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diretto da Romano Luperini

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Duri i banchi!

  Era il motto dei marinai delle galee veneziane nel momento della battaglia. Si riferiva all’atto di tenersi saldi ai banchi dell’imbarcazione. Mi piace di più di un semplice «nervi saldi» e mi pare apotropaico!

Così scriveva un amico ad un amico comune qualche tempo fa per spiegare la formula augurale che gli aveva dedicata. L’espressione mi è piaciuta molto, perché proviene da un altro mondo, vivo secoli fa, e parla in un’altra lingua del coraggio che si deve avere in una situazione estrema. Poi, devo ammetterlo, mi ha fatto ridere nell’anno in cui si è parlato tanto dei banchi dell’onorevole Azzolina, ex ministra nostra. Ma in questi ultimi giorni, al rinnovarsi di preoccupanti stereotipi relativi alla scuola e agli insegnanti meridionali (categoria a cui appartengo), mi son detto che bisognava avere nervi saldi. E mi è tornata in mente quell’espressione: questa volta, però, la risata mi è morta in gola per due simultanee ragioni. La prima è che il momento è estremamente preoccupante per il futuro prossimo venturo della scuola e degli insegnanti (anche se non meridionali). La seconda è nel leopardiano Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani

Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, […] perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze.

Per quanto le circostanze superiori alle mie forze giustifichino il riso, il rimprovero è netto. Ma poi Leopardi dal particolare passa al generale e puntualizza

Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci.

Il cinismo italico conduce all’individualismo che si esprime in ostile misantropia, tanto che

la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di muoversi gli uni agli altri.

La mancanza di società non è caratteristica soltanto degli italiani del 1824, a sentire come in genere si discute di questioni nazionali e, in particolare, si parla della scuola nel 2021. E rispetto al cinismo e all’ostilità ostentate non è più tempo di ironia. Cercherò dunque, a rischio di apparire banale, di mettere in luce dati di fatto, oscurati o deformati nel racconto che si fa della scuola per mezzo di luoghi comuni (che, ovviamente, sono considerati indubitabili verità). Esprimo qui un punto di vista che considera acquisito quanto è già stato chiaramente espresso su questo blog, e perciò non lo ripeterò, da Stefano Rossetti e Luisa Mirone.

Tradunt

Si dice che la scuola deve ripartire. Ma il dato è che la scuola non si è mai fermata. E per essere più esatti anche quando l’attività didattica è stata formalmente sospesa, nel marzo 2020, gli insegnanti – che non erano tenuti a farlo, proprio perché l’attività didattica è stata sospesa – hanno continuato a lavorare. Per alcuni è stato un gravissimo errore, per altri è stato un imperativo morale che li ha indotti a mantenere il dialogo con le ragazze ed i ragazzi che erano stati loro affidati e che si sono fidati di loro. In tutta coscienza, come moltissimi altri, non mi pento affatto di essere stato in costante connessione, meglio, in costante relazione con i ragazzi. Non avrei potuto e non posso fare altrimenti, perciò non si è trattata etimologicamente di una scelta. Per questo non ho nessun bisogno che qualcuno mi ringrazi. Ma ho necessità che il mio ministro, di qualsiasi genere o provenienza sia, riconosca che la pubblica istruzione si è retta, nei momenti più tragici della pandemia, sul senso morale, sulla deontologia degli insegnanti senza alcuna norma contrattuale o obbligo di servizio. Sarebbe opportuno che il ministro informasse orgogliosamente l’opinione pubblica di quanto è stato fatto e si sta facendo pur tra mille difficoltà. Sarebbe giunto il tempo che un ministro difendesse il nostro lavoro, la nostra fatica, la cui utilità sociale è stata evidente solo per qualche istante… Ma già il condizionale mi allontana dalla realtà.

Si dice che bisogna restituire il tempo perduto. In parte dovrei ripetere quanto detto nel punto precedente. Qui mi interessa rilevare che il progetto di allungamento dell’anno scolastico e di attivazione di corsi di recupero pomeridiani parte dalla presunzione, non dimostrata da alcun dato, che si siano perse alcune ore: gli insegnanti devono restituire le ore non lavorate. Ma se ciò fosse accaduto il Ds di ogni scuola avrebbe dovuto rilevare l’assenza di servizio. Se ciò è effettivamente accaduto, ovviamente, bisognerà compensare dal punto di vista orario. E forse così si dovrà fare in quelle situazioni locali o regionali e in quegli ordini di scuole in cui parte dell’anno scolastico è saltato. Ma se le ore lavorate sono state quelle stabilite, allora non si vede cosa gli insegnanti dovrebbero restituire.

Si dice che bisogna recuperare gli apprendimenti. Questo è l’aspetto complementare a quello precedente: se anche l’orario di servizio è stato rispettato, bisogna recuperare gli apprendimenti che gli alunni hanno perduto. È singolare che questo giudizio così perentorio sia pronunciato dai difensori della opportunità di far svolgere le prove Invalsi. Ora è il primo caso della scienza, non solo statistica, in cui il risultato preceda la prova: a meno che non si sia certi che la prova darà l’esito previsto. Ma senza pensar male, bisognerà che i partigiani dell’Invalsi aspettino di avere i dati e poi suggeriscano i rimedi. In ogni caso – attualmente –  non abbiamo elementi che giustifichino questo refrain e ciò che è affermato senza alcuna evidenza a supporto è puro pregiudizio. Un secondo aspetto che induce a rifiutare l’idea che l’aumento delle ore restituirà gli apprendimenti smarriti è che si tratta di un grossolano atteggiamento quantitativo (più ore studi, più cose impari), che si appoggia sull’idea dell’alunno-sacco-da-riempire. Di questo non vorrei discutere, ma consiglierei chi afferma cose del genere di aggiornare la propria biblioteca pedagogica e fare qualche ricognizione sulle esperienze didattiche degli ultimi trent’anni, perché risulti evidente – anche a chi non lavora con i ragazzi – come sia improponibile nel 2021 credere che il percorso formativo di un adolescente possa essere sensibilmente migliorato dall’insaccarlo di informazioni a giugno. La produttività non ha niente a che fare con la produzione: è un’ovvietà della scienza economica che fa difetto agli economisti che parlano di scuola. Aumentare le ore a fine anno scolastico, anche secondo questo approccio, non ha alcun senso.

Si dice che bisogna prolungare l’anno scolastico. Dobbiamo all’onorevole Gelmini, ex ministra nostra, la riduzione delle ore di insegnamento senza che questo suscitasse alcuno scandalo nell’opinione pubblica dal Berlusconi IV (2008-2011) in poi. Diminuire le ore settimanali di Italiano e Matematica, tanto per far riferimento alle materie del test Invalsi di allora, non ha suscitato alcuna esitazione a fronte di risultati preoccupanti. Né mai più, perdurando risultati preoccupanti (seppure diversi), si è pensato di restituire ad Italiano, Storia, Matematica etc., l’ora decurtata. Anzi, per agevolare gli apprendimenti trasversali si sono diminuiti quelli disciplinari: è stata aggiunta l’educazione civica, almeno 33 ore annue obbligatorie, senza titolare di cattedra, perciò spalmate tra le varie materie. Ma anche questo pare non danneggi lo svolgimento dei programmi. Come non danneggiano gli apprendimenti disciplinari i PCTO (almeno 90 utilissime ore nel triennio dei licei). E mentre piangiamo sulle ore perdute in Dad e gli apprendimenti annientati a distanza, ulteriori novatori di tanto in tanto si affacciano a proporre la riduzione dagli attuali 5 anni della secondaria di secondo grado a 4 anni. E un anno in meno in quel caso non sarebbe affatto un danno. Ma ho promesso di non ridere.

Si dice che la Dad non ha funzionato. Ma non si dice se ci si riferisce alla mancanza di banda larga, all’assenza di connessione efficiente, alla mancanza di strumenti (computer, tablet, smartphone), a condizioni di disagio (economico, ambientale o familiare) oppure di didattica. Nel secondo caso – ma in presenza di dati al momento non disponibili – è un problema di cui devono occuparsi non generici esperti, ma insegnanti che sono impegnati in questioni metodologiche e che hanno sperimentato buone pratiche (e scusate il didattichese) di cui il MI dovrebbe essere a conoscenza (nel senso che ne è a conoscenza, ma non usa i dati: li raccoglie e li archivia). Nel primo caso è evidentemente il problema del sistema paese, che al di là delle strombazzate innovazioni tecnologiche e di internet per tutti e delle magnifiche sorti, non garantisce a tutti i cittadini una connessione stabile e dignitose condizioni di vita. E a proposito dei paesi sperduti, delle cascine, e dei casolari nel nulla, che non sarebbero raggiungibili dal segnale, ricordo che internet è nato (a quanto dicono) per garantire le comunicazioni in caso di attacco termonucleare, e che da Marte riceviamo (ma con Perseverance) immagini in alta definizione e persino il rumore del vento: perciò non mi si raccontino fole. Il problema non è tecnico, ma economico. Per quanto riguarda l’assenza di strumenti a disposizione ed il disagio degli studenti, passo senz’altro al punto successivo.

Si dice che la Dad aumenta le disuguaglianze. La scoperta sorprendente dei fautori della scuola in presenza è l’esistenza di ragazzi che vivono in pochi metri quadrati insieme a genitori non facoltosi, fratelli-sorelle ugualmente impegnati in videochiamate, animali domestici più o meno presentabili, senza avere a disposizione una suite privata in cui ritirarsi per studiare o per collegarsi con il proprio device di ultimissima generazione. La Dad ha messo in luce che non tutti gli italiani sono benestanti. Ma le cifre fornite dall’Istat su povertà assoluta e relativa delle famiglie parlano chiaro: e le condizioni di disagio sono molto estese, molto più di quanto non si pensi. La Dad ha il merito di aver messo in luce il problema nazionale (certo più grave al sud, ma fosse solo del sud continuerei a definirlo problema nazionale) dell’indigenza totale o relativa. Come definire chi dice che tale problema si risolva riportando i ragazzi dentro le aule? Chi deve contendere lo spazio ad altri componenti della famiglia per connettersi (se ci riesce) su Meet, è lo stesso che deve contendere lo spazio ad estranei per avere una prospettiva di vita migliore e non solo per sfogliare le pagine di un libro. Se il ritorno in presenza serve per dichiarare che tutti gli studenti sono nelle medesime condizioni di apprendimento, si intende oscurare la realtà, far finta che non esista ciò che non vogliamo vedere, significa nascondere l’alunno e il problema sotto il tappeto. Non dovrebbe essere necessario ricordare che nel nostro stato democratico questi non sono problemi personali, sono questioni che attengono alla collettività. La soluzione per chi non ha un device o giga è semplice: la repubblica «rimuove gli ostacoli», dunque li fornisca a chi non li ha. Ma questo non esaurisce gli obblighi della società democratica, che deve combattere la povertà e la difficoltà economica, e non negarle. La disuguaglianza è nelle case nei redditi nei vestiti nel cibo nel lavoro delle persone reali. Se la Dad l’ha fatta emergere, bisogna ringraziarla. I laudatori della scuola in presenza nelle nostre belle e accoglienti aule (dico per antifrasi) vogliono soltanto nasconderla nella nebbia della retorica più stantia. Chi parla oggi di questa nuova disuguaglianza è il lupo travestito d’agnello. Ma io Esopo l’ho letto, ed anche Matteo.

Si dice che bisogna dare il voto agli insegnanti. Il presupposto è che gli insegnanti in maggioranza non sono bravi, e perciò visto che i soldi sono pochi, bisogna darli ai pochi che se li meritano. Strano ragionamento, seppure comunemente condiviso. Che diremmo di una ditta, di un’impresa privata, che avesse assunto e assumesse una schiera di incapaci? Quella ditta, quell’azienda, sarebbe da noi giudicata incapace di tutelare i propri interessi. Di chi è la colpa? Dell’impresa che li ha assunti. La soluzione sarebbe semplice: se esistono incapaci che insegnano nelle nostre scuole, bisogna rifondare il sistema di assunzione, in modo che siano assunti solo insegnanti bravi. Una volta assunti, lo stato garantisca l’alto livello dei suoi insegnanti, che certo poi devono studiare, aggiornarsi, come ogni bravo insegnante fa anche senza essere obbligato. Ma, se gli insegnanti fossero tutti bravi bisognerebbe dare a tutti la giusta mercede. Questo sarebbe in conflitto con la necessità (?) economica di tenere basse le retribuzioni. Basterebbe un giolittiano di inizio secolo scorso per spiegare che se si volessero incrementare i consumi e stimolare la domanda interna bisognerebbe avviare una politica di innalzamento dei salari. Ma i neoliberali odierni sono antigiolittiani. E gli stipendi degli insegnanti italiani sono miserevolmente bassi. Il confronto con l’Europa è impietoso, e piuttosto che prendere atto di una vistosa ingiustizia, ricominciamo con la stucchevole (così formulata) questione del merito. Dica il MI qual è l’identikit del bravo insegnante e controlli che nelle scuole le «risorse umane» vengano valorizzate, verifichi che chi è stato formato a sua cura sia considerato una risorsa nella sua scuola, chieda conto ai Ds di come usufruiscano delle competenze professionali degli insegnanti in servizio. Ma se il merito deve essere ratificato  a domanda sulla base di astruse griglie con indicatori quantomeno bizzarri, siamo certi che non verrà mai premiato. Come raramente, del resto, accade oggi. Lo sanno tutti, oggi lo dico.

Ricominciamo?

Se davvero si vuole ricostruire la scuola si parta rafforzando le sue fondamenta democratiche, che – pur insultate – si sono mantenute sufficientemente solide. Quelle fondamenta da sole non bastano, però. È necessario che il terreno su cui edificare sia adeguato alla costruzione. E fuor di metafora, una scuola democratica, di tutti e per tutti, con ottimi insegnanti, studenti che crescono e migliorano le proprie opportunità di realizzazione umana e perciò politica, famiglie orgogliose  dei progressi dei propri figli, ha bisogno di una forte società nazionale come voleva Leopardi. Una società stretta nel vincolo del comune interesse, fondata sulla solidarietà e non sull’ostilità nei confronti dell’altro, di volta in volta identificato come il nemico: il fannullone, l’insegnante, il meridionale, l’immigrato, il povero, lo sfortunato, l’incapace… Il noi è pronome impronunciabile nel paese di Guicciardini: l’italiano guarda soltanto al suo particulare. La scuola può aiutare a capire, serve a crescere, ma non può vivere senza una società che la accudisca, la protegga come elemento prezioso per la propria esistenza. Bisognerebbe avere un approccio olistico della scuola e bisognerebbe pretenderla all’altezza delle più alte aspettative. Quelle di cui parlava Piero Calamandrei che – nel 1950 come nel 2021 – mette in guardia sul possibile attacco alla scuola democratica da parte di un ipotetico partito dominante

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? […] (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A «quelle» scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

Attenzione, amici […]. Attenzione, questa è la ricetta. […] L’operazione si fa in tre modi: 1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. 2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. 3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione.[1]

Difendiamo la scuola democratica, pretendendo che sia una scuola ottima per tutti. Guardiamo ai destini generali… Duri i banchi!

[1] Difendiamo la scuola democratica, discorso al III Congresso dell’Associazione in Difesa della Scuola Nazionale, 11 febbraio 1950,  pubblicato il 20 marzo 1950 nel periodico “Scuola democratica”, Adesso in P. Calamandrei Per la scuola, Sellerio, 20083, pagg.93-5.

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