Su Di chi è la colpa di Alessandro Piperno
E gli altri? Oh, gli altri erano lì per bellezza: come cactus nei film western.
In quanto a me, da bravo animaletto incapace di concepire mondi alternativi alla gabbia in cui da sempre vive recluso, non avevo ragione di dubitare che l’universo si riducesse a questo: io, lui, lei e le vecchie care sbarre che rendevano inesorabile la detenzione e così struggenti i panorami.
Ci pensò la scuola a minare l’integrità di quell’autarchia originaria: per quanto strano sembrasse, le vite dei miei compagni, persino i più insulsi, brulicavano di nonni, fratelli, romantiche cuginette.
Fu così che iniziai a dubitare dei vantaggi dell’autosufficienza, e a pormi in proposito parecchie domande impertinenti: tipo, che ne era stato di tutti quanti? Che diavolo di fine avevano fatto?
Da come la mettevano i miei – o meglio, da come perlopiù evitavano di metterla – la nostra schiatta poteva essersi estinta da milioni di anni. Il che se non altro spiegava perché mio padre maneggiasse i ricordi d’infanzia con la circospezione che i paleontologi riservano a fossili riemersi da un passato preistorico; e perché mia madre agisse come chi un’infanzia, una storia non ce li avesse nemmeno.
(Alessandro Piperno, Di chi è la colpa, Mondadori 2021, p.11)
A portrait of the artist as a young man
Il bravo animaletto incapace (protagonista dell’ultimo romanzo di Alessandro Piperno), divenuto adulto (e scrittore), racconta in prima persona, «nel solo libro che fossi davvero destinato a scrivere», la sua vicenda di déraciné («un bel modo di definire i bastardi, gli individui senza storia e senza patria»): «Ecco cos’ero: un esperimento fallito, grazie al cielo irreplicabile; in altre parole, il frutto avariato di quel genere di interazioni genetiche che una società sana dovrebbe proibire». (p.399). La infelice interazione genetica in questione è quella tra una donna colta, severa, raffinata, irreprensibile professoressa di matematica in un liceo, e un uomo trasandato e trasognato, imprenditore fallito, piazzista di elettrodomestici scadenti. Vivono in un modesto appartamento alla periferia di Roma. Lei propina al figlio buona educazione e buone letture, lui un po’ di allegria e un po’ di rock âgé. Di entrambi – a parte il fatto che litigano e che litigano perché sono perennemente senza soldi, inseguiti dalle rate, dai creditori, dalle cambiali – il figlio sa a lungo molto poco, e solo quello che vede. Così descrive il padre:
Per un bambino è importante che il padre abbia una certa stazza: il mio era un colosso. Florido, barbuto, biondissimo, più Thor che Mangiafuoco (…). Eppure, a fronte di due spalle così, tutto in lui era placido, a cominciare dagli occhi. (…) E visto che affidabilità e senso della misura (virtù genitoriali di cui era desolatamente sprovvisto) non godono di alcun credito presso un bambino – i cui investimenti affettivi sono assai più romantici di quelli caldeggiati dalla psicologia progressista – posso dire che lui fosse il miglior padre che potessi immaginare. (…) Dopotutto apparteneva alla generazione di maschi occidentali che, raggiunta la consapevolezza virile nel secondo dopoguerra, avevano visto nella motorizzazione di massa un simbolo di rinnovamento, fin quasi a farne una raison d’ětre. (…) per un uomo orgoglioso come mio padre non doveva essere facile accettare l’idea di non riuscire ad assicurarmi il tenore di vita agiato che a suo tempo il suo aveva regalato a lui. (…) Nei confronti di tutto il resto – distinzione sociale, privilegi di classe, agiate abitudini borghesi – esibiva una discreta ripugnanza. Si professava marxista… (pp. 26-29)
Così la madre:
Del resto, benché in modo affatto diverso, quasi speculare a quello di mio padre, anche lei coltivava costose forme di megalomania borghese. Se lui auspicava per il suo erede un futuro da artista, lei si era intestata, se così si può dire, i dicasteri formativi: Salute, Igiene e Istruzione. E guarda caso i quattrini per soddisfare tali ossessioni riusciva sempre a trovarli. (…) Benché considerasse l’insegnamento un ripiego, aveva una fiducia esagerata nella formazione. Coltivava l’illusione che sapere tante cose decuplicasse le possibilità di scelta rendendo gli individui migliori. (…) La cosa più seccante è che, sebbene si fosse istaurata tra noi una sorta di complicità intellettuale (ammesso che si possa considerare tale il sodalizio tra un’adulta e un bambino) nutrita dalle mie letture a voce alta del giornale, contrappuntate dalle dalla mia curiosità e dalle sue spiegazioni, non fu mai in grado di smantellare quella barriera di omertà dietro la quale si nascondeva, e che ancora oggi mi opprime come una cappa. Era come se con lei fosse impossibile, se non addirittura proibita, l’intimità… (pp.56-58).
Nella barriera di omertà si apre improvvisamente una breccia una mattina d’aprile, quando il narratore, ormai ginnasiale, si ritrova invitato con i genitori a un Seder di Pesah nell’elegantissima palazzina romana dei Sacerdoti, una ricca, notabile e variegata famiglia ebrea: la famiglia d’origine della madre; la quale, rimasta orfana ragazzina in circostanze drammatiche, è stata cresciuta lì, negli agi e nel culto inossidabile dell’ebraismo, del sapere e del clan, fino al gesto clamoroso della sua fuga con «il cananeo» spiantato (p.110), con annesso rifiuto di sposare l’innamoratissimo e solidissimo fidanzato ebreo. Inutile dire quanto sia dirompente per the artist ancora young man (il lettore ne ignora il nome fino alla fine) l’incontro con la famiglia Sacerdoti in ognuna delle sue componenti, dai cugini agli zii: nel momento stesso in cui se ne sente «escluso per mano di un classismo sguaiato e disdicevole» (p.107), troppo forte è la seduzione inedita di appartenervi:
Eppure non fu l’invidia a travolgermi, non subito almeno; ma un impulso decisamente più benigno, venato di rimpianti e nostalgie. Come se questa franca esibizione di benessere e bellezza mi avesse acceso qualcosa: e non parlo mica dell’orgoglio suscitato dal diritto patrimoniale, ma d’un nascente brivido di appartenenza. (p.85)
Il brivido si trasforma in tormentata pulsione quando, per una serie di circostanze più o meno fortuite, lo zio Gianni Sacerdoti – barone universitario, principe del foro, scapolo impenitente e indiscusso capoclan («di tutte le persone conosciute in vita mia, poche meritano una descrizione dettagliata come Gianni Sacerdoti», ci informa la voce narrante a p.88; ma qui purtroppo siamo costretti a ometterla) – decide di portare con sé in vacanza a New York, insieme agli altri nipoti, anche «il figlio del cananeo». E mentre tra Manhattan e Central Park si sviluppano un paio di capitoli del suo personalissimo romanzo di formazione, inclusivo di educazione sentimentale (maestra l’inquieta e affascinante cugina Francesca, che resterà l’amore della sua vita), a Roma si consumano le ultime battute della tormentata vicenda coniugale dei genitori: al rientro dagli Stati Uniti, il ragazzo non trova a casa il padre, che la madre ha messo alla porta. È costretto pertanto a incontrarlo in un bar, dove l’uomo si presenta rigurgitante alcool e risentimento; purtroppo la stessa condizione in cui lo trovano gli inquirenti il mattino successivo, quando, dopo l’ennesima violenta lite, il corpo della moglie viene rinvenuto esanime sul selciato sotto casa. Con rapidità sospetta, l’uomo viene condannato per omicidio e il ragazzo affidato allo zio Gianni, che ne diventa il tutore e lo porta a vivere con sé, imponendogli, a mo’ di tutela, il cambio del cognome. «Le nuove generalità mi trasformarono dalla mattina alla sera nell’eroe di un romanzo vittoriano, e quindi nel più losco degli impostori» (p.291), ci dice il narratore, e la sua vita sembra adeguarsi con cinica docilità ai privilegi del rango, fino al fatale svelamento dell’impostura, ad opera di un compagno che, se non ha la statura di Iago, pare comunque uscito da «una pièce elisabettiana» (p.406). Segue riapertura del processo del padre, ma il lettore non vi assiste; fa però in tempo a vederne la sepoltura, molti anni dopo, e ad ascoltare l’ultima conversazione of the artist, decisamente non più young, con la sua amata di sempre.
Dialogo di un islandese con se’
Dichiaro subito quello che non scriverò:
non scriverò di tutti i possibili prestiti e debiti letterari, di tutte le possibili sintonie e affinità elettive dell’autore, da George Eliot a Shakespeare, da Dickens a Proust, da Dostoevskj a Tolstoj, sia perché lo stesso autore, per mano del suo narratore, non ne fa mistero, anzi dissemina abbondanti indizi (e bisognerebbe, per ognuno, aprire almeno un capoverso dedicato), sia perché – debiti o sintonie che siano –, se della narrazione accrescono l’interesse o il fascino, non ne determinano il valore, che risiede ovviamente altrove. Mi limiterò a osservare tuttavia che questo sostrato letterario c’è, ed è robusto, importante, e in qualche modo strutturante, nel senso che il lettore assiste alla costruzione di un edificio narrativo forte, saldo, affidabile, riconoscibile: verrebbe da scrivere, comme il faut;
non scriverò dello stile di vita ebreo-romano che imprime anche a questo romanzo di Piperno, come già a quello del suo felice esordio (Con le peggiori intenzioni, 2005), movenze raffinate, sinuose: ci ha già pensato Antonio D’Orrico sul Corriere e in toni talmente esaltanti (“romanzo sublime”) da supporre egli stesso di suscitare qualche imbarazzo nell’autore;
non scriverò dell’anacronistico privilegio di classe intorno a cui s’avvita una “parte del libro difficilmente traducibile nelle culture dei Paesi occidentali, dove il capitalismo ha significato mobilità sociale, a differenza dell’Italia”: basteranno queste asciutte parole apparse su L’Espresso (03.10.2021) a firma di Wlodek Goldkorn; al quale bisogna altresì riconoscere di aver fornito, in mezzo a tante entusiastiche recensioni, l’indicazione di lettura forse più utile: “un’opera che al di là delle parole e quasi fuori dal testo tratta le cose prime e ultime di ciascuno di noi”: l’identità, l’angoscia della morte, l’irreversibilità del destino.
Ma è il punto di osservazione scelto dal narratore a rendere speciali in questo romanzo “le cose prime e ultime di ciascuno di noi”; ed è di questo che brevemente scriverò.
Per quanto tenacemente negandosi il profilo romantico dell’eroe e rintuzzandolo da subito sotto l’aspetto inconfondibile di «un gran bell’esemplare di cacasotto» (p.13), l’artista si ritrae da giovane con tratti che lo fanno sembrare la caricatura dolorosa dell’islandese leopardiano, in giro per il mondo per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire:
Per un po’, protetto dalla discrezione dei vili (…), mi ero illuso che, rigando dritto, non avrei avuto di che temere. (p.13)
Otto anni di scuola sono più che sufficienti a farti capire che il mondo si divide in due grandi famiglie: chi picchia duro e chi incassa come può. Non appartenendo per destino e temperamento alla prima, avevo dovuto lavorare per sottrarmi alla seconda, puntando sulla circospezione, ritagliandomi un ruolo da personaggio minore: lo spettro cui nessuno fa caso e che proprio per questo vive indisturbato. (p.109)
Da un lato – perché negarlo? – avvertivo quel senso di pienezza che solo la vanità è in grado di suscitare, dall’altro avrei voluto sciogliermi nell’aria con il fumo della pipa e volare via, su su, verso le coste del Canada, se necessario fino in Groenlandia. (p.211)
E, come l’islandese, il giovane fa esperienza della molestia degli uomini come della indifferenza della natura (belle le pagine in cui è raccontato quando, ancora bambino, il padre lo conduce, in una fuga complice, fino al mare, «in tutta la sua densa, sterminata impassibilità», p.19, e quando, diciottenne, ritrova per caso quella spiaggia, «identica, immutabile, miracolosamente intatta», p.391); e si interroga, consapevole, come l’islandese, che gli esseri umani tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano:
Mi chiedo se stavolta il problema non fosse proprio dove mai avrei osato cercalo: in quella felicità che, sebbene a portata di mano, non riuscivo ad afferrare del tutto. Chissà, forse anche per essere felici, come per amare liberamente, ci vuole un bel po’ di carattere. Questo in termini generali. Nello specifico devo dire che, pur senza averne coscienza, già allora la felicità mi lasciava perplesso: e mica per la sua natura intrinsecamente fraudolenta, ma perché sembrava parlarmi non già di ciò che avevo ottenuto ma di ciò che ero in procinto di perdere. (pp.35-36)
E sale il limitar di gioventù declinando in forme cinicamente nuove gli aggettivi che facevano Silvia lieta e pensosa:
Ero in quella condizione propizia che solo i giovani conoscono, quando vitalità e disperazione, oltre a combinarsi in un tutt’uno che definisce la tua personalità, formano il cocktail giusto per spingerti all’azione (p.357)
Ma, come Silvia, anche questo young artist viene travolto all’apparir del vero, correttore naturale e intransigente del suo «strabismo interpretativo» (p.371):
Brancolante nel buio fittissimo, sballottato qua e là dalle nere correnti dell’ansia, tremai al cigolio della porta proibita; finché, a un passo dalla verità, sentii la testa svuotarsi, il fiato rompersi, le membra cedere: come il naufrago che si lascia affogare (p.24)
…mi ero fatto l’idea che la fine dei miei genitori e l’inizio di una nuova vita assai migliore della precedente mi avrebbero consentito di emanciparmi una volta per tutte dall’omertà in cui ero cresciuto. Mi ero convinto che finalmente avrei potuto affrontare con una certa schiettezza i problemi più impellenti, quelli all’ordine del giorno. Non era così. A quanto pareva ero caduto dalla padella nella brace. (p.371)
Il romanzo è in questa ineluttabile fenomenologia del vero, che nella giovinezza trova terreno tenero e volubile per dispiegarsi imprimendo le orme pesanti di sé; e che in età adulta, caduto ormai ogni alibi, addita noi stessi come colpevoli delle nostre vite.
Langue et parole
Se l’understatement è la figura retorica prediletta dal narratore, essa non consegue il suo effetto dirompente nell’esercizio puro di sé, ma nella vertigine che produce passando dalla langue, che disciplina la sintassi e il vocabolario e interdice loro gli spazi dell’abbandono sentimentale, educandoli alla misura difficile e pericolosa del paradosso e dell’(auto)ironia, alla parole, che si insinua improvvisa imprimendo variazioni inattese di dolcezza struggente e sottile:
Mio padre era lì, seduto sul bordo del letto, ansioso d’infilare il naso nella serica cavità che separa il collo dalla clavicola. Stando a lui, dopo un paio d’ore di sonno, la mia cavernetta – la chiamava così – era soffice, odorosa, calda come un visone: una droga da cui non avrebbe mai voluto disintossicarsi (…) E ora si faceva venire il magone per un ragazzino che non gli dava spago? Perché no, se il moccioso in questione era il suo unico figlio (…) In fondo, lui voleva solo la sua dose di cavernetta: l’ultimo pasto del condannato a morte. (…) Fu pressappoco allora – messo all’angolo dai rimorsi, travolto dal panico, tormentato dall’immagine della cavernetta sfitta per sempre – che quel pensiero mi trafisse, il più triste che avessi mai concepito: tra le poche cose della mia vita papà era stata di gran lunga la migliore (pp.22-23)
Una domenica mattina mi sembrò di riconoscere i suoi passi. Eccoli qua, mi colsi a pensare stranamente sollevato; eccoli, infatti, felpati, circospetti, muovere verso il mio letto. La camminata di un essere amato ha una cadenza talmente segreta e misteriosa che, per coglierne l’essenza e l’irreplicabilità, devi attendere che alcune luttuose circostanze ti privino del suo quotidiano conforto.
Ebbene, quelli erano indiscutibilmente i passi di mia madre. (p.360)
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