Nello specchio (deformato) della scuola: economia e governance. Sul libro del nuovo ministro all’istruzione /1
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Il libro del ministro Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola, merita di essere letto nel contesto più ampio delle politiche scolastiche dei nostri anni. In questa prima parte del saggio sottoporrò il libro a un’analisi dell’argomentazione e ideologica. Nella seconda parte, che uscirà dopodomani, mi dedicherò alle sue implicazioni storico-politiche e costituzionali.
Scuola e sviluppo
Per capire le idee del neoministro dell’istruzione Patrizio Bianchi abbiamo a disposizione uno strumento che nel caso di buona parte dei suoi predecessori non possedevamo: l’anno scorso, quando presiedeva il Comitato di esperti voluto da Lucia Azzolina, egli ha dissodato il terreno futuro pubblicando un libro, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia (Il Mulino, 2020), che non è fuori luogo considerare un vero e proprio programma di lavoro o quanto meno la formalizzazione nero su bianco di una visione – volevo dire vision – di scuola.
La tesi di Bianchi è semplice. L’Italia vive da tempo entro il circolo vizioso della bassa crescita economica: scarsa crescita significa scarsi denari, scarsi denari significano scarsi investimenti, scarsi investimenti significano tagli ai servizi (fra i quali la scuola e in generale lo stato sociale), una scuola priva di finanziamenti significa impoverimento del capitale umano, un capitale umano povero significa scarsa crescita per il sistema Paese, e via da capo. La spirale della bassa crescita diventa crisi conclamata quando l’Italia, in seguito al default economico-finanziario globale del 2008, invece di seguire l’esempio virtuoso di altri paesi, che hanno aumentato gli investimenti in istruzione, fa esattamente il contrario:
il taglio delle risorse all’istruzione avviene nella difficile fase di uscita dalla crisi del 2008-9, che coincide in tutti i paesi con la riorganizzazione produttiva e con il passaggio tra le tecnologie 3G e 4G, che ha ridisegnato il mercato a livello globale e determinato i riposizionamenti competitivi nella nuova industria, centrata sull’emergere di nuove competenze e nuovi saperi (p. 59).
Quando arriva l’ulteriore colpo del covid-19, l’Italia si ritrova totalmente impreparata. La soluzione all’avvitamento nella spirale perversa del sottosviluppo è l’inversione del senso di marcia: investire nella scuola – ovvero nel capitale umano, «necessario per generare quegli aumenti di produttività che determinano l’accelerazione nella crescita economica di un paese» (p. 55) – consentirà di riavviare la produttività, aumentare il benessere diffuso e perfino ridurre l’aumento delle diseguaglianze tra aree geografiche del paese e tra classi sociali, diseguaglianze che in condizioni di basso sviluppo aumentano:
se un paese non investe in educazione e in qualità delle strutture educative non solo si condanna a una bassa crescita, ma anche a una crescente diseguaglianza interna, che a sua volta inciderà sulla qualità dello sviluppo e della stessa democrazia, incidendo negativamente sulla formazione della persona e della comunità, sulle competenze necessarie allo sviluppo e infine sulla formazione e selezione della classe dirigente (p. 56).
In Nello specchio della scuola Bianchi non si limita infatti a parlare del nesso tra scuola e sviluppo economico, ma li collega a loro volta in un circolo virtuoso che contribuisce alla difesa della solidarietà sociale, del valore della «comunità educante», dell’inclusione (degli stranieri, dei bambini e dei ragazzi con disabilità). Ultimo ma non ultimo, sviluppo economico e sviluppo sociale sono posti all’ombra della nostra Costituzione e dei suoi valori fondamentali di lavoro, giustizia, merito ed equità. Il testo fondativo della nostra Repubblica è citato spesso e uno dei paragrafi del capitolo VI si intitola «La Costituzione come guida per il rilancio del paese». Bianchi si rifà anche alla teoria dello sviluppo umano di Amartya Sen e Martha Nussbaum, citandoli per la verità in modo del tutto tangenziale nel capitolo L’economia dell’educazione.
In poche parole: tutto si tiene in una visione del futuro di sviluppo e benessere per tutti. Per realizzare questo futuro, bisogna però agire oggi. Ci aspettano riforme radicali. La scuola così com’è non va. La crisi portata dal covid-19 deve essere l’occasione per il cambiamento:
la richiesta di tornare dopo il COVID-19 alla “normalità” preesistente non può essere la soluzione per riprendere un cammino di sviluppo (p. 7).
Elusività e vanità semantica
Il neoministro, studioso di politiche industriali, è un tecnico prestato al centro-sinistra (assessore con Errani e Bonaccini) ed è titolare della cattedra Unesco in Education, Growth and Equality (istruzione, crescita ed eguaglianza) all’Università di Ferrara. Viene dunque da quel mondo della governance delle politiche educative di cui si occupano alcune agenzie dell’Onu (Unicef, Unesco, Undp), l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) e soprattutto la Banca mondiale, anche se è a noi nota soprattutto l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e il suo programma di rilevazioni degli apprendimenti Pisa. Noi europei dovremmo aggiungere a queste istituzioni l’Unione europea.
I documenti di questa governance, nonostante si presentino sempre nelle vesti di discorso tecnico e neutrale interessato al benessere globale, sono caratterizzati da una specifica vanità semantica che tende a celarne il surrettizio carattere politico-ideologico.[i] In un’epoca di “postdemocrazia”, segnata da un indebolimento dei poteri degli Stati, da fenomeni di «commercializzazione della cittadinanza», impoliticità, crisi dei partiti tradizionali e delle strutture di mediazione, nonché dall’imporsi di politiche economiche neoliberiste e dalla “serrata” delle élite economiche globalizzate,[ii] la governance imbonisce il proprio ideale purificato e tecnicistico di buona amministrazione, fondato su dati, buon senso, pragmatismo e competenza degli esperti: «La governance cancella il nostro patrimonio di riferimenti politici per sostituirli con […] sfide gestionali» (Denault, p. 13). La governance si incarna in think tank, fondazioni private vocate all’intervento pubblico, ma anche in quegli organismi sovranazionali di cui s’è detto, in grado di esercitare un soft power non legittimato democraticamente, ma estremamente invasivo.
Contrariamente ai termini “democrazia” o “politica” che essa tende a occultare, “governance” non definisce niente in modo netto e rigoroso. L’estrema malleabilità della parole elude il senso, e questo sembra precisamente il suo scopo. Tutto avviene come se si sapesse ciò che si vuole dire proprio nel bel mezzo di una totale vanità semantica (Denault, p. 19).
Questa caratteristica evasività e disimpegno concettuale emergono in modo evidente anche nel libro di Bianchi. L’effetto complessivo è quello di una prosa rosea e irenica, nella quale mercato e sviluppo umano, investimenti produttivi e istruzione, competizione economica e inclusione, capitale umano e Costituzione, procedono tutti serenamente in marcia verso il sol dell’avvenire. Un secondo aspetto evidente delle argomentazioni di Bianchi è la prevalenza di premesse indimostrate, transizioni logiche immotivate e una diffusa patina di sofismi pubblicitari. Ad esempio:
la necessità di uscire dalla crisi del COVID-19 impone oggi, sotto il peso di un’emergenza globale, quel ripensamento sul futuro del mondo che le Nazioni Unite avevano proposto, in verità da tempo, fra le sfide del millennio. Per noi il COVID-19 rischia di essere la coperta sotto la quale nascondere tutti i problemi accumulati nel tempo, che ci hanno impedito di cogliere i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie. Infatti le tecnologie che definiamo di Quarta rivoluzione industriale si basano sulla possibilità di dare risposte produttive non più di massa, ma basate sulla qualità, quindi anche su quella creatività produttiva e quella capacità di ascolto che permettono di offrire risposte personalizzate, qualità che ha costituito il motivo di successo di molte imprese italiane negli ultimi anni, ma non in tutto il paese (p. 21).
La crisi prodotta dal virus non è stata l’interruzione dolorosa delle nostre abitudini, uno sconvolgimento sociale e antropologico fuori dall’ordinario, ma un avvertimento sulla necessità di cambiare. Il tono ricattatorio di questa irrefutabile verità viene però immediatamente annacquato nel generico richiamo alle Nazioni Unite, che non vengono citate altrove e che entrano in scena qual tanto che basta per insinuare nell’orecchio del lettore, con la propria autorevolezza di suprema corte di cassazione etica, che la rivoluzione industriale e la tecnologia agiscono, per definizione, pro bono.
In quale documento e in che anno l’Onu poneva quella sfida? E qual è il contenuto preciso dell’espressione «ripensamento sul futuro del mondo»? Bianchi non ha dubbi. Superato il paradigma fordista del capitalismo, che dura fino agli anni Settanta, con la sua fabbrica irregimentata come un esercito o come una burocrazia (e viceversa),[iii] le attuali tecnologie sembrano venire incontro a un gioioso coinvolgimento di soggetti non nominati, tanto da poter essere identificati indifferentemente in cittadini, lavoratori, utenti o consumatori: tutti comunque desiderosi di sentirsi titillare l’amor proprio dall’erogazione di risposte (a quali taciute domande?), ovviamente “personalizzate”, e che non è facile stabilire in che rapporto stiano con le «risposte produttive» nominate poco sopra. Sembra però chiaro che la personalizzazione dipenda dalla qualità (quale?) e dalla creatività (applicata a cosa?): addirittura – bontà di questo sistema produttivo – dalla capacità di ascolto. Nonostante ricorra a statistiche, rilevazioni, studi, Bianchi allude spesso ma raramente determina: i dati galleggiano in un tessuto argomentativo vuoto e storicamente esangue. Si faccia la prova ad apertura di libro.
La distinzione tra una fase di sviluppo economico fordista e una post-fordista è un’interpretazione da tempo consolidata e così potente da poter essere applicata oltre l’ambito degli studi economici e sociologici. Essa viene usata abitualmente anche nel campo dell’istruzione, cosa che fa anche Bianchi. Nella scuola “post-fordista”
diviene fondamentale una formazione [degli] insegnanti che permetta di andare oltre ai vincoli amministrativi che hanno organizzato la vita della scuola in epoca fordista, i tempi, i metodi, gli spazi, i programmi cui ognuno doveva sottomettersi, anziché utilizzare questi come strumenti per un’azione educativa che sfugga alla trappola dell’uniformità, perché nulla è più ingiusto che dare in parti uguali a chi ha avuto di meno (p. 54);
il superamento della «scuola fordista», che era l’obiettivo principale dell’autonomia scolastica. Andare oltre quell’ordinamento, che incasellava ciascuno in un ordine prestabilito e guidato dall’alto escludendo chi non era in condizione di conformarvisi, significa realizzare un sistema educativo che veda la persona come obiettivo della formazione, in una visione in cui, come scriveva l’UNESCO all’inizio degli anni novanta, imparare a vivere assieme, imparare a conoscere, imparare a fare e imparare a essere divengono gli ineludibili pilastri di un nuovo sviluppo umano. Il COVID-19 rischia di riportarci indietro: a una scuola sempre in attesa dell’ultima ordinanza ministeriale, una scuola in cui ogni allievo viene confinato nello spazio chiuso di un’aula e poi nel recinto del proprio banco, in cui i movimenti di ognuno vengono misurati al millimetro e viene meno ogni discussione sui contenuti e sui modi di apprendimento e di insegnamento (p. 100).
Colpisce l’insistenza su un campo semantico preciso, quello della libertà, anzi della liberazione dai vincoli dell’uniformità, della sottomissione, dell’incasellamento, del conformismo di questo passato “fordista”, ormai metafora agitatoria più che categoria storica. Sappiamo ormai bene come le parole d’ordine della sinistra libertaria di cinquant’anni fa siano oggi diventate il pane quotidiano del discorso del capitale: la scuola come carcere è una classica metafora che oggi ritroviamo sia in chi cita Althusser e Bourdieu, sia nell’economista Bianchi, che la applica qui a un climax retorico (l’aula-carcere, poi il banco-carcere, fino all’immobilità totale), perché è evidente che le limitazioni di movimento della scuola in emergenza pandemica siano traslate sulla scuola dei tempi normali.
Come ho detto, Bianchi ricorre costantemente a transizioni del tutto immotivate sul piano argomentativo, che in questo caso gli consentono di fregiarsi di una patente di progressismo a buon mercato. Che cosa c’entra don Milani (citato malamente peraltro: la versione corretta è «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali»), nel contesto del primo brano, dove in un solo periodo si passa dalla formazione degli insegnanti alla didattica in classe, per concludere con il principio di equità del distribuire a ciascuno secondo i propri bisogni? Nel secondo brano, qual è il nesso tra la mancanza di movimento e libertà di cui Bianchi ha parlato fino a quel momento e una frase come «viene meno ogni discussione sui contenuti e sui modi di apprendimento e di insegnamento»?
Se si cerca in Nello specchio della scuola qualche dettaglio concreto su quali siano queste innovazioni metodologiche e pedagogiche della scuola post-fordista, tanto meravigliose da trasformare la nostra realtà in un paradiso, si resta delusi. C’è poco arrosto, a meno che non si voglia considerare concreto un passaggio come questo, identico nella sua pedagogia degli stenterelli a centinaia di altri che abbiamo letto in questi anni:
Così la riduzione del numero degli allievi in classe, ancorché motivato dal distanziamento, deve essere occasione per superare la classe come unità amministrativa e recuperare quel dialogo personalizzato che l’allievo deve avere con l’adulto di riferimento, ricercando e potenziando tutte quelle attività che alle competenze aggiungono un carattere di ritrovata socialità. Quali sono queste attività? Il computer in quanto principale mezzo di socializzazione dei millennials e il coding, cioè la programmazione informatica come modo per imparare la logica rivolta a risolvere problemi complessi ed esplorazione anche giocosa della logica computazionale; l’arte e la musica come strumenti di creatività e aggregazione; la scoperta della vita collettiva della propria comunità e le regole dell’educazione civica, che in una parola possiamo definire polis; lo sport come recupero del proprio corpo. Tutti questi nuovi ambiti dell’azione collettiva possono essere sintetizzati con l’acronimo CAMPUS (Computer/Coding, Arte, Musica, Polis, Sport) (p. 71).[iv]
In queste parole, esemplificative dei contenuti culturali che Bianchi ha in mente per la sua scuola dello sviluppo, ciò che addolora di più è la sfacciataggine di presentare questa versione caricaturale della socializzazione e del sapere come implicitamente politica, parlando di «ambiti dell’azione collettiva».
Banalizzare il passato, idolatrare il futuro, ridurre tutto al presente
Dunque, nel libro di Bianchi, tutto porta a una semplice conclusione: più sviluppo di mercato produrrà più sviluppo umano, e viceversa. Per convincerci della bontà di questa per lui ovvia tesi, Bianchi schizza piccoli excursus storici degni di un brutto bignami.
Se è vero che le funzioni della scuola nei secoli sono state, come scrive, 1) la selezione e formazione della classe dirigente, 2) la costruzione dell’identità nazionale, 3) la formazione professionale, 4) l’educazione della persona, queste funzioni sono spesso entrate in conflitto ed entrano ancora oggi in conflitto, anche perché non è affatto facile contemperarle. Bianchi lascia intendere al contrario che esse possano essere perseguite contemporaneamente senza alcuna contraddizione. Qualsiasi sistema scolastico deve affrontare quanto meno il doloroso dilemma “socializzazione-selezione” e il suo gemello “formazione generale-professionalizzazione”. Ma come molti altri riformatori dei nostri anni, Bianchi non affronta realmente la questione, soprattutto nelle sue aporie, preferendo lasciar credere che lo “sviluppo” – sia esso economico, del capitale umano, della persona – risolverà magicamente ogni problema di diseguaglianza tra paesi ed entro la società di ciascun paese.
In effetti la retorica meritocratica, come è prevedibile, è ricorrente nel libro e viene posta sotto l’egida degli articoli 1 e 34 della Costituzione: «la nostra Repubblica è “fondata sul lavoro”, non sul censo, non sul diritto di nascita, ma sulla capacità delle persone» (p. 63). Ai retori della scuola come “ascensore sociale” sfugge sempre un dettaglio: che la presenza di un’alta mobilità non significa necessariamente maggior giustizia, al più una società estremamente fluida, in cui si sale (o scende) molto rapidamente. Ma Bianchi, come buona parte della sinistra, non è ormai in grado di pensare all’eguaglianza se non nella forma dell’eguaglianza delle opportunità.[v]
Queste semplificazioni storiche non sono innocenti: puntano chiaramente a banalizzare il passato, idolatrare il futuro, ridurre tutto al presente. Bianchi allude spesso alle «scorie del Novecento», da lasciarsi al più presto alle spalle, senza spiegare mai quali siano, aggiungendo in compenso che liberarsi di questa zavorra permetterà «ai ragazzi di vivere nel loro futuro, con quel profondo bisogno di ricostruire comunità solidali che anni di individualismo e populismo hanno svuotato di identità che la nostra Costituzione ancora ci indica» (p. 23). In un altro passo sarà l’autonomia finalmente realizzata a consentirci di superare queste due bestie nere, associate non si sa sulla base di quale analisi storico-politica (p. 12).
Queste superficiali connessioni, benché si ammantino di alti valori etici, servono a naturalizzare il presente e l’attuale sistema economico. Nella sua polemica contro le gabbie novecentesche, Bianchi omette di dire che quel capitalismo fordista da lui evocato come uno spettro ha però coinciso storicamente con una fase di ampliamento dei diritti sociali mai più ripetuta, quella del compromesso socialdemocratico (1945-75).
C’è un autore che il neoministro cita più volte: Adam Smith. Di fatto Bianchi fa risalire a lui il concetto di competenza: ricchezza delle nazioni e competenze della popolazione si tengono in un nesso stringente, valido allora come ora.[vi] Peraltro l’economista scozzese, come tutti i liberali classici (fino al nostro Luigi Einaudi), difendeva la necessità dell’intervento dello Stato in certe materie. Rifarsi direttamente a lui consente a Bianchi di prendere le distanze dal neoliberalismo/neoliberismo, che, al contrario, ha esteso la logica del mercato ad ogni ambito della società.[vii]
La storia bignamizzata del liberalismo/liberismo di Bianchi, dal classico Adam Smith ai teorici del capitale umano, è narrata come un processo storico semplice, intuitivo, e perfettamente compatibile con la giustizia sociale. In una difesa del libero mercato storicamente così inconsistente, anche l’evocazione dei teorici dello sviluppo umano può avvenire senza alcuna apparente incongruenza a fianco del discorso del capitale umano, selezionando in essi quanto non incrina il quadro di irenismo: si fa riferimento al concetto di capabilities di Amartya Sen, senza ricordarne la dura critica al razionalismo utilitarista (che non è certo un dettaglio della storia del liberismo economico); viene citata Martha Nussbaum, ma solo perché ha sottolineato l’importanza dell’inclusione delle persone disabili, tacendo il fatto che la studiosa sia fortemente critica con l’invasione della tecnica e dell’economia nel campo dell’istruzione (p. 55).
(L’idea stessa che più investimenti in istruzione, o in tecnologie, significhino ipso facto più sviluppo, secondo una logica di causalità lineare, è stata messa in discussione dal nobel Joseph Stiglitz).[viii]
Diciamolo ancora più chiaramente: Nello specchio della scuola è un libro apologetico del capitalismo. Certo il libero mercato ha fatto anche cose buone, come si dice, ma è grottesco, per non dire odioso, che se ne nascondano sotto la polvere i delitti proprio mentre si parla di scuola, democrazia, Costituzione.
Infatti, in linea con la tendenza del «realismo capitalista»[ix] a presentarsi come «fatto di natura» e non come sistema socio-economico storicamente costruito, Bianchi allude spesso alla crisi del 2008, senza accennare mai alle sue cause. Il fenomeno accade, imponderabile, come si scatena un terremoto o cade un asteroide e come se bolla speculativa, mutui subprime, deregolamentazione dei mercati finanziari non fossero eventi conseguenti a precise politiche, che nascondono precisi interessi. Una volta naturalizzata la premessa, la conseguenza vien da sé: non resta che adeguare il proprio sistema produttivo e formativo o soccombere alla successiva crisi. Si rilegga il primo passo da me riportato e si vedrà come la peggior crisi del capitalismo dopo quella del 1929 sia nominata solo per dire che successivamente si è avuto uno scarto produttivo dalla tecnologia 3G alla 4G, cui noi italiani non abbiamo fatto nulla per adeguarci.
In effetti «i pionieri della governance globale postulano che la mondializzazione economica si sia prodotta all’inizio da sé, solo perché in seguito alcune multinazionali [o nazioni] si trovino casualmente a essere le meglio posizionate a trarne profitto» (Denault, p. 81):
Lo storytelling della governance procede né più né meno che a uno sforzo di revisionismo economico. Tutto va bene pur di dare un parametro al ruolo degli attori potenti, facendo così dimenticare le ragioni oscure della loro presenza nella cerchia di dibattito dei decisori – talvolta anche crimini, alleanze torbide o malefatte che verranno precisamente cancellate con l’adesione ai codici della buona governance. La governance fa in modo che la coscienza pubblica riconosca solo ciò che è relativo alle strette occorrenze del puro presente» (Denault, p. 91).
[i] Per un’analisi dettagliata Alain Denault, Governance. Il management totalitario, Neri Pozza, 2018.
[ii] Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, 2003.
[iii] Cfr. pp. 19-20, 24, 54, 100. Negli ultimi due passi si parla di scuola e il paradigma fordista è quello dell’istruzione “novecentesca”. Cfr. infra.
[iv] Mi sono occupato di esempi di questa vera e propria peste del discorso sulla scuola in altre occasioni: qui, qui e qui.
[v] Una recente sintesi critica di questo genere di discorsi in Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019.
[vi] Fra le altre, si vedano in particolare le menzioni alle pp. 54 e 58.
[vii] Si veda Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, 2017, che spiega anche le ragioni del fallimento del progetto neoliberale, che è qualcosa di ancora più profondo delle politiche di Reagan e Thatcher: un vero e proprio «dispositivo antropologico».
[viii] Joseph E. Stiglitz – Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Einaudi, 2018.
[ix] Mark Fisher, Realismo capitalista, Not, 2018.
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