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diretto da Romano Luperini

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Non solo fratelli e sorelle. La forma del creato nel Cantico di Francesco

L’immagine mentale che abbiamo di Francesco è solitamente legata agli affreschi di Giotto e alle parole dei Fioretti: gli uni e le altre volte ad esaltare il miracolo, l’eccezionalità della vita del santo. I Fioretti in specie, opera tardo trecentesca (Francesco era morto nel 1226), hanno costruito un bozzetto «o una leggenda aurea per laici» (C. Segre) che confinano il poverello d’Assisi tra le figurine atemporali delle favole. Francesco invece ha vissuto nel tempo della storia e ne ha sofferto le contraddizioni ed i conflitti. Ha scritto (o dettato) anche molto – e comunque di più del dotto Domenico -, specie in latino. Ma il suo testo più famoso, il primo della letteratura italiana, è il Cantico. Il mio vuole essere un tentativo di ricostruzione di un senso medievale, la restituzione di un significato secondo la sensibilità di un uomo vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo.

L’ordine del creato: alto e basso

Il Cantico si apre con tre attributi «Altissimu, onnipotente, bon» + un sostantivo «Signore», che indicano tre qualità, la Trinità, dell’unicità, Dio. Uno solo degli aggettivi è in superlativo assoluto, il primo, in incipit, è l’alfa che indica, grammaticalmente, il grado massimo: Francesco apre la sua preghiera indicando la dimensione verticale. Ma su una verticale è possibile indicare anche il punto basso, quello oltre il quale non si può scendere. La parola che chiude il Cantico è «humilitate»: abbassarsi significa aspirare ad essere incoronati dall’Altissimo, piegarsi per essere innalzati. Dunque il punto basso, cristianamente, geometricamente, quello da cui non ci si può risollevare, non può essere l’umiltà. Ciò che è agli antipodi dall’Altissimo è da rintracciarsi, invece, nella dannazione, che è «morte secunda» che fa «male» (v.31).

Dal «bon» Signore deriva ogni bene quindi il male non è una sua creatura: è la conseguenza dalla libera scelta di peccare degli uomini che non seguono le «sanctissime volutati» del Signore. Il male non è dei Cieli e non è neanche di questa terra: nella Natura non c’è male. L’antitesi Bene – male detta la disposizione spaziale: se il Signore è Altissimu, il male non può che essere bassissimo.

La nostra verticale è così tracciata. Vediamo, ora che l’abbiamo disegnata, di servircene per motivarne l’utilità.

Forêts de symboles

A partire da v.5 incomincia la teoria (di vera processione devozionale si tratta) di «Laudato» – ripetuto otto volte – che ci condurrà fino al «Laudate» del distico finale.

Le creature mentovate sono: «sole», «luna e stelle», «vento», «acqua», «focu», «terra», «quelli ke perdonano», «morte corporale». Rimangono, ovviamente, escluse dall’elenco le due non-creature antitetiche: l’Altissimo (da cui deriva il bene), la morte secunda (da cui deriva il male).

In primo luogo, notiamo – a smentire l’idea di un’ingenua enunciazione casuale delle creature – che la disposizione segue un ordine: il regolare sistema dell’alternanza maschile-femminile.

L’astro del giorno è la prima creatura chiamata in proscenio. «Frate sole» manifesta la sua supremazia sulle creature nell’avverbio «spetialmente», collocato ad inizio verso, seguito dal sostantivo «messor», che lo qualifica immediatamente come simbolo: dominus che rimanda a Dominus. Ma ciò non basta, Francesco ha un messaggio da comunicare, e certo non parla per enigmi alle anime semplici che ha davanti. Ecco dunque che esplicita: «de te, Altissimo, porta significatione.». Che il sole rappresenti o manifesti Dio è comunque cosa che rimanda ad un’altra cosa: Francesco sta spiegando a villani del Duecento che cos’è un’allegoria, e così la consegna, come cosa e non come parola, anche a noi.

Dal punto di vista cosmologico, poi, si sta disegnando una gerarchia discendente rispetto al vertice Altissimo: al di sotto di Dio sta il sole. Gerarchicamente inferiori al sole sono le generiche «stelle», che accompagnano la luna, che è inferiore gerarchicamente e fisicamente al sole da cui riceve la luce. Al di sotto della luna incontriamo l’aria, il «vento». Al di sotto è l’acqua, che è legata alla strofe precedente dal «nubilo» (v.13), da cui piove verso il basso, e perciò è superiore al fuoco, che al contrario tende dal basso verso l’alto. Al di sotto del fuoco, fisicamente, gerarchicamente, sta la terra, al di sotto della quale sono collocati gli uomini che, se sosterranno degnamente la prova della vita materiale fatta di violenza (perché altrimenti perdonare?), di malattie e sofferenze, potranno superare la loro infima posizione nel creato e raggiungere addirittura l’Altissimo, secondo una tensione ancora una volta dal basso verso l’alto. La morte corporale è al di sotto degli uomini, perché è ad essi subordinata: se saranno eletti è la porta, la via stretta che conduce a Dio. La morte corporale non si può evitare, anzi si deve desiderare, invece può evitarsi «la morte secunda» che conduce all’ipogeo «male».

Ecco dunque che tutte le creature sono collocate, e gerarchicamente ordinate, su un asse verticale.

La famiglia del creato

Il sole è la creatura collocata più in alto, e questo lo rende la  più alta tra le creature. Soltanto altre due creature, oltre «messor lo frate», hanno un titolo che le distingue dalle altre sorelle e fratelli: «sora nostra matre terra» e «sora nostra morte corporale».

Soffermiamoci sul rapporto che sussiste tra «nostra matre» e «messor».

Le creature sono tra loro sorelle e fratelli perché derivano dall’unico Creatore, sono dunque, e non solo ai suoi occhi, tutte uguali, ma l’essere fratelli e sorelle richiama l’idea di famiglia e dunque anche di padre e di madre: su un piano di assoluta uguaglianza, su un asse orizzontale, ecco che la famiglia del creato ha un padre e una madre putativi: il sole è il padre vicario del Padre, la terra la madre che «ne sustenta et governa» dopo l’atto creativo.

La radicalità del pensiero di Francesco consiste proprio nel considerare l’uomo uguale al vento o all’acqua e subordinato al sole e alla terra. Siamo lontani dalla concezione religiosa veterotestamentaria, ma, anche, dalle parole di Cristo la cui rivoluzione, semmai, è consistita nel dichiarare uguali, agli occhi del Padre, soltanto gli uomini.

La luce è bella

La «gloria» (v.2) dell’Altissimo, da intendersi come elemento luminoso, splendor gloriae, (Hebr.1,3; Apoc.21,23), si irradia come grazia su tutto il creato, diventa «grande splendore» nel sole che è «radiante», si attenua nella luna e nelle stelle che sono «clarite», a sottolineare il processo di diffusione dall’alto verso il basso della luce che, allontanandosi dalla sorgente prima, perde potenza e, per ciò stesso, rimanda al supremo fulgore. La significatione è che, se il sole è l’elemento sensibile che meglio può far intuire, analogicamente, l’inconoscibilità della grazia, le stelle,  pur nella tenebra notturna, sono il fioco richiamo alla luce del «celu». Pur nella tenebra, il Signore ci ha provveduto di un fioco lume che ci guidi.

La qualità luminosa stabilisce il legame tra sole, luna e stelle, fuoco, sottolineato dal medesimo aggettivo: «bellu» (v.8), «belle» (v.11), «bello» (v.19). Nel Cantico nessun’altra creatura è bella.

Sole e fuoco

La variatio («Et ellu è bellu»/«ed ello è bello» vv. 7/19) sottolinea la funzione sostitutiva del fuoco rispetto al sole, che, a sua volta, ha una funzione vicaria rispetto all’Altissimo, che è la Luce .

Il sole è il mezzo grazie al quale il Signore illumina «noi», il fuoco  è il mezzo grazie al quale il Signore illumina «la nocte»: la distanza gerarchica consiste anche nel diverso complemento oggetto.

Ma bisogna aggiungere qualcosa. Il fuoco, in assenza del sole, è portatore di luce, ma abbiamo visto che la notte è provveduta, a nostro vantaggio, di astri luminosi: dunque, qual è la funzione, il senso, del fuoco?

La luna e le stelle stanno «in celu», il fuoco, invece, ci è vicino, è in basso accanto a noi, sulla terra, e tende verso l’alto: è il volto familiare della promessa di ascensione. Il fuoco ci protegge (è «forte»), resiste agli insulti esterni (è «robustoso»), dà gioia (è «iocundo») proprio perché è luminoso («bello»): dilegua la tenebra, la minaccia, il peccato, il male. La sua sola esistenza potenziale ci conforta e ci aiuta ad affrontare senza timori la notte. Il suo significato consiste in questa funzione rassicurante, fermo restando l’esplicito richiamo ad una della quattro virtù cardinali (fortezza).

La sofferenza che salva

L’ingresso dell’uomo tra le creature del Cantico è marcato da «infirmitate et tribulatione», che affermano la realtà della sofferenza, dalla quale dipende il premio, la corona, dei martiri. Ciò significa che, per Francesco, ogni cristiano, nell’oscurità della sua anonima esistenza, può diventare testimone di Cristo, se sarà capace di sopportare le comuni sofferenze terrene (Act. 14, 21). Se tali sofferenze non esistessero l’uomo non potrebbe testimoniare la sua fede in Cristo, il cui ruolo salvifico consiste proprio nell’incarnarsi che è decidere di provare la debolezza, la sofferenza, la morte dell’uomo. Dunque, bisogna essere grati a Dio che consente a comuni peccatori il privilegio di assumere i comportamenti che ha concesso al suo Figlio. Ma bisogna insistere sul fatto che la corona è propriamente quella dei martiri, che testimoniano con la loro sofferenza – qui è quella comune a tutti gli uomini, sostenuta con forza (cristiana) e umiltà (francescana) – la volontà del Signore. Forse la santità consiste proprio nel sopportare e la testimonianza, degna del più alto premio, nell’umile sofferenza senza volto, senza nome, senza pubblico. Forse soltanto un santo come Francesco poteva, così, di sfuggita, mettere in dubbio il senso del culto dei santi.

Morte e vita

Secondo un procedimento logico consequenziale, alla sofferenza e alla malattia segue la morte.

Terra e morte sono propriamente nostre perché riguardano la nostra dimensione terrestre e terrena, che è la dimensione corporea (il nostro corpo non è forse impasto di terra, e non ritornerà polvere alla terra?).

Se la terra madre sembra significare la vita, in contrapposizione alla morte, in realtà l’antitesi si risolve nella concordia di fenomeni, unicamente fisici, interdipendenti: la morte corporea dipende dalla vita corporea, l’una e l’altra volute, anzi create, da Dio.

Ma, della condizione umana, questo è sicuramente l’aspetto meno rilevante, dal momento che il nostro destino riguarda un’altra morte e un’altra vita, eterne, immutabili, che ci saremo guadagnati durante il nostro effimero soggiorno terreno: dipende unicamente da noi riuscire a sostenere degnamente la prova. E si tratta sicuramente di una prova terribile se fare la volontà del Signore significa soltanto perdonare (le offese) e sopportare (ogni sofferenza). La visione appare tutt’altro che ottimistica.

Francesco ha ben chiara la distanza che intercorre tra piacere (dell’uomo) e armonia (del creato), tanto più che nostra madre Chiesa insegna che ogni piacere (corporeo) è peccato (che macchia l’anima) che si dovrà scontare con tribulationi (momentanee e terrene, nel caso più auspicabile). Dunque ci dobbiamo augurare di soffrire molto sulla terra, perché questo ci garantirà, a certe condizioni, un gaudio eterno.

Bestie

Il tema della morte merita di essere ulteriormente approfondito.

Se ciò che si descrive nel Cantico è un lieto universo naturale, così come generalmente si intende, allora fa specie l’assenza totale degli animali, che della natura sono elemento essenziale.

Gli animali non sono mentovati perché bruti, composti unicamente di materia corruttibile, che al termine di un’esistenza inconsapevole, si risolve in un’unica morte, quella corporale.

Del resto, nel medioevo, il «mondo animale è soprattutto l’universo del male» (Le Goff).

Dunque, se il Cantico vuole dare l’immagine di un mondo benefico, e proprio se è un’espressione di letizia e l’esaltazione lirica di Dio, non può trovarvi spazio una simbologia malefica.

Gli animali sono emblemi di una carnalità senza riscatto, simboli di una dimensione peccaminosa, da cui l’uomo può emanciparsi, soltanto se, grazie all’umiltà, accetta la sua dimensione terrena come momento espiatorio, e se, illuminato dalla grazia, è in grado di essere figura Christi, accogliendo nel verbum la vita eterna che è la vittoria sulla morte.

Gli animali, che non possono sperare di essere beati (che non parlano e non capiscono la parola), come, per converso, non devono temere di essere dannati, sono dunque i simboli per eccellenza di morte assoluta e significano una dimensione esclusivamente terrena. Ora, nel Cantico, nessuna delle creature elencate è mortale. Certo, l’uomo è anche mortale, ma la lode a Dio «per sora nostra morte corporale» ha significato solo perché è quel dubbioso passo che ci riconduce al Padre.

L’uomo ha il privilegio di poter morire due volte, perché gli è stato promesso di poter vivere due volte; ma gli animali vivono una sola vita e, essendo esclusivamente materia, si annientano in un’unica morte.

La scala di Francesco

Abbiamo constatato che quello disegnato da Francesco è un universo gerarchico: rispetto a Dio le creature sono ordinate su un asse verticale. Ma, nei loro rapporti reciproci, esse sono collocate su un asse orizzontale: sono uguali (sono fratelli e sorelle). I due assi sono distinti ma non separati, essendo costituiti dagli stessi elementi, le creature, che sull’asse verticale dichiarano i propri rapporti gerarchici rispetto a Dio (e di conseguenza, secondariamente, rispetto alle altre creature), e sull’asse orizzontale la sostanziale uguaglianza di figli (frate e sora), pur nel rispetto della gerarchia familiare (messor e matre). L’intersezione dei due assi rende conto dell’unità nella varietà, che è l’armonia del creato, e disegna in modo inequivocabile il segno tracciato dalla mano di Dio: la croce. All’interno della circolarità del creato, che è l’equidistanza delle creature dal Creatore (il centro, il punto), si inscrive un ordine che è il simbolo della caduta e del riscatto, della morte e della salvezza. La croce per il cristiano è il segno della miseria, della colpa, della sofferenza, della morte ignominiosa del corpo, e proprio per questo è la sua ricchezza, il suo perdono, il suo riscatto, la gloria della sua resurrezione. Ciò che è inconcepibile per un loico è vero per un credente, ciò che è impossibile per un geomètra è compiuto dall’onnipotente. Francesco lo dichiara con i suoi strumenti medievali: le forme. La scala per raggiungere il Signore, per un cristiano, non può che essere la croce.

L’ultimo sigillo

Che Francesco avesse un immaginario formale che giustifichi l’interpretazione del Cantico che si è proposta è dimostrato in modo incontestabile da uno scritto di suo pugno. L’autografo Benedictio fratri Leoni è chiuso da «il Tau cum capite, il cui asse verticale attraversa la parola Le-o […]» (K. Esser). L’intersezione dell’asse verticale e dell’asse orizzontale è quindi segno dotato di significati simbolici e allegorici. Il suo habitus mentale di cristiano medievale, la sua vita aderente alla povertà evangelica, le sue aspirazioni, le sue sofferenze, la sua ignoranza, la sua cocciuta sottomissione, tutto Francesco insomma, si materializza e si riassume nella firma che ha scelto: il segno, la Croce.

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