Is there an alternative? Just say yes. Luci e tenebre di SanPa
Inizio con un giudizio complessivo su SanPa: questa docuserie, creata da Gianluca Neri con una raffinata regia di Cosima Spender, un gran montaggio e una sceneggiatura accattivante, è un buon prodotto. Il documentario sulla comunità di San Patrignano e il suo fondatore Vincenzo Muccioli è il primo a marchio Netflix in Italia e per molti aspetti si associa con il modello consacrato dalla piattaforma streaming. Molti, infatti, hanno giustamente e puntualmente richiamato Wild wild Country, serie sul maestro spirituale Osho, che oltre ad avere delle simmetrie formali con quella ideata da Neri, presenta delle sorprendenti analogie con il racconto di Muccioli: due personaggi dal mistico retaggio che decidono di trasferirsi in provincia per salvare tutti coloro che hanno smarrito la retta via «…con ogni mezzo necessario». Piccola nota di colore: sono circa dieci giorni che è uscita la serie e, stando all’ultima volta che ho controllato, è al numero tre della “Top 10 in Italia” del palinsesto Netflix. Non sorprende quindi che l’eco prodotta sia vasta, tanto da aver coinvolto la comunità dei social (politici compresi), a suon di hashtag e dissing. Vorrei, però, lasciare da parte l’analisi della serie, vista anche l’ottima riflessione di Stefano Rossetti, e concentrarmi in particolare su alcuni punti che ho trovato problematici, continuando il dialogo con quanto espresso da Roberto Contu e Romano Luperini.
SanPa si avvale di un eccellente lavoro documentario che affida alle testimonianze dirette il racconto della comunità e soprattutto di Muccioli: un punto di vista interno e affascinante che se da una parte tenta di problematizzare il racconto, dall’altra per chi già conosceva San Patrignano o ha vissuto quegli anni probabilmente, aggiunge poco di nuovo. Lo spettatore ideale è, infatti, una persona che ha vagamente sentito parlare dei fatti, o estranea del tutto, potenzialmente, aggiungo, non solo italiana, dal momento che la serie è stata distribuita in contemporanea in 190 paesi. Questo punto risulta secondo me centrale per delineare schemi narrativi e rappresentativi dell’epoca. Infatti, nonostante l’ampio materiale su cui lavorare, il contesto trattato è sfocato rispetto al soggetto, mentre al suo posto abbiamo un ripiego verso l’intreccio che scivola pericolosamente nel biografismo e nella true crime story. La scelta di focalizzarsi su San Patrignano e il suo fondatore è buona, ma il racconto per rivelare le sue potenzialità euristiche avrebbe dovuto rinunciare alla puntualità della cronaca e diventare evento obliquo di un’epoca: ricollocare i fatti nella storia.
San Patrignano viene fondata nel 1978, sul finire dell’age of Destruction[1], parafrasando la celebre canzone che chiude L’incredibile storia dell’isola delle rose, film di Sydney Sibilla, sempre distribuito da Netflix, su Giorgio Rosa, istrionico ingegnere pronto a costruirsi un proprio stato pur vivere in piena libertà, fuori dalle leggi italiane. La snella cornice introduttiva ci informa che la mafia nel corso degli anni settanta iniziò a inondare le strade di droga a basso costo, compromettendo il futuro di un’intera generazione, mentre campeggiava la massima thatcheriana There is no alternative, espressione di uno status quo ineluttabile, segnato dalle politiche neoliberali e dalla globalizzazione, che erose precipitosamente la presenza statale. Come si colloca San Patrignano in questo scenario è affidato a pochi brandelli di repertorio, che circondano il vero interesse della storyline: Vincenzo Muccioli. Il suo metodo, il cui nucleo originario sembra il Just say no della campagna antidroga promossa da Nancy Reagan, – perché «non è la roba a venire da te, sei tu che vai dalla roba», avverte Muccioli nella scena iniziale del documentario- si pone come baluardo all’evanescenza della figura paterna, la legge che ti salva nonostante te stesso (a costo delle catene, della costrizione e della punizione), messa sotto scacco dal progressismo del decennio precedente. Ritratto con le fattezze del padre misericordioso, il fondatore di San Patrignano con i suoi caldi abbracci è il buon padre di famiglia che salva imponendo. Just say no non è una scelta, né una questione di volontà dell’individuo: «io vi devo dare aiuto, e in quel momento che io non vi lascio andar via. E se volete andare a tutti i costi, allora ragazzi io vi isolo». There is no alternative. Slogan a parte la risposta è complessa e merita un racconto all’altezza di tale complessità: deve guardare in faccia le storture di un’epoca che mentre liberalizzava, imponeva e impoveriva, senza dimenticare dall’altra parte l’effetto reale che l’eroina produce sui corpi e sulle menti.
È fuori da ogni dubbio che la comunità di San Patrignano abbia salvato delle persone (mi sono commossa nel vedere come negli anni ottanta Muccioli abbracciava i sieropositivi, mentre il resto del mondo in larga parte li evitava anche solo con lo sguardo), ma a discapito di quello che pensava Thatcher i mondi sono infiniti e i modi molteplici: ci sono alternative anche al metodo Muccioli e non riguardano solo il ricorso alla violenza, al male mentre si fa del bene, ma pertengono la valutazione del corpo e della volontà dell’individuo, cosa sia la dipendenza e la malattia che provoca. Questo non è un problema potenziale, ma strettamente correlato agli effetti prodotti dalla comunità e insito in un passaggio di decennio cruciale (l’anno in cui nasce San Patrignano è infatti l’anno della legge Basaglia), con il quale si misura la sanità di ogni sistema democratico.
SanPa ci prova a narrare quegli anni, ma la figura di Muccioli è davanti a tutti, come nel poster di serie, è lui che guida il racconto, invade ogni spazio narrativo con le sue vicende giudiziarie e in ultimo con la sua tragica, quanto misteriosa, morte: è lui la stravagante morbosa curiosità che attanaglia lo spettatore.
Per le prime puntate ho avuto lo stesso sgomento di Amerigo Ormea, protagonista di Giornata di uno scrutatore di Calvino- stoppavo e tentavo di parlarne con chi mi era vicino- poi il racconto si è lasciato seguire, conducendomi alla fine di una storia, e solo a conclusione mi sono resa conto dell’immenso dramma umano a cui avevo assistito. Avrei preferito non essere affabulata. Per narrare il dolore, la dipendenza, la tragedia che porta nelle famiglie ci vuole una certa grazia, non si tratta di sospensione del giudizio, o mettersi nei panni degli altri, ma dare voce a un turbinio di dubbi, sensi di colpa, azioni, ridare corpo a una riflessione critica in una prospettiva sociale e esistenziale mutata, a fronte di nuovi drammi storici. Certo, non si può trattare il fenomeno della tossicodipendenza con un’interpretazione sociologica meccanica, ricorrendo a un Freud di maniera. Nemmeno la comunità di San Patrignano doveva essere un MacGuffin, un espediente narrativo, per parlare di altro, rischiando di perdersi in mille rivoli dialettici. Problemi aggirati dalla serie, se non fosse che l’eccessiva reductio a Muccioli fa perdere di fuoco il contesto, già di per se complesso, troppo vicino e spesso personale, e che alla fine sbiadisce per diventare aneddoto, citazionismo e contorno, senza sottrarsi alla cronaca che non riesce a trattare tematiche universali nella sua dimensione storica concreta e problematica.
D’altra parte, queste possono essere considerazioni di poco conto, scelte di campo, registiche e di script, che non sottraggono spessore alla serie. C’è infatti una vera bellezza che è la forma di Sanpa, nella qualità delle riprese, nel controllo del setting e nell’accentuare carisma e fascino tramite regia, montaggio e sceneggiatura; se non fosse che in questa bellissima forma si cela anche il suo peccato. A Radio Popolare Gianluca Neri ha affermato che aveva in cantiere un’altra serie sull’omicidio di Yara Gambirasio sempre per Netflix, ma visto che era stato battuto sul tempo da un’altra produzione ha ripiegato su Muccioli e San Patrignano. La cronaca diventa un repertorio dove pescare la storia più problematica e affascinante, su cui avere l’esclusiva, e che riduce ogni figura al suo privato, così SanPa non poteva non finire con la misteriosa morte di Muccioli e la valutazione sulla sua persona. Tutto questo è affidato al giudizio popolare, che somma al crime giudiziario un giallo sociale, segnato da quelle percentuali di gradimento sintetizzate dai mass media, che costituiscono un problematico rapporto a tre nelle nostre democrazie contemporanee: ancora oggi quotidianamente lo vediamo. Lo showrunner sembra conoscerlo bene; lo sa anche Netflix che spesso strizza l’occhio a prodotti che rappresentano questo rapporto pericoloso, ma che allo stesso tempo sembrano arrendersi al “siamo quello che siamo”, non possiamo farci nulla. I fatti devono diventare notizia, tramutati in storytelling tramite suspense, hype, dissing e fruiti in binge.
C’era davvero bisogno di aggiungere suspense? Di ricorrere al modello accattivante della true crime story? La risposta per me è ovviamente retorica, ma non sono né ingenua né cinica, neppure voglio essere eccessivamente critica verso la serie, perché qui siamo in presenza di un fenomeno che coinvolge tutti i media, dal cinema alla letteratura, non solo SanPa. In definitiva, “siamo quello che siamo”, ma si può ancora avere la forza di reagire a una latente morbosità voyeuristica in ognuno di noi, a rendere il lavoro della magistratura un’affascinante storia crime e a lasciare allo spettatore un deserto di fomento, isteria e giudizi lapidari; ma soprattutto si può avere ancora la forza di reagire al dilagare della cronaca. Oggi questo tipo di narrazioni sono dirompenti, non tanto in senso quantitativo, ma a livello degli effetti che producono. Non riusciamo a uscire da questo labirinto, assottigliando il confine tra fiction e non-fiction all’insegna della cronaca dei media. Non ci sono alternative?
Molti dei commenti che ho letto nei giorni scorsi e molte persone con cui mi sono scritta hanno espresso apprezzamenti per la serie, ma quello che mi ha colpito è che avevano una loro storia personale che si fondava direttamente o indirettamente con quella di San Patrignano e questo non per uso egotico della prima persona (intendiamoci qualcuno che ne abusa c’è sempre): erano spesso memorie di un passato prossimo, in cui l’io era il noi. Forse è questo che in fondo è mancato. Ricorrere a un intreccio accattivante, che sappia creare suspense su temi e soggetti scottanti è spesso una soluzione facile che può produrre anche ottimi risultati (come in questo caso); spesso è quella che viene richiesta dal produttore, dall’editore e dal pubblico; quasi l’unica di fronte a uno spettatore che deve essere catturato, affabulato, intrattenuto e che deve scegliere tra centinaia di contenuti il tuo. Ma anche in questo caso c’è un’alternativa, basta solo dirle sì, perché non siamo cronaca, noi siamo la Storia.
[1] Eve of Destruction di Barry McGuire.
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