Pubblichiamo oggi un estratto dal volume di recente uscita Gli archi e gli strali. Foscolo inattuale (a cura di Domenico Calcaterra, Aguaplano 2021). Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Serve uno sforzo di prospettiva, forse un salto mortale, per Ugo Foscolo, dopo una bibliografia critica sterminata e senza dubbio un certo silenzio militante che sembra averlo abbandonato nei confini pure ampi della scuola, e dunque di un canone accettato senza sforzo ma anche senza particolare entusiasmo. Serve un potente anacronismo, che superi la considerazione per fasi storiche o di gusto, aprendo magari la forbice su due giudizi che considereremo irriducibili l’uno all’altro, da leggere senza curarsi dei contesti in cui sono maturati e di tutte le ragionevolissime considerazioni che in tal caso comporterebbero. E dunque la domanda potrebbe essere ingenuamente posta in questi termini: chi è oggi il poeta esaltato da De Sanctis e sbeffeggiato da Carlo Emilio Gadda? Che ne è della celebre definizione del 1871, quella in cui il critico napoletano lo ergeva a simbolo tutto italiano del poeta: «Voi vi maravigliate che la gioventù italiana ammiri Ugo Foscolo! Eh mio Dio! Ugo Foscolo non rappresenta per noi alcun sistema politico, alcun ordine regolato d’idee. Egli è stato un’espressione poetica de’ nostri più intimi sentimenti, il cuore italiano nell’ultima sua potenza». E che ne è, parallelamente, del “basetta” gaddiano, delle sue parodie in Accoppiamenti giudiziosi dove il personaggio di Giuseppe Vernavaghi si consola del mal di vivere leggendo i Sepolcri, dando modo all’autore di esibirsi in parodie e sarcasmi sull’esule morto quarantanovenne per «cirrosi epatica volgare» e sui debiti contratti a scapito della figlia Floriana, fino a trasformarsi in Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo nell’emblema di ogni fanatico e superficiale turgore, per certi aspetti antenato del “mascellone” di Eros e Priapo, e in questo senso pienamente nel solco della condanna gramsciana che imputava com’è noto ai Sepolcri la fonte della retorica «moderna», vale a dire fascista e bellicista?
Sarebbe troppo facile, oggi che rispetto ai «cuori italiani» e alla passione risorgimentale lo scetticismo fa a gara con lo sciovinismo, in un Paese che si sente bloccato, vecchio e soprattutto preda di un dilagante rancore sociale, concludere che si tratta in entrambi i casi di caricature. Perché se Foscolo non è in nessun modo il Basetta né si può ragionevolmente ridurre al «narcisismo da torero» che nella testimonianza di Alberto Arbasino gli rinfacciava un sempre più iperbolico Gadda (in L’ingegnere in blu), a onta dei suoi ritratti e autoritratti poetici, e del suo debito con Alfieri, lui sì basettone impenitente e forse leggibile con scarsa empatia, a eccezione della Vita, è ben vero che allo stesso modo non può essere più l’eroe pubblico e politico di una gioventù «patriottica» – quella è svanita davvero nei gorghi della storia per ripresentarsi da qualche tempo sulla scena, semmai in una sua estrema degradazione qualunquista e patriottarda, nella retorica sovranista e sciovinista. Ma Foscolo resta. Resta uno di quegli ecrivains de combat che hanno segnato il tempo, prendendo a prestito qui la definizione che fu usata per Stendhal, autore in apparenza molto più vivo nella coscienza dei lettori anche se tutto sommato da lui non troppo dissimile; e pure in questo caso, per nemesi storica, un ecrivain combattente non del tutto estraneo al genere tribunizio che pure miete successi nella nostra contemporanea situazione editoriale.
I due scrittori paiono agli antipodi, almeno per quanto riguarda il loro punto di partenza, il loro porsi nei confronti della letteratura: in Stendhal, come è stato ampiamente notato, in particolare mi riferisco all’analisi di Jean Starobinski, c’è già nell’assunzione dello pseudonimo un evidente «rifiuto del padre», una sorta di uccisione rituale. In Foscolo, al contrario, c’è evidentemente l’assunzione dei padri nell’urgenza del presente, nella richiesta alla letteratura, di «proteggerli», nell’innalzarli attraverso i Sepolcri a unica certezza di futuro. Il suo culto degli antenati ha una valenza tutta inscritta, com’è ovvio, nel presente. Ma leggerlo con la lente di Stendhal potrebbe rendercelo più vicino, più intimo, e soprattutto ancora una volta fonte di desanctisiana meraviglia, se solo provassimo a mettere tra parentesi il nostro nichilismo secolare.
L’impresa non è impossibile, visto che qualcuno l’ha fatto. Sembra parlare (anche) di lui, ad esempio, Iosif Brodskij nel discorso di accettazione del Nobel (correva il 1987, i muri non erano ancora caduti) ricordando come «quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero» – anche se non necessariamente più felice – «sarà lui stesso». Henri Beyle, nel primo libro in cui si firma con lo pseudonimo in senso lato “bonapartista” (vale a dire in Roma, Napoli, Firenze, uscito nel 1817) quando Napoleone era confinato a Sant’Elena (sull’edizione originale il nome dell’autore riportato nel frontespizio è “M.de Stendhal, Officier de cavalerie”), chiarisce nella prefazione come «l’autore non voleva che divertirsi, e il suo quadro finisce per essere affumicato dalle tristi tinte della politica». Ora la dimensione del “divertimento” sembra estranea a Foscolo, ma non certo quella della felicità – e della tristezza. Fu certamente libero nel suo culto della bellezza, anche se non necessariamente più felice; basti pensare a una delle sue ultime lettere londinesi (all’amico banchiere Hudson Gurney): siamo nell’agosto 1826 e il poeta rintanato in un quartiere popolare di Londra, «fra il trambusto di uomini in rissa, di donne in litigio, di fanciulli sbraitanti, di esecutori pignoranti, e di cani e gatti alle prese», scrive che «continuai tranquillamente a tradurre l’Iliade, finché mi ritrovai inabile ad altro che a rassegnarmi con pari tranquillità alla morte». E fa larga giustizia degli anni folli, dei debiti accumulati, dell’illusione d’una vita inimitabile da cui non fu certo il solo scrittore italiano sedotto e magari ferocemente ingannato.
Né è necessario un feroce scarto temporale per vedere delinearsi in filigrana nella sua opera qualche personaggio di Roberto Bolaño, magari un poeta dei Detective Selvaggi perduto fra Città del Messico e il mondo. E non serve nemmeno uno sforzo gigantesco di incoerenza filologica per vederlo tornare, come un fantasma, quando Cees Nooteboom si incammina nel suo pellegrinaggio di Tumbas che eredita, pur senza citarla esplicitamente, la tradizione della poesia sepolcrale, ma nel caso sembra muoversi davvero dentro una situazione narrativa – e lirica – che poco ha a che fare con Thomas Gray, e di più coi Sepolcri. Anche Nooteboom seleziona tematicamente le sue tombe: non l’urne dei forti ma nel suo caso quelle dei poeti (e «pensatori», aggiunge: per esempio Jean-Paul Sartre). Il suo punto di partenza, il bastone da pellegrino che impugna nel viaggio per i cimiteri, è tutto sul versante della modernità: «Le tombe sono ambigue», leggiamo, «custodiscono qualcosa e non custodiscono niente». Si va allora sulla tomba «di una persona che non si è mai conosciuta» perché «dice ancora qualcosa, perché dice qualcosa a te, qualcosa che ti risuona ancora nelle orecchie, che ti è rimasta in testa e probabilmente non potrai mai dimenticare, qualcosa che conosci a memoria e che di tanto in tanto, a bassa od alta voce, ripeti». Una poesia, soprattutto. È dunque vero che «qualsiasi cosa che facciamo sulle tombe è irrazionale» (come portar fiori o strappare le erbacce), ma perché «c’è ancora qualcosa che vogliamo dai morti». Lo schema non è per nulla lontano da quello dei Sepolcri, a partire dall’interrogativo retorico se sia «il sonno / della morte men duro» (ambiguità della tomba) per arrivare ovviamente alle «egregie cose» cui «accedono» l’urne dei forti, alla funzione rammemorante e ancora una volta «civilizzatrice» del sepolcro, al ridestarsi della poesia con la quale ci si presenta al cospetto della lapide, fino al prendersi cura dei defunti chiedendo loro, nello stesso tempo, qualcosa: che cos’altro è se non un grido ambiguo e contradditorio – ma del tutto necessario e inevitabile –, il «proteggete i miei padri» di Cassandra in cui si chiude il corto circuito della storia? Foscolo – e Nooteboom – sanno benissimo che cosa chiedere, o quantomeno lo scoprono nel loro viaggio. «Sacri poeti, / a me date voi l’arte, a me de’ vostri / idiomi gli spirti, e co’ toscani / modi seguaci adornerò più ardito / le note storie e quelle onde a me solo / siete cortesi allor che dagli antiqui / sepolcri m’apparite, illuminando / d’elisia luce i solitari campi», leggiamo nelle Grazie. La luce che viene dalle tombe, dalla loro ambiguità metafisica, continua a interrogarci, non da ieri. Come scrive Massimo Onofri in Benedetti Toscani, «per noi, materialisti irriducibili o credenti in qualunque forma dell’invisibile, il sepolcro continua a essere, foscolianamente, una fonte misteriosa e irradiante, in cui si cela l’origine e la fine di tutto»; e sarà quantomeno ovvio a questo proposito ricordarci come il turismo cimiteriale, che ha i suoi punti di massima attrazione nel Père-Lachaise parigino, e in special modo nella tomba di Jim Morrison, sia da tempo un fenomeno di massa.
Robert P. Harrison analizza il fenomeno in Il dominio dei morti, tra letteratura e antropologia, facendo una distinzione interessante: i turisti vanno a cercare non i cimiteri ma le tombe. Così se Jim Morrison fosse stato cremato e le ceneri disperse, per i giovani che vanno in pellegrinaggio a Parigi sarebbe stata comunque una «perdita culturale». O almeno come tale verrebbe vissuta. L’indicazione è interessante. Potrebbe spingerci a ipotizzare che, tra poesia sepolcrale, alto lirismo simbolista – ma sempre nell’ambito di una poesia che andrebbe come “civile”, se il termine non fosse oggi come ieri piuttosto ricattatorio – e cultura di massa sia ben presente nel nostro tempo e quindi nella nostra modernità quella che prendendo a prestito Contini potremmo un po’ sciovinisticamente definire una “funzione Foscolo”, ben presente almeno attraverso la tematica dell’esilio e della perdita della terra – e altrettanto studiata in poeti come Quasimodo e Gatto. Anzi, è possibile spingersi oltre, e ipotizzare che nella poesia un «Foscolo apparentemente dimenticato» (come scrive Anna Dolfi nel volume In libertà di lettura) agisca in profondità, pur in assenza di riferimenti espliciti, quantomeno fino a Novecento inoltrato, almeno prima di quella rottura – o oblio – della tradizione che ad esempio mette a fuoco Giorgio Ficara in Lettere (non) italiane. Se ne potrebbero agevolmente seguire le tracce per via di esempi, costruire catene poetiche: per esempio partendo dai petrarcheschi «grandi occhi ridenti» che «arsero d’immortal raggio il mio cuore» (nel quarto sonetto delle Poesie e transitando va da sé per le Grazie: «e se alla luna e all’etere stellato / più azzurro il scintillante Eupili ondeggia / il piè d’appresso a lei volgete o Grazie / e nel mirarvi, dee, tornino i grandi / occhi fatali al lor natio splendore») arrivare, con situazione rovesciata in una malinconia simbolista e liberty, al D’Annunzio di Autunno («Ella taceva, chiusa nella nera / veste ove sparsi erano fiori / pallidi, Autunno, come i tuoi che indori sul vano stelo / e china alla ringhiera / guardava il golfo silenzioso, china / come colei che un peso immane aggrava»). O spingersi fino al Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: «così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti chini / nello specchio», dove se pure non in un evidente calco ma in un altamente possibile gioco di rimandi, emerge in un contesto ancora foscoliano quell’essere «china» che ci parla di una diversa introspezione novecentesca. Non sappiamo in quale posizione la contessa Bignami delle Grazie in lacrime e «avvolta in lungo velo» guardi verso il lago, icona neoclassica d’un dolore esemplarmente racchiuso in una sublime e velata immagine sicuramente canoviana, e in apparenza lontana ormai dalla nostra sensibilità. Ma sappiamo che è ancora una volta questione di uno sguardo, anzi uno scambio di sguardi, di occhi, di – che D’Annunzio a questo si riferisse? – un «muto verbo».
La bellezza civilizzatrice – la Bignami è nel poema una delle tre sacerdotesse delle Grazie – non è tuttavia consegnata a un tempo e quasi a una geografia poetica ben delimitata, semmai a una mitografia, alla situazione archetipica dove si accampa l’occhio, lo sguardo, come qualcosa che brucia, arde, seduce. Fa parte dell’antropologia più che della metafisica, e non si può che narrare come ben sa Foscolo che crea al suo poema una cornice storico-cosmologica: «Quando apparian le Grazie, i cacciatori / E le vergini squallide, e i fanciulli / L’arco e il terror deponean, ammirando». Ovvero, come leggiamo nella Dissertazione del 1822 (scritta in inglese, citiamo qui dall’edizione del Chiarini, 1924), alla vista di Venere «i cacciatori, le donzelle, i fanciulli lasciarono cadersi di mano gli archi e gli strali e d’un tratto passarono dal terrore alla meraviglia, dalla ferocia alla gentilezza: lasciarono la caccia e divenner pastori».
È questo archetipo della bellezza salvatrice ciò che resta profondamente vivo nella poesia foscoliana, letta oggi, da noi, figli del secolo breve. Va da sé che è stato ampiamente sottolineato nella critica a partire almeno da fine Ottocento, che si ricollega a una tradizione antica, ha le sue radici nella latinità, rappresenta il fiero innalzamento di una tradizione alta, ma si farebbe un errore a darlo per scontato.
Senza di esso non si capisce – neppure oggi – il giovane ufficiale bonapartista e nemmeno il grande seduttore, perennemente innamorato, perennemente ribelle.
Foscolo e Stendhal possono essere benissimo compresi nella definizione tutta novecentesca di Iosif Brodskij, e torniamo al poeta russo e al suo discorso per il Nobel, quando invita a intendere, in senso «applicato» piuttosto che «platonico», «l’osservazione di Dostoevskij… o l’affermazione di Matthew Arnold che la poesia ci salverà. Probabilmente è troppo tardi per salvare il mondo, ma per l’individuo singolo rimane sempre una possibilità». Arnold, critico e poeta ottocentesco, scrisse nell’introduzione a una sua celebre antologia di poeti inglesi, The English Poets, nel 1880: «The future of poetry is immense, because in poetry, where it is worthy of its high destinies, our race, as time goes on, will find an ever surer and surer stay». Per il grande scrittore dell’esilio la poesia è, in accordo con Arnold, «la meta della nostra specie» visto che «l’essere umano è una creatura estetica più che etica». Siamo in pieno territorio foscoliano, di un Foscolo riportato a una concezione meno pre-romantica e più illuminista (il «senso applicato» di Brodskij), in qualche modo contemporanea. Va da sé che lo siamo in modo ancora più evidente – a romanticismo dispiegato – con il P.B. Shelley della Difesa della poesia, quando afferma che «i poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo». Il che può sembrare oggi derisorio, ma nulla ci impedisce di pensarlo come squisitamente ironico.
Bibliografia
Arbasino, A. 2008, L’ingegnere in blu, Adelphi, Milano.
Arnold, M. 2012, The English Poets: Selections With Critical Introductions By Various Writers, And A General Introduction By Matthew Arnold, vol. I., Nabu Press, Charleston, SC [Macmillan, London 1918].
Brodskij, I. 1988, Dall’esilio, Adelphi, Milano.
De Sanctis, F. 1952, Saggi critici, a cura di L. Russo, vol. III, Laterza, Bari.
Dolfi, A. 1990, In libertà di lettura, Bulzoni, Roma.
Ficara, G. 2016, Lettere non italiane, Bompiani, Milano.
Foscolo, U. 1981, Opere, Volume II, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, Milano-Napoli.
Foscolo, U. 1976, Poesie, introduzione e note di G. Bezzola, Rizzoli, Milano.
Foscolo, U. 1904, Poesie, edizione a cura di G. Chiarini, Giusti, Livorno.
Gadda, C.E. 2011, Accoppiamenti giudiziosi, Adelphi, Milano.
Gadda, C.E. 2015, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, Adelphi, Milano.
Harrison, Robert P. 2004, Il dominio dei morti, Fazi, Roma.
Nooteboom, C., 2015, Tumbas. Tombe di poeti e pensatori, Iperborea, Milano.
Onofri, M., 2017, Benedetti Toscani, La Nave di Teseo, Milano.
Shelley, P.B., 2013, In difesa della poesia, Mimesis, Milano-Udine.
Starobinski, J. 1975, Stendhal pseudonimo, in L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, Einaudi, Torino.
Stendhal 1990, Roma, Napoli, Firenze, Laterza, Roma-Bari.
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