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Borges, Leopardi e l’infinito

Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Ad Antonio Prete

Ho vissuto in due città che hanno concepito e pensato l’infinito in modo diverso, se non contrapposto. Si tratta di due città differenti, per lingua, dimensioni e complessità, ma ciascuna, attraverso i suoi autori principali, ha dato un’idea di sé in modo tale che oggi è impossibile pensarle senza tenere conto di questo fatto. In una, l’infinito è rappresentato da un punto che contiene l’intero e inconcepibile universo, con tutte le sue possibilità, anche quella di vedere il proprio volto riflesso in quel segmento inesteso, scoperto nella concretezza di un luogo preciso; nell’altra, invece, è l’immensità dello spazio, attraverso l’immaginazione, a raffigurarlo: quell’orizzonte lontano che convoca dentro di sé, nei timori del cuore («ove per poco il cor non si spaura»), l’idea d’eternità. Uno di questi autori ha concepito l’infinito in una città malinconica, quando era un quarantenne e cominciava a imperversare il buio della sua cecità; l’altro, l’ha concepito nella sua prima giovinezza, osservando gli spazi sterminati oltre la siepe, in una piccola città arroccata sul crinale di una collina. Il primo si chiama Borges ed è nato a Buenos Aires allo scadere del XIX secolo; l’altro Leopardi ed è nato a Recanati, quasi un secolo prima. A Buenos Aires non si può pensare l’infinito senza tenere conto di quel punto che contiene ogni cosa, anche sé stesso, e che Borges ha raffigurato in un Aleph, ovvero in un «luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». L’ha scoperto nel diciannovesimo gradino di una scala nei sotterranei della casa dove abitava Beatriz Viterbo, in via Garay. Si tratta di un infinito separato dal soggetto che lo contempla, quindi, esterno all’osservatore, eppure, in quel minuscolo frammento Borges scopre il suo stesso volto e il suo stesso sguardo. Non lo scopre nella sua interiorità, ma vede sé stesso dentro quel punto. Allo stesso modo, a Recanati, non si può pensare l’infinito senza tenere conto di quel confine spaziale, la siepe che lo «sguardo esclude», lassù, sul Monte Tabor, che si affaccia verso sud e dal quale, nelle giornate con poca foschia, si riescono a scorgere le cime innevate dei monti Sibillini, perché è a partire da quella barriera che la poesia di Leopardi, L’infinito, composta presumibilmente fra la primavera e l’autunno del 1819, prende il volo verso gli «interminati spazi». Dunque, parliamo di un infinito rappresentato da un universo interiore, che nello sguardo dispiega i propri sentimenti. Un anno dopo L’infinito, nella prosa poetica dello Zibaldone chiarirà un punto fondamentale:

L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario.

Dunque, senza l’ostacolo della siepe, non potrebbe essere concepito l’infinito, che è una figura dell’immaginazione. Nei quindici versi che compongono questa poesia non c’è nessuna traccia di dolore o d’infelicità, come in altre sue poesie. Inizia con una dichiarazione di gradimento: «Sempre caro mi fu» e si conclude con un’altra: «il naufragar m’è dolce in questo mare». Tra il primo e l’ultimo verso si sviluppa tutta la narrazione, giocata tra la lontananza, la siepe e il pensiero.

Ebbene, due città diverse di cui una scorge la vastità dello spazio e del tempo (le due forme peculiari dell’infinito) da un colle che guarda verso i monti; l’altra, invece, scopre l’infinito negli incroci delle strade o nelle parallele che si interrompono, come quelle di via Garay e via Pavón, davanti a Plaza Constitución. Buenos Aires si arroga il diritto di contenere l’infinito nel suo piano urbanistico, nelle piazze, nelle soglie delle porte durante il tramonto; Recanati, invece, lo trova nel Colle dell’infinito, il luogo deputato in assoluto per osservarlo dentro di sé.

L’idea dell’infinito ripercorre molti dei testi di Borges, è un concetto, diciamo, che si declina in tante forme diverse: nel linguaggio del deserto, nella concezione del labirinto, nell’arte poetica, che è come «fiume interminabile che passa e resta», mai però come figura dell’interiorità e dei sentimenti. Forse in L’Aleph, uno dei suoi racconti più conosciuti, uscito per la prima volta nel 1945 nella rivista Sur, c’è una sintesi delle sue varie rappresentazioni. La storia prende le mosse dalla morte della dantesca Beatriz Viterbo. Un giorno Carlos Argentino avverte il protagonista del racconto, Borges stesso, che la casa di via Garay rischia di essere demolita e prima che accada deve mostrargli una cosa. Quando Borges arriva Carlos Argentino gli chiede di scendere nei sotterranei e di fissare al buio il diciannovesimo gradino della scala. Poco dopo, senza essere ostacolato da nulla, Borges assiste all’epifania: «Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo» E qui comincia la famosa enumerazione dove ogni frase si apre con un «Vidi»: «Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra)», ecc. In un saggio del 1939 dal titolo Quando la finzione vive nella finzione Borges racconta che la sua prima nozione dell’infinito gli è stata rivelata da un grande barattolo di biscotti «che diede mistero e vertigine alla mia infanzia». In un angolo del barattolo c’era una scena giapponese e in un angolo di questa ricompariva lo stesso barattolo e in un angolo ancora la stessa immagine e così, «almeno potenzialmente», specifica l’autore, all’infinito (questo gioco aperto di manifestazioni fenomeniche è lo stesso procedimento che riscontriamo nel famoso quadro di Velázquez, Las meninas, e che Foucault vede come una dialettica rappresentativa della pura reciprocità, ovvero, lo specchio come sguardo che esce dal quadro per mostrarci ciò che sta al di là, nel nostro spazio).

In Leopardi non c’è nessun punto che ci rivela l’indeterminata molteplicità, nessun buio, nessuna vertigine, nessuna matematica, nessun microcosmo che contenga il macrocosmo, non c’è prossimità dell’oggetto osservato, né un momento preciso in cui si rivela, ma c’è un «Sempre caro mi fu», con cui si apre l’idillio, L’infinito, che indica la continuità di un’esperienza interiore che pone il sentire al centro della scena. La sua interiorità, però, non è un ripiegamento verso sé stesso, come spesso è stato interpretato, ma un’apertura verso il mondo (nessuno come Leopardi, neppure Borges stesso, ha saputo interpretare il suo tempo con tanta lucidità).  L’infinito è la poesia della fisicità per eccellenza che convoca tutti i sensi e li mette al primo piano (l’infinito di Borges, invece, è metafisico e la descrizione che ne fa è riservata solo alla vista). Leopardi prova ad innalzare una siepe immaginaria tra sé e l’orizzonte per scavalcarla attraverso la finzione («io nel pensier mi fingo»), si tratta di una forma di pensiero senza approdo, come un viaggio interiore che fa i conti con la sua impotenza e che naufraga, attraverso la cadenza della metrica e l’eco delle assonanze, negli «interminati spazi», nei «sovraumani silenzi», nella «profondissima quiete», per giungere infine all’ultimo verso che chiude l’idillio, «e il naufragar mi è dolce in questo mare», che è anche l’ultimo vagabondare del pensiero. Leopardi si soffermerà a lungo a riflettere sull’infinito nello Zibaldone, pur avendo iniziato con la poesia a ragionarci, e nel 1826, sviluppando questo concetto, ci conferma che «L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia», un’idea o un sogno, mai una realtà come quella che scopre Borges in L’Aleph, quel punto nella casa di via Garay, che da lì a poco verrà demolita. Leopardi, si potrebbe dire, porta nella lingua l’indicibile della poesia e la sua indeterminatezza: «Questo oltre che è l’al di là del linguaggio stesso»  scrive Antonio Prete in La poesia del vivente, «risuona in un’immaginazione tutta corporale: fisica del sentire e fisica celeste si uniscono», che significa, continua Antonio Prete, «spostare il pensiero fino alla soglia dell’impensato e da lì, da quel confine, fare esperienza di un naufragio».

Tra i vari pensatori che accomunano questi due autori ce n’è uno che vorrei ricordare e che spesso si cita quando si cercano le fonti sia di L’infinito che di L’Aleph: il filosofo francese Pascal, al quale Borges dedica due saggi, La sfera di Pascal e Pascal, in uno dei suoi libri più belli, Altre inquisizioni. Per Borges si tratta di «un teologo, esiliato dal mondo dell’Almagesto e smarrito nell’universo copernicano di Kepler e di Bruno», e anche «uno degli uomini più patetici della storia d’Europa». Come Leopardi, che dopo aver scritto L’infinito torna a rifletterci nello Zibaldone, così, allo stesso modo Borges, dopo aver scritto L’Aleph, sradica il concetto d’infinito dalla narrativa e lo affronta, tra altri scritti, nei due saggi dedicati al filosofo francese. Pascal è una figura importante per entrambi, sia perché considera ogni punto dello spazio come il centro di tutto l’universo, sia perché, dinanzi allo spazio sconfinato ha una reazione di paura o di sgomento («L’infinito che inebriò il romano [Lucrezio] spaurisce il francese», scrive Borges). Un sentimento contrario, se vogliamo, a quello leopardiano, dove di fronte all’immensità dello spazio il pensiero si annega, nel senso che si nega o si smarrisce, ma di fronte a questo tacere non c’è nessun effroi, nessun spavento, come in Pascal; c’è, invece, come sostiene Antonio Prete, la «Percezione di un sé sulla soglia estrema dove il pensiero riconosce la sua impotenza».

Il saggio La sfera di Pascal (del 1951) si conclude con un passo che in qualche modo chiarisce lo sgomento e la vertigine di Borges, personaggio del racconto, quando scopre l’apparizione spettacolare dell’infinito:

Questi [Pascal] aborriva l’universo […] Deplorò che il firmamento non parlasse, paragonò la nostra vita a quella di naufraghi in un’isola deserta. Sentì il peso incessante del mondo fisico, sentì vertigine, paura e solitudine, e li espresse in altre parole: «La natura è una sfera infinita, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo». Così Brunschvigg pubblica il testo, ma l’edizione critica di Tourneur (Parigi, 1941), che riproduce le cancellature e le esitazioni del manoscritto, rivela che Pascal cominciò con lo scrivere effroyable: «Una sfera spaventosa, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo».

Lo spavento ricompare, questa volta nella forma verbale, in un altro passo dei Pensées: «Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi spaventa» (Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie), che dal tono sembra ricordare il lessico di L’infinito leopardiano anche se, come nota Luigi Blasucci, si parlano di due infiniti diversi, uno reale, quello di Pascal, e uno immaginario, quello di Leopardi.

Dunque, due città e due autori con distinte Tecniche per la misurazione dell’infinito, mi verrebbe da dire, parafrasando il titolo di un’opera per tre pianoforti di Claudio Ambrosini. Un periodo mi piaceva pensare che Buenos Aires fosse nata dalla penna di Borges, che i suoi innumerevoli incroci fossero una promessa d’infinito, e che Recanati, altrettanto, fosse solo un’invenzione di Leopardi, collocata in un punto da dove poter scorgere quella «stanza smisurata e superba» e che noi, che ci stiamo dentro, fossimo solo un accidente, prigionieri di una finzione: «un’idea, un sogno, non una realtà», come scrive Leopardi riferendosi all’infinito. Credo che, in qualche modo, sia Borges sia Leopardi ci hanno restituito un modo di vedere, oltre al mondo, anche le proprie città dove hanno vissuto. Con i loro sguardi hanno saputo rendere memorabili le cose e gli spazi che hanno nominato.

Appena ventenne Borges scrive una delle sue poesie più sentite su Buenos Aires, Fondazione mitica di Buenos Aires, che si apre con un’interrogazione sull’origini della città («E fu su questo fiume di sonnolenza e di fango / che le prue vennero a fondarmi la patria?») e si conclude con i seguenti versi: «A me sembra una fandonia che Buenos Aires ebbe inizio / La giudico tanto eterna come l’acqua e l’aria». Le città che si amano sembrano non avere né un inizio né una fine (la loro fondazione o la loro fine appartengono solo al mito o alla leggenda), sono, in qualche modo, una metafora dell’infinito.

Riferimenti bibliografici:

Jorge Luis Borges, L’Aleph, a cura di Tommaso Scarano, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Adelphi,1998.

Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, a cura di Fabio Rodríguez Amaya, traduzione di Francesco Tentori Montalto.

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