nella Bottega di narrazione hanno lavorato Gabriele Dadati e Demetrio Paolin; ora ci lavorano Emanuela Canepa, Massimo Cassani, Valentina Durante, Claudia Grendene, Alessandro Lise, Fiammetta Palpati, Simone Salomoni, Giorgia Tribuiani, Giovanni Zucca. Alcuni tra loro sono stati miei allievi, e hanno appreso il «trattamento Mozzi» sulla loro pelle. Piuttosto che complottare per farmi fuori hanno preferito lavorare con me, e questo mi dà un certo sollievo. Siamo una piccola comunità di insegnanti, progettiamo insieme i corsi, ci confrontiamo sui lavori degli allievi. A volte invitiamo dei docenti esterni, perché ovviamente non sappiamo tutto e non sappiamo fare tutto. La scrittrice svizzera Manuela Mazzi contribuisce all’organizzazione di alcuni corsi – quando lavoravamo in presenza si svolgevano in Canton Ticino –, Arianna Ulian ha condotto quest’anno il corso La musica delle storie e Gilda Policastro condurrà un corso di introduzione alla critica letteraria. Chiediamo regolarmente l’intervento di esponenti del mondo editoriale: gli ultimi ospiti (li cito per dare un’idea) sono stati Francesca Chiappa di Hacca Edizioni, Leonardo G. Luccone di Oblique Studio, Dalia Oggero di Giulio Einaudi Editore, Vincenzo Ostuni di Ponte alle Grazie. Al termine del Laboratorio annuale organizziamo degli incontri con agenti letterari ed editori: partecipano sempre volentieri, e questo vorrà dire che abbiamo conquistato un certo credito.
In base alla sua esperienza quali sono le aspettative di chi si iscrive a un corso di scrittura e quali gli obiettivi a cui un docente può ragionevolmente mirare? Insomma quanta possibilità di incontro esiste tra la molla che muove la «domanda» e le possibilità oggettive con cui l’«offerta» risponde?
Ciascuno trova gli allievi che cerca. Chi si propone con slogan del tipo «vieni da noi, diventerai uno scrittore» troverà allievi disposti a credere a bubbole del genere. Chi propone corsi brevi in cui si parla di tutto (penso al programma standard che vedo proposto un po’ ovunque: trama, ambientazione, colpo di scena, personaggi, voce narrante, incipit, finale e così via: per ogni argomento una lezione d’un paio d’ore, magari con insegnanti diversi – tanto per disorientare meglio gli allievi) raccoglierà iscritti genericamente curiosi, forse un po’ ingenui, che hanno solo voglia di un assaggio o di una infarinatura. Nella Bottega di narrazione cerchiamo allievi che vogliano fare un serio investimento, un investimento esistenziale, sulla scrittura. Il Laboratorio annuale (duecento ore in aula, più tutto il lavoro individuale) promette sudore e sangue, e assicuro che la promessa è mantenuta. Lavoriamo in gruppi di sette allievi, ciascun gruppo seguito da due insegnanti: non conosco scuola che preveda un corpo a corpo così intensivo. I Fondamenti (di narrazione, di stile, di scrittura della scena) sono botte da sessanta ore con caterve di esercitazioni. Il Laboratorio del mistero, curato da Giorgia Tribuiani, non propone una formazione tecnica sulle «regole» del genere ma un’immersione nella letteratura occidentale attraverso le parole chiave del fantastico, del perturbante, del magico. Il Laboratorio del paesaggio, curato da Fiammetta Palpati, è una delle nostre attività più innovative, ed è più un viaggio di formazione umanistica attraverso il paesaggio che un mero laboratorio di scrittura. La verità è che lavoriamo come dei matti. Qualche giorno fa, nell’incontro di chiusura di un corso (un corso della serie Elementi, dedicato allo Scrivere in versi), la parola che gli allievi ci hanno consegnata come condensato del lavoro è stata: «abbondanza».
Non mi domando quali siano le aspettative della nostra clientela potenziale. Qualche anno fa, durante un convegno organizzato dal Circolo dei lettori di Torino e dedicato al tema dell’esordio, un giovanotto, dopo aver ascoltato uno due tre quattro editor dire ciascuno ciò che cercava nella nuova narrativa, e dopo aver sentito ovviamente uno due tre quattro discorsi ben diversi tra loro, ha domandato: «Ma, insomma, diteci che cosa dobbiamo scrivere per riuscire a pubblicare». Io stavo al tavolo dei relatori ed ebbi il più violento attacco di bile degli ultimi vent’anni. No, se l’aspettativa è di scrivere qualcosa che sia sic et simpliciter adatto alla pubblicazione, che possa passare agilmente per il setaccio dell’industria editoriale, è meglio che uno non venga da noi. La nostra offerta incontra le domande giuste se ci spieghiamo chiaramente; e cerchiamo di farlo.
Ci è capitato di avere allievi che avevano già frequentato altri corsi, anche piuttosto corposi, presso altre scuole. Qualche mese fa mi sono sentito dire: «In confronto la scuola Tale è un asilo d’infanzia». La Bottega di narrazione è una scuola per adulti.
Quanto alla domanda sottintesa, ovvero se sia possibile insegnare a uno speranzoso allievo come comporre un’opera letteraria degna, la risposta è in tre parti:
Uno, nessuno di noi insegnanti è nato imparato. Conserviamo memoria dei nostri percorsi formativi. Abbiamo avuto dei maestri (magari inconsapevoli, perché ci formavano attraverso i loro libri), delle occasioni, dei periodi di studio e applicazione forsennati, delle intuizioni, delle crisi.
Due, ci sono cose che si possono insegnare con una buona didattica e dosi congrue di esercizi: tutto ciò che è tecnica, per esempio. Ci sono altre cose alle quali si può guidare l’allievo attraverso una pedagogia. Per gli allievi non siamo solo degli esperti o dei praticoni: siamo dei modelli. Quando, in un gruppo, discutiamo il testo di un certo allievo, lui e gli altri allievi non apprendono solo una pratica di messa in discussione del proprio lavoro: si confrontano anche con un appassionamento, con una tensione morale, con un desiderio di bellezza.
Tre, non tutti gli allievi riescono. Può accadere che l’errore sia nostro, soprattutto nei corsi nei quali si entra per selezione. Può accadere, ancora, che l’errore sia nostro: siamo fallibili e imperfetti, come tutti. Il resto dipende dagli allievi stessi.
Come i suoi studenti si approcciano al desiderio di esordire e, più in generale, come guardano al mondo editoriale?
Non tutti i nostri corsi hanno lo scopo di accompagnare l’allievo alla creazione di un’opera finita. Alcuni, in particolare quelli che classifichiamo come Elementi, sono corsi di formazione iniziale; altri, gli Approfondimenti, sono frequentati per lo più da chi ha già frequentato altri corsi. Il «desiderio di esordire» appartiene soprattutto a chi frequenta i Laboratori annuali (ma va detto che talvolta si candidano agli Annuali persone che hanno già pubblicato, anche con editori non trascurabili). Noi cerchiamo persone che abbiano il desiderio di creare un’opera al massimo delle loro possibilità, non persone che abbiano fretta di esordire. Comunque, certo, il desiderio di pubblicare c’è; e noi cerchiamo anche di fare da tramite con le case editrici. Generalmente gli allievi hanno del mondo editoriale un’idea vaga e poco realistica; un riflesso dei discorsi, spesso molto retorici, che le case editrici fanno sul proprio conto. Manca una percezione storica precisa dei cambiamenti intervenuti nell’editoria negli ultimi cinquant’anni. Manca, spesso, anche una competenza seria sulla storia letteraria: tutti hanno letto Calvino, qualcuno ha letto Moravia o Morante, nessuno ha letto Sanguineti o Rosselli o Balestrini o Zanzotto. E infatti costringiamo tutti a leggere furiosamente (così come li costringiamo a prendere contatto con la musica contemporanea, con le arti visive contemporanee, col fumetto contemporaneo, con la danza contemporanea – traffichiamo poco col cinema, almeno per ora).
Cerchiamo di dare dell’editoria un’idea realistica.
Quale peso ha, nell’attività didattica, il momento della lettura? Quali opere si leggono?
Per tradizione apro ogni mio corso con queste raccomandazioni: rilettura mensile dei Promessi sposi, trimestrale del Furioso, quotidiana del Petrarca, da tenersi come livre de chevet. Gli allievi prima mi danno la baia, poi un po’ alla volta capiscono. In realtà non proponiamo, come fa Vanni Santoni (ne parla nel suo pamphlet La scrittura non si insegna, mimimum fax 2020), lunghissime liste di letture obbligatorie. Però una lezione o una discussione non finiscono senza il suggerimento di leggere una, due, tre opere letterarie che per una ragione o per un’altra potrebbero essere utili al lavoro di questo o quell’allievo. Non abbiamo dei «testi sacri». Per quel che mi riguarda obbligherei tutti gli allievi a leggere il Quinto Evangelio di Pomilio, il Coltivatore del Maryland di John Barth, La vita istruzioni per l’uso di Perec, il Giuoco dell’oca di Sanguineti, Super-Eliogabalo di Arbasino, e tanto per uscire dal contemporaneo Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo di Sterne, Tom Jones di Fielding, tutti e due i Don Chisciotte (quello di Cervantes e quello di Avellaneda) e qualche altra dozzina di romanzi, antiromanzi e nonromanzi: ma il percorso formativo mio non può essere un percorso formativo buono per chiunque. Mi sono reso conto che, nel complesso dell’attività della Bottega di narrazione, le opere che più frequentemente consiglio vanno a costituire una specie di canone letterario – che è in realtà un anticanone, o canone alternativo rispetto alla vulgata. Pochissimo Calvino (e magari La giornata di uno scrutatore o La speculazione edilizia piuttosto che il Calvino allegorico e combinatorio) e abbondanti Fenoglio e Volponi; poco o niente Moravia, molto Faulkner, il meglio di Robbe-Grillet, quasi mai Pasolini, zero Hemingway, proviamo con Hermann Broch e Peter Weiss eccetera eccetera. Le opere che consiglio sono spesso opere classificate come «sperimentali» o comunque opere – relativamente al loro tempo – innovative. Anche I promessi sposi fu a suo tempo un romanzo rivoluzionario, e in quanto tale – non in quanto classico monumentale – sollecitiamo a leggerlo (e insegniamo a leggerlo, of course).
Ovviamente ciascuno di noi insegnanti offre suggerimenti di lettura secondo le necessità degli allievi, ma anche secondo le proprie esperienze di lettura. Teniamo però molto a far leggere opere letterarie italiane. Non si può ragionare di scrittura (o, se preferite: di stile) se non ragionando sulla e nella propria lingua. Ovviamente non siamo isolazionisti. Da più di qualche anno i nuovi autori italiani guardano alla letteratura nordamericana con molta attenzione, mutuandone stili e modelli narrativi. Naturalmente va benissimo: dovunque ci sia da imparare è giusto prendere, rubare quel che serve. Ma un lettore formato prevalentemente sulla lettura di opere tradotte – ed è il caso più comune – e che sia privo di curiosità per i capolavori scritti nella propria lingua è secondo noi piuttosto a rischio, nel momento in cui si mette in testa di produrre letteratura.
Le parole-chiave della critica e i metodi della teoria letteraria vengono percepiti da chi insegna come strumenti di mediazione e di accesso al testo o come astrazioni non pertinenti a questa forma di insegnamento-apprendimento?
Sarebbe come chiedere a un medico se il trattato di anatomia è uno strumento di mediazione e di accesso al paziente o un’astrazione non pertinente. Per carità, so che siamo nel tempo in cui la competenza è criminalizzata, ma il nostro scopo non è aprire la letteratura come una scatoletta di tonno. Io non ho una formazione letteraria specifica – ho solo un diploma di liceo – ma ho studiato tanto: e studiare mi è servito. Ho anche avuto la fortuna di formarmi nel bel mezzo del poststrutturalismo, quando i furori – questi sì piuttosto astratti – di certa teoria letteraria si erano ormai un po’ placati, ma prima che si cominciasse a buttar via il bambino insieme all’acqua sporca. Tra gli insegnanti stabili della Bottega di narrazione abbiamo al momento cinque persone con un percorso di studi letterari (ma uno aveva cominciato con la matematica, due hanno lavorato nella comunicazione aziendale, una si è sempre occupata di marketing…), due filosofe-bibliotecarie, un informatico che oggi fa il traduttore letterario, un giornalista con una formazione storico-politica. Siamo portatori di un sapere ibridato.
La nuova, diffusa confidenza con la scrittura acquisita sui social ha contribuito a «desacralizzare» una pratica tradizionalmente riservata a fasce più ristrette. Quanto la «graforrea» (Antonelli) dei media alimenta l’espansione recente delle scuole di scrittura? Fra i bisogni intercettati, quanto è dovuto alla «cultura del narcisismo»?
La colpa, come sempre, è dell’obbligo scolastico. La grande espansione della produzione libraria è avvenuta tra la metà degli anni Ottanta e la fine del millennio (dai poco più di ventimila titoli del 1985 agli oltre cinquantamila del 2000). Ovviamente, da quando tutti sono stati costretti a imparare a leggere e scrivere, il numero di chi cerca di proporsi come scrittore è in costante aumento. L’assalto al cielo non è cominciato quando sono arrivati i social: era in corso da un pezzo, e anzi ormai aveva assai diminuito la sua forza propulsiva. Siamo tutti più istruiti, molti più di una volta sono colti, i consumi culturali sono in costante aumento e così pure la produzione culturale. Se il prezzo da pagare per questo è avere più persone che provano a fare letteratura, e quindi più persone che tentano e falliscono, mi sembra un ottimo prezzo. Poi, per carità, di Mozart o di Picasso ne nasce uno al secolo.
Nel 2002, quando lavoravo per Sironi, tra i primi libri facemmo Pubblico/Privato 0.1, di Giuseppe Caliceti, forse il primo libro in Italia a nascere sul web (ma Caliceti era uno scrittore, aveva già due romanzi alle spalle). Un libro con testi scritti per essere per la rete e poi raccolti l’ho messo fuori anch’io, nel 2009. Credo che i blog, i social, i siti di fanfiction, i siti per la condivisione di narrazione ecc. siano semplicemente dei luoghi per la scrittura. So che i luoghi di pubblicazione non sono innocenti: la tradizione novellistica italiana, per dire, si è sostenuta (e sostentata) fino a più o meno tutti gli anni Settanta del Novecento anche perché esistevano molti giornali e riviste che volentieri pubblicavano novelle; la struttura a capitoli dei romanzi ottocenteschi è derivata dall’uso di pubblicarli a fascicoli (e naturalmente ogni capitolo doveva concludersi con l’annuncio di un colpo di scena: un buon cliffhanger, come si dice barbaramente oggi); dei feuilleton non serve neanche parlare (ma ricordiamo che la pubblicazione dei feuilleton in volume imponeva spesso radicali riscritture, proprio per il cambio di formato); e così via. Uno dei primi siti italiani di autopubblicazione fu presentato, se non ricordo male, nel 2008, con questo slogan: «Se l’hai scritto, va stampato». La desacralizzazione la vedrei soprattutto lì.
Quanto all’espansione delle scuole, non saprei indicare una relazione precisa. C’è stato un momento, a metà degli anni Novanta, in cui ha cominciato a diffondersi l’idea che fare una buona opera letteraria fosse soprattutto una questione di tecnica. La tecnica necessita di scuole. Se poi la tecnica viene degradata a «trucchi del mestiere», si capisce anche come si possa aprire un mercato per corsi generici che durano poco, danno pochissimo, e costano una pipa di tabacco. Forse a cominciare è stata proprio la scuola pubblica. Pensiamo a quanto si parlò, nel lontanissimo 1986, dei Draghi locopei di Ersilia Zamponi, pubblicato da Einaudi. Pensiamo a quanti insegnanti entrati in ruolo attorno al Duemila hanno sudato, al liceo o all’università, su quel bellissimo e gigantesco strumento di studio – quasi un universo – che era Il materiale e l’immaginario di Remo Ceserani e Lidia De Federicis, pubblicato da Loescher. Insomma, cercherei di non comprimere nello spazio ristretto di questi ultimi anni dei fenomeni che forse si sono prodotti in un tempo più lungo. Anche la «cultura del narcisismo», in fondo, è roba degli anni Ottanta, coeva dell’edonismo reaganiano e di Quelli della notte.
Chi scrive oggi spesso si attiene al livello standard dell’«italiano digitato». In una scuola di scrittura quanto si lavora sulla lingua e sullo stile? Nei corsi che tiene lavora sui testi dei suoi studenti e come? Come cambia la cognizione di chi frequenta i corsi rispetto al fatto che la scrittura «non può insomma avere nulla di ingenuo o spontaneo ma deve essere il frutto di una consapevole ricerca stilistica» (Luigi Matt)?
Non vorrei che la premessa invertisse l’effetto con la causa: non sarà che chi scrive nei social ha per lo più come modelli linguistici dei romanzi (e dei giornali) scritti come sono scritti? Mi pare, per dire, che i fasti di Sveva Casati Modignani precedano nel tempo – di almeno vent’anni – quelli di Facebook. A me non sembra di aver che fare con una generazione di scriventi danneggiati dalla frequentazione dei social; a me sembra di aver che fare con una generazione di scriventi danneggiati dai romanzi midcult.
Ciò detto, una pratica d’insegnamento centrata sulla discussione ossessiva dei testi inevitabilmente dedica molto tempo e molto lavoro alla scrittura. Il principio fondamentale è: lo stile è una questione di scelta, e ogni scelta dev’essere consapevole. La composizione di un testo anche brevissimo impone continue scelte, e si può scegliere solo se si riesce a immaginare una quantità di alternative. Faccio qualche esempio banalissimo. «Laura lavora. Luigi dorme», «Laura lavora, Luigi dorme», «Laura lavora; Luigi dorme», «Laura lavora: Luigi dorme», «Laura lavora – Luigi dorme», «Laura lavora (Luigi dorme)», «Laura lavora… Luigi dorme», e per questa volta mi fermo qui. Ora immaginiamo di passare qualche ora a riflettere e discutere, in un piccolo gruppo, sulle differenze di senso che le diverse scelte di punteggiatura introducono. O ancora: prendiamo delle parole molto comuni, come «catino» e «camminare», e esploriamo i dizionari: il Battaglia, il Tommaseo-Bellini, il Treccani (si trovano in rete), il Tommaseo dei sinonimi, lo Zecchini sempre dei sinonimi, il Lessico dell’infima e corrotta italianità di Fanfani e Arlia («cammino» c’è, «catino» no), e poi i vari dizionari che tutti conoscono, lo Zingarelli, il Devoto-Oli, il De Mauro eccetera, senza dimenticare il Cortelazzo-Zolli etimologico, il Dizionario nomenclatore del Premoli, la Nomenclatura italiana figurata del Barbieri, il Vocabolario metodico domestico del Carena, e chi più ne ha più ne metta. Costruiamo le costellazioni di parole che emanano da «catino» e «camminare», organizziamole in un qualche tipo di mappa concettuale, esploriamo ovviamente tutti gli usi figurati che ci vengono in mente o a tiro, e se abbiamo tempo allarghiamoci a qualche esplorazione alle altre lingue neolatine e no. Una mattinata, lavorando sodo in gruppo, potrebbe bastare. Oppure, terzo e ultimo esempio: leggiamo una paginetta del Manzoni, per esempio l’incontro tra don Abbondio e i bravi (mettendo da parte l’excursus sulle gride); poi leggiamo qualche pagina da Partita di Antonio Porta e qualche pagina dal Planetario di Nathalie Sarraute, cerchiamo di capire come diavolo scrivono questi due qua (e perché), e proviamo a riscrivere al loro modo la paginetta manzoniana. E così via. Non si esce indenni, credo, da esercitazioni come queste.
Non abbiamo l’abitudine di accanirci sulla sistematica di tropi e figure, anche se ovviamente ci interessa che gli allievi ne imparino il senso e l’uso; ci interessa molto il lessico come «fatto di scelta» (Dal Bianco, Distratti dal silenzio, 2019) e ci interessa ancora di più quella cosa che chiamiamo «andatura» (dal titolo di un libro di Nanni Cagnone del 1979), ovvero quel che resta di corporale, fisico, gestuale, ritmico, improvvisativo, non riflesso, istintivo nella scrittura scritta – quel che resta dopo aver perduta del tutto la spontaneità.
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