Il “politicamente corretto”, l’università americana e il materialismo dialettico. Intervista a Mimmo Cangiano
Mimmo Cangiano è ricercatore in critica letteraria e letterature comparate presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Si è addottorato negli Stati Uniti, dove ha poi insegnato per molti anni. Ha da poco pubblicato sul blog Le parole e le cose quello che è, a mia conoscenza, l’intervento più completo, meditato, informato su quell’intrico di fenomeni che, propriamente e impropriamente, chiamiamo di volta in volta “politicamente corretto”, “cancel culture”, “cultura woke”, …, Etica, intellettuali e mercato al tempo delle culture wars, e che tra l’altro è solo l’ultimo di una serie di suoi articoli sul tema pubblicati su quel blog. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a capire fenomeni che, ben oltre le semplificazioni massmediatiche, sono in verità estremamente complessi. Lo ringraziamo per aver accettato di rispondere alle nostre domande.
Intervista a cura di Daniele Lo Vetere
DLV: In Italia solo negli ultimi tempi, direi meno di dieci anni, abbiamo assistito a un’accelerazione evidente nella diffusione di un dibattito che negli Stati Uniti è annoso, con i social network a fare da catalizzatori e superdiffusori: dalle polemiche italiane sullo schwa e sulla statua della Spigolatrice di Sapri, alle polemiche vecchie e nuove importate (a volte in forma distorta) dagli Usa sulle versioni emendate di Huckleberry Finn e della Capanna dello zio Tom, sulla lettera di 150 intellettuali pubblicata dalla rivista Harper’s intorno alla cosiddetta “cancel culture”, sull’accusa di “appropriazione culturale” mossa alla traduttrice olandese – bianca – della poetessa afroamericana Amanda Gorman.
Le reazioni più superficiali, ma maggioritarie, si attestano tra due poli opposti: quelle di una destra che adotta la postura della vittima (“non si può più dire niente”) e quelle di una sinistra che derubrica il tutto a complotto della destra per impedire che si parli di razzismo, sessismo, colonialismo, omofobia. Certamente questo livello di polemica politico-giornalistica strumentale esiste, anzi non va sottovalutato; tuttavia fermarsi ad esso impedisce di capire l’effettiva posta in gioco di questo intreccio di questioni.
Proviamo innanzitutto a capire qualcosa di più del mondo americano, perché spesso a noi italiani manca la conoscenza del contesto culturale in cui questi problemi maturano. È corretto dire che l’accademia americana non è che una piccola isola di “politicamente corretto” (virgolette fortissime, qui) entro un paese reale, dove, al contrario, la violenza in generale e il razzismo strutturale sono endemici? La radice materiale di quelli che poi diventano dibattiti culturali è la spaventosa ingiustizia sociale nel paese?
MC: Comincerei dicendo che il livello che tu chiami della “polemica politico-giornalistica” è fondamentale, perché è il livello della socializzazione di queste idee. In tale livello, benché il dibattito sia là certo più banale (e più polarizzato), si misura e si crea l’effettiva egemonia tanto di questa nuova posizione politico-culturale quanto delle reazioni a questa. Mi spiego meglio: esiste un rapporto dialettico fra il piano accademico di produzione e raffinamento di queste idee e il piano della loro socializzazione (in tv, sui social, ecc.). Il piano accademico influenza certo il dibattito sui media, ma è vero anche il contrario: le diverse posizioni accademiche e intellettuali traggono forza (e debolezza) da quanto avviene sul piano della socializzazione. Il problema però è anche che, nell’epoca delle “bolle” e dell’algoritmo, le nostre percezioni dei rapporti egemonici sono un po’ falsate, e ciò forse può contribuire a spiegare quel donchisciottismo (noi in lotta contro il mondo che va in un’altra direzione) che emana sia dalla sinistra woke che dalla destra che se ne sente vittima. Naturalmente tale problema si crea anche perché esiste una chiarissima distanza fra egemonia accademico/culturale e egemonia reale.
La tua domanda vera e propria ci introduce al rovescio speculare di quanto ho appena detto. In un’epoca in cui avvertiamo (più o meno oscuramente) che la politica non è più fatta dalle masse e dalle azioni materiali (dalla prassi) di queste, possiamo cominciare a “tollerare” lo scollamento fra produzione delle idee e piano della loro reale socializzazione, cominciando a pensare che si possa cambiare il mondo a colpi di idee e di battaglie culturali. Il problema centrale, ormai endemico, è che la sinistra non è mai stata così tanto anti-materialista, e ciò è particolarmente ironico se pensiamo, come io credo, che questa sua svolta anti-materialista sia dovuta a condizioni eminentemente materiali, vale a dire alla trasformazione del modo di intendere la prassi politica che segue all’instaurazione del post-fordismo.
Inoltre la mancata riflessione sul rapporto dialettico fra piano della produzione delle idee e piano della loro socializzazione (fuori dalle “bolle” dei social), inevitabilmente incancrenisce la lotta proprio lasciandola sul mero piano “culturalista”, e crea quei fenomeni di irrigidimento moralistico che ormai conosciamo bene anche in Italia. La politica lascia il posto all’etica, e questa spesso si riduce a un atteggiamento di accusa verso chi non è (o non è abbastanza) woke. In ultimo, essendo naturalmente la destra contraria a questi temi, ed essendo la gran parte della società completamente inconsapevole di questi dibatti, tale rigidezza etica finisce per avventarsi anzitutto verso settori di quella sinistra consapevole che però non condividono, o non condividono in toto, i presupposti del discorso woke (basterebbe vedere le ridicole accuse a Marta Fana, sui social, qualche settimana fa).[i] Ciò, inevitabilmente, contribuisce alla nostra balcanizzazione.
Credo dunque sì che la radice materiale dei dibattiti culturali sia l’ingiustizia sociale, ma credo anche che molti di questi dibattiti, finché restano nella pura attitudine culturalista, non siano necessariamente un freno all’ingiustizia, ma, anche, un lavacro sociale che permette a settori della società assolutamente complici col sistema economico vigente, di considerarsi “rivoluzionari” in virtù di una maggiore comprensione degli eventi e di un’attitudine sì progressista, ma solo sul piano etico-culturale.
DLV: Concentriamoci sull’università americana e sulla vita sociale nei campus. Che cosa sono le identity politics? È davvero così facile essere accusati di razzismo, sessismo, omofobia in modo strumentale, come leggiamo a volte in notizie sulla vita universitaria americana? Davvero la libertà di parola, quel free speech così centrale nella vita intellettuale e accademica americana, è a rischio? È possibile distinguere quanto di allarmistico c’è in queste notizie da un nucleo di fondata verità?
MC: Le identity politics sono tutto ciò che concerne un modo di intendere l’azione politico-culturale a partire dall’identità di un soggetto collettivo; identità che può formarsi a partire da specificità di genere, di razza, di orientamento sessuale, ecc. La loro introduzione nel dibattito americano corrisponde alla necessità di narrativizzare specifiche forme di oppressione, vale a dire specifici modi di dominio che si sono prodotti a partire da rapporti di forza identitari fra un “centro” spacciato come universale (il maschio bianco cisgender di origine europea) e un “margine” la cui definizione (siamo chiaramente con Foucault) viene intesa come subalterna e “eccedente” rispetto al “centro” stesso. Hanno sicuramente avuto il merito importante di sottolineare molteplici forme di prevaricazione, d’altro canto comportano un paio di problemi non di poco conto. Da un lato rischiano spesso (soprattutto nelle loro numerose varianti dichiaratamente liberal, come il femminismo dell’empowerment) di omogenizzare il soggetto subalterno (e infatti hanno grossi problemi poi a spiegare perché determinati settori sociali votino, ad esempio, per Trump); dall’altro, ed è anche più importante, rischiano spesso di trasformare la dialettica sfruttatori-sfruttati nella dialettica oppressori-oppressi. Questo spostamento semantico comporta due perniciosi corollari: 1) si perde di vista il ruolo centrale (e non marginale) dello sfruttato sul piano del mantenimento del sistema economico vigente; 2) si comincia a mitizzare la categoria della “vittima” in quanto tale, invece che in quanto funzionale alla prosperità dello stesso sistema economico. Alla base di tale andazzo culturale vi è secondo me, come sempre, il declino della capacità di lettura dialettica.
Ci sono stati episodi preoccupanti nei campus, riportati dai media o da alcuni libri. Ma bisogna evitare di interpretarli a partire da una reazione liberale alla woke, al politically correct, alla cancel culture, che non è la mia. Spesso queste critiche si arenano all’o tempora, o mores!, posizionamento che, su questo mi allineo con la woke, nasconde un vecchio privilegio. Il lamento sui danni del politically correct nasconde inoltre lo stesso culturalismo che troviamo in molti settori della woke culture. Spesso è una lotta, voglio dire, fra due attitudini liberali: una più antica, in cui i vantaggi del liberalismo sono appannaggio solo di alcuni settori della popolazione, una più recente che si batte per la partecipazione di tutti. Ma partecipazione poi a cosa? Temo al mercato.
Abbiamo certo visto esempi in cui le accuse sono diventate puramente strumentali e in cui la libertà di parola è stata soppressa, ma questa non è certo la prassi. La gran parte degli studenti americani, anche quelli di sinistra o che si auto-definiscono woke, mantiene un atteggiamento razionale. Problemi si creano sicuramente, non solo per gli studenti, a livello di auto-censura: se ogni narrazione alternativa diventa una narrazione di destra (e molto spesso non lo è), è chiaro che molti preferiscono il nicodemismo. Diversi sono i discorsi per dottorandi e professori. Fra i dottorandi la woke è molto più diffusa, almeno in area umanistica, che fra gli studenti, e qui un certo fanatismo è reale (la gente come sempre preferisce stare in maggioranza). I docenti sono ovviamente più scafati. Qua, a sinistra, si creano diverse reazioni: quelli che cominciano a crederci sul serio, quelli che decidono di sfruttare l’andazzo (l’accademia è il solito “mare di conformismo”, Louis Menand), quelli che provano a ragionarci. Va aggiunto un altro punto che pare banale ma forse non lo è: i fondamenti teorici della woke culture non solo permeano certi settori della nostra società e dunque li abbiamo ogni giorno sottomano, ma sono anche incredibilmente facili da apprendere e rilanciare. Essenzialismo, universalismo, bio-potere, micro-aggressions, ecc. sono concetti estremamente semplici e di cui qualunque accademico può appropriarsi con pochissimo sforzo (il vecchio materialismo storico richiedeva ben altro impegno). In un sistema universitario che attacca costantemente il “tempo” dei docenti con burocrazia, scartoffie, amministrazione, ecc., un sistema teorico-politico di tale semplicità ben si presta a diventare maggioritario anche per queste banali ragioni.
DLV: Puoi spiegarci anche che cosa siano i trigger warning e i safe space?
Trigger warning e safe space sono due concetti contigui a quello di “vittima”. Il safe space, istituzione creata ai tempi della leva militare obbligatoria per il Vietnam, indica uno spazio in un cui la vittima (o la vittima potenziale) sarebbe al riparo dall’azione dei soggetti dominanti. È uno strumento che può certo avere importanti ricadute sul piano pratico, ma dall’altro lato presuppone l’idea che possano esistere spazi “safe”, o “liberati” come si tende a dire in Italia, all’interno di un sistema (di una totalità) fondata sullo sfruttamento e sull’oppressione. Personalmente, potrei sbagliarmi, credo sia un concetto ormai viziato da un pesante infantilismo e soprattutto molto affine a quel proposito di mantenimento del comfort psicologico che è una delle direttive sintomatiche del capitalismo contemporaneo in occidente.
I trigger warning sono le avvertenze che un docente deve fare quando sta per trattare, in classe, un argomento che potrebbe portare uno studente a rivivere un trauma o, più in generale, a vivere una situazione di discomfort (e se si pensa alla possibilità di non seguire per questo una lezione, ad esempio, sulla Shoah, si comprendono bene le problematicità che emergono). Quelli che erano strumenti di protezione dei subalterni o più in generale degli oppressi, si sono trasformati in strumenti di controllo (spesso imposti da un’amministrazione accademica per il resto assolutamente liberista) finalizzati a tenere a bada possibili esplosioni di conflitti.
DLV: Ci racconti i due “affaire” Rachel Dolezal e Peter Boghossian?
MC: Dolezal è una donna bianca del Mid-West che ha finto per molti anni, mediante un complesso make-up, di essere afro-americana, raggiungendo un certo status tanto nel mondo culturale quanto in quello dell’attivismo. Sono casi che stanno diventando via via più comuni (e che l’attivismo woke punisce severamente). È estremamente interessante, ovviamente, questo desiderio dei bianchi di calarsi nella condizione subaltern. Lo si può leggere, credo, in due modi. Da un lato bieco sfruttamento di un mercato culturale che garantisce un surplus di capitale simbolico a certe identità (lo stesso avviene, come è sempre stato, a livello dei topics di ricerca). Dall’altro lato abbiamo chiaramente a che fare con fenomeni di tipo socio-patologico affini al narcisismo: il bianco che avverte la propria identità come non-speciale, facile preda della massificazione, e così risponde. Terrificante.
Poi ovviamente la questione ha vari livelli perché, una volta scoperta, Dolezal ha affermato di “identificarsi come afro-americana” (una mossa trans-razziale che, a differenza di quelle trans-genere – forse perché più legata a un discorso di classe, è ancora vista con estremo sospetto), riportando di fatto la questione al livello della scelta individuale. Ciò ha creato qualche scompiglio fra quei teorici identitari che guardano al concetto di “performatività” (e dimenticano, povera Butler, che questa è sempre in relazione alle norme sociali vigenti), ma mi pare chiaro che questa affermazione di Dolezal ha solo svelato il fondo di individualismo liberale e libertario che è legato a talune frange di questa cultura.
Boghossian è tutta un’altra storia. Con altri due studiosi, Helen Pluckrose e James Lindsay (tutti e tre di estrazione politica democratica: potremmo piazzarli fra il centro e la destra del Partito Democratico americano), ha scritto una serie di articoli surreali e basati su dati fasulli, però perfettamente allineati a un certo mainstream woke (per esempio sulla “cultura dello stupro” nei cani al parco). Lo scopo era vedere se articoli del genere sarebbero stati pubblicati appunto solo perché affini a un certo discorso mainstream. Ebbene, un buon numero di questi è stato effettivamente pubblicato (e non su riviste di basso livello). Naturalmente la reazione non si è fatta attendere, anche perché l’operazione non colpiva solo la woke ma anche il corporativismo accademico. La storia è finita peggio di come io mi aspettassi. Boghossian in pratica è stato forzato alle dimissioni nella sua università perché avrebbe dovuto sostenere l’accusa di aver fatto esperimenti su soggetti umani senza il loro consenso (cioè aveva dato dei saggi da leggere senza dir prima loro che erano falsi). L’accusa che tutto ciò avrebbe portato acqua al mulino di coloro che vogliono legittimare l’attacco all’accademia (e in particolare alla sua componente di sinistra) è stato forse l’aspetto più triste dell’intera vicenda. Direi che in questo caso l’accademia si era abbondantemente screditata da sola.
DLV: Veniamo ai curricoli di studio e alla questione del canone culturale. La madre di tutte le guerre culturali è stato l’acceso dibattito intorno al canone occidentale innescato da Harold Bloom con l’omonimo libro (The Western Canon, 1994), nel quale il critico se la prendeva con quella che aveva battezzato “cultura del risentimento”, che trasformava, secondo lui, i grandi autori della letteratura occidentale in una teoria di maschi, bianchi, etero, morti, da sottoporre a critica. Esiste davvero questa cultura o era solo un’etichetta malevola e polemica del platonico e conservatore Bloom?
MC: A mio giudizio l’espressione “cultura del risentimento” è semplicemente una delle etichette date dalla destra accademica a una woke allora in formazione.
Aggiungo che il termine woke (o wokeness) per quanto impreciso – non tutti gli esponenti di tale cultura guardano ad esempio con simpatia al politically correct o alla cancel culture – ci ha permesso di narrativizzare meglio quella certa area di famiglia presente in certa sinistra prima americana e ora anche europea.
DLV: Ci spieghi che cosa sono i cultural studies (e tutte le loro filiazioni)? Forse per qualcuno la domanda è superflua, ma in effetti, solo oggi essi cominciano a diffondersi anche nell’università italiana (le scuole superiori non sono ancora coinvolte, ma credo che lo saranno presto) e non tutti abbiamo le idee chiare al riguardo.
MC: Nati all’interno del marxismo inglese, i cultural studies sono in origine lo studio “serio” della cultura popolare, vale a dire l’idea che la cultura popolare fosse degna degli sforzi di comprensione accademici in quanto portatrice, al pari della cultura “alta” delle stesse direttive culturali che provengono dal sistema economico vigente (il nesso struttura-sovrastruttura), quanto delle specificità culturali e di vita delle classi popolari. Negli anni questi studi hanno progressivamente abbandonato il lavoro sulla working class per focalizzarsi su altre cose.
Per dirla in due parole, vediamo nella versione americana dei cultural studies lo stesso problema di fondo rintracciabile anche nella woke. Le espressioni culturali sono ormai analizzate sempre sullo sfondo di un’attitudine ideologica capitalista che si immagina, sempre, alleata con le attitudini sessiste, razziste, universaliste, ecc. Si è persa di vista la capacità del capitalismo di allearsi anche, quando utile al profitto, alle attitudini culturali di segno opposto. Questo è appunto il “culturalismo”: la possibilità di incentrare la lotta su elementi culturali in quanto questi, quando universalisti, sessisti, razzisti, ecc., sarebbero sempre parte delle movenze ideologiche del capitalismo. Ciò porta a perdere di vista gli aspetti più materialistici del capitalismo stesso e la sua capacità di giocare, ideologicamente e culturalmente, su tavoli diversi.
Per capirci meglio si potrebbe fare, da noi, l’esempio delle analisi su Achille Lauro. Dopo la sua performance a Sanremo alcuni intellettuali hanno cominciato a scrivere cose come “Achille Lauro rifiuta il nocciolo dell’episteme borghese mentre mina le costruzioni capitalistiche e, meta-testualmente, pone in crisi il patriarcato”. Ecco, Achille Lauro in un certo senso fa davvero tutte quelle cose, ma se dal giudizio sul suo lavoro scompare il ruolo dell’industria culturale, il ruolo del mercato con la sua “straordinaria capacità di assorbire ciò che gli è negativo”, il capitalismo dell’intrattenimento, ecc., ecco che la dimensione simbolico-culturale si mangia tutta l’analisi, e un veloce colpo di mano fa sparire denaro e materia dal quadro. Ciò che allora non comprendiamo più, ciò che non vediamo più, è la capacità del mercato di saper giocare appunto su più tavoli al solo scopo di generare profitto, e restiamo con l’idea – posizione di comodo degli intellettuali – che la lotta simbolico-culturale sia in fondo abbastanza, senza comprendere più che, se necessario al profitto, il capitale sa spogliarsi delle sue direttive, patriarcali, etero-normative, fasciste, ecc. Come diceva quello là “un capitalista è uno che vi vende la corda con cui impiccarlo”.
DLV: Come sono organizzati i curricoli di studio delle facoltà umanistiche americane? Rispetto ai curricoli universitari italiani e ai piani di studio di uno studente italiano, quali sono le differenze principali?
MC: La differenza principale è che per i primi due anni lo studente segue corsi in praticamente ogni disciplina. Solo negli ultimi due anni di studio comincia a dedicarsi all’area (o alle aree) di specializzazione scelta. Al di là dei rimbrotti sulla minore preparazione dello studente medio americano rispetto a quello europeo, ciò sicuramente va a sfavore delle discipline umanistiche: uno studente al terzo anno, molto più vicino ormai al mondo del lavoro, tende a scegliere una disciplina che, crede, gli garantirà un più facile accesso a quello.
DLV: La logica di personalizzazione e liberalizzazione che regge i curricoli e i piani di studio dell’università americana sta davvero favorendo la balcanizzazione degli studenti, per cui gli studenti neri seguono corsi su scrittori neri, le studentesse sulle scrittrici, le persone omosessuali sugli scrittori omosessuali, o è un’esagerazione? Il rischio che un canone culturale condiviso sia ormai impossibile esiste? In un tuo intervento (Non incoraggiate la pedagogia) hai scritto che «La frammentazione della conoscenza (il tramonto dei programmi di studio condivisi) potrebbe non essere dunque educazione al libero sviluppo dell’individualità, ma più sinistramente incitamento al libero sviluppo dell’individualità come educazione all’atomizzazione culturale, e dunque anche sociale».
MC: È un’esagerazione, ma non vuol dire che non ci sia del vero. Però se permetti ti rispondo così: il marxismo, in particolare nella sua variante gramsciana e lukacsiana, riteneva che l’avvento della società comunista non avrebbe posto una pietra tombale sulla cultura borghese (non l’avrebbe cancellata), ma che anzi quella, modificata e materializzata dal contatto dialettico con le masse, sarebbe diventata qualcosa di nuovo. La Woke, che tende invece a rifiutare la dialettica, riesce a rispondere solo mettendo una pietra (cancellando) la cultura precedente (è qualcosa di affine a quella mancata mediazione politica che si sviluppa in etica moralista di cui dicevamo all’inizio). Personalmente non ho alcun problema a balcanizzare la società, ma vorrei balcanizzarla verso una sua ricostruzione priva di sfruttamento.
DLV: Di recente sono rimasto molto colpito da un’affermazione di Porpora Marcasciano, presidente del Movimento di identità trans. Marcasciano è una leader storica delle battaglie per il riconoscimento delle persone transessuali; tuttavia appartiene all’attivismo degli anni Settanta e dichiarava perciò di non riuscire a seguire fino in fondo il dibattito attuale entro i movimenti LGBTQIA («Micromega» 4 2021). Chissà che lo spiazzamento di Marcasciano non dipenda fortemente da quella “svolta culturalista” diventata egemone con la versione americana dei cultural studies di cui parlavi, svolta che certo non ha materialmente prodotto i dibatti attuali (ricadremmo nel culturalismo), ma gli ha quanto meno fornito categorie e lessico: l’obiettivo è sempre quello di smascherare la storica, e inconscia, struttura di dominio (es. nel dibattito sullo schwa, il dominio del maschile grammaticale). Che cos’è la French theory (oggi anzi si parla di Theory senza più bisogno di aggettivi)? Quali sono le correnti della filosofia e della critica letteraria che hanno contribuito a crearla?
MC: Comincio dicendo che sono d’accordissimo con la tua precisazione. Non sono gli accademici ad aver creato tutto ciò, ma sono gli accademici che, non prendendo più in considerazione la dialettica fra materiale e culturale, non riescono più a riconoscersi non solo in quanto produttori di idee e ideologie, ma anche in quanto sintomi di determinati rapporti materiali e relazionali. Sulla stessa linea era infatti inevitabile che quel dibattito arrivasse anche da noi, alla periferia dell’impero.
Aggiungerei che la così detta French Theory è l’uso strumentale di una serie di teorie (a partire dalla decostruzione) che erano nate appunto per essere completamente anti-strumentali. Da lì viene l’idea che il capitalismo si esprima, culturalmente e ideologicamente, sempre in una direzione monologico-universalista (razzista, sessista, sciovinista, ecc.).
DLV: Fermo restando che l’apertura del canone alle voci di quanti sono stati messi in ombra o totalmente rimossi è assolutamente giusta e auspicabile ed è una questione che dovremmo affrontare anche in Italia, come andrebbe impostata questa revisione perché non finisca per riprodurre anche da noi quelle stesse guerre culturali che imperversano negli Stati Uniti?
MC: Temo il processo sia inevitabile. Politica, istituzioni (pensa alle recenti leggi sulle competenze non-cognitive a scuola) lo stanno preparando. Pensare di evitarlo significa sognare, come fanno alcuni studiosi post-coloniali, che esista un mondo che non condivide le direttive ideologiche del capitalismo. Ancora mancanza di dialettica: i marxisti sapevano bene che, anche in quanti soggetti rivoluzionari, le nostre direttive mentali (e in fondo il marxismo medesimo) erano un prodotto del capitalismo. Quello che dobbiamo fare non è rifiutare la woke, ma è provare a materializzarla, cioè a portare quelle lotte fuori dall’orizzonte culturalista. Per fare ciò è necessario ricominciare a comprendere il capitalismo anzitutto come azione materiale, ma purtroppo ormai gli intellettuali riescono a ragione solo di simboli, e di conseguenza si sono auto-convinti che i simboli (cioè le attitudini culturali) siano la cosa più importante, e che siano addirittura il centro del capitalismo stesso. Sarebbe interessante fare i conti e vedere quanti post/articoli gli intellettuali hanno scritto sulle “Abissine rigate” della pasta Molisana e quanti sul dibattito recente per una legge sulle delocalizzazioni o sui recenti dati INPS sul mercato del lavoro.
[i] Le polemiche intorno al post su Facebook (23 novembre 2021) dell’economista Marta Fana, con il quale denunciava l’ipocrisia dell’Università di Leicester, che offriva “inclusione”, con un apposito “toolkit”, agli studenti costretti a prostituirsi per potersi permettere gli studi. [ndr]
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