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diretto da Romano Luperini

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À la guerre comme à la guerre. Notazioni sparse sulla distanza vista da vicino

 In principio dunque, non peste

In questo tempo strano, in cui il numero dei contagi continua a salire, il Ministero dell’Istruzione e il sistema burocratico (che tendono pericolosamente ad identificarsi) giocano con le parole. L’antilingua si arricchisce di acronimi. Se la scuola dell’emergenza era DAD, quella della ripartenza è stata DM, quella della cautela è DDI. La prima D è sempre Didattica, e che sia Mista significa che è in parte Digitale, e che sia Integrata significa che può essere integralmente Digitale, dunque si tratta di un’attività d’insegnamento/apprendimento sempre in sostituzione dell’attività in presenza, ma pare che non si possa più dire A Distanza, anche se l’evidenza dice che quella è. Se non è più consentito pronunciarne il nome, che si riconosca, almeno, alla prolifica DAD, già genitrice delle gemelline PIA e PAI, la paternità dei germani DM e DDI. Si tratta di neoformazioni linguistiche ad altissima frequenza sulla carta e sono contenitori vuoti. Tocca agli insegnanti – naturalmente – riempirli di cose. Si dirà che sto parlando di inezie, rispetto ai gravi, seri problemi dell’Italia e del mondo, e se non posso essere rimproverato da chi ha avuto l’idea di mettere le rotelle ai banchi di scuole in DSRBC (Distanziamento Statico Rime Buccali Chiuse), tuttavia:

Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. […] Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.

Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme […].

Manzoni, da cattolico, compativa le miserie umane (ma alla fine di un capitolo che è una requisitoria che inchioda alle loro responsabilità coloro i quali avevano la responsabilità di dire e di decidere). E, alla fine, anche gli insegnanti compatiranno, quando tutto sarà lontano. Ma non dovrebbero dimenticare, frattanto, e nel futuro prossimo e remoto, che hanno diritto ad un Ministero (come istituzione) che ha il dovere di osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Se accadesse o accadrà ce ne accorgeremo subito perché non parlerà in antilingua.

Paragonare e pensare

In questo tempo strano non può che esserci una scuola strana. E per quanto nella situazione odierna tutte le scuole secondarie di secondo grado si trovino nelle medesime condizioni, così non è stato fino a qualche settimana fa, e così non è per tutti gli ordini di scuole. Non sappiamo neanche come sarà neI prossimo futuro (con buona pace della Programmazione). Inoltre, la varietà delle soluzioni adottate a settembre dalle singole scuole all’interno della medesima regione, e la varietà delle soluzioni prospettate dalle regioni tra loro, sono diventate variabili impazzite di un sistema non governato dallo Stato. L’effetto che se ne è ricavato finora è una disomogeneità nei percorsi scolastici tra i diversi ordini di scuole e anche all’interno della secondaria superiore, con l’aggravante in quest’ultimo caso, di cui mi occupo, che tutti i percorsi – per quanto contorti e centrifughi – devono condurre tutti ad un unico, uguale per tutti, Esame di Stato.

Siamo sempre nel paese delle convergenze parallele.

Nell’attesa che il Ministero ci faccia sapere (ma temo dovremo aspettare primavera e un gran numero di morti) quale sarà la configurazione dell’Esame di Stato dell’a.s. 2020-2021, gli insegnanti lavorano, come possono, senza acronimi.

Moltissimi insegnanti hanno scoperto tra febbraio e giugno, in condizioni di necessità e molto spesso in disperante solitudine, di avere delle competenze digitali che hanno consentito loro di usare sparse conoscenze informatiche per mettere mano a piattaforme e dispostivi vari, in assenza di una qualsivoglia indicazione comune sul territorio nazionale. È accaduto così che durante un forzato autoaggiornamento, in tempi ridottissimi, gli insegnanti si siano resi conto – con stupore – di essere in grado di far fronte alle esigenze di insegnare a distanza. È l’esperienza di quei mesi tragici che ci aiuta adesso a riflettere su cosa fare e in che modo farlo per stabilire una relazione che sia significativa e formativa con i giovani che abbiamo sullo schermo. Nell’emergenza che ci ha colto alla sprovvista, mesi fa, abbiamo certo commesso alcuni errori, in questa emergenza, che avevamo previsto e temuto e che non si deve chiamare tale, vogliamo evitarli, mentre siamo assillati dalla normalità delle scadenze burocratiche sempre più destituite di senso. Eppure gli insegnanti, come hanno sempre fatto, osservano e ascoltano i loro studenti.

Osservare e ascoltare

La condizione a distanza consente di riflettere con più urgenza, rispetto al passato, sul rapporto tra visivo e verbale nel processo di apprendimento/insegnamento, che può aprire, a mio parere, prospettive interessanti nella comunicazione con i giovani. Quella che appariva la frontiera fantadidattica di corsi di aggiornamento teorici di tanti anni fa è ora una prassi con cui fare i conti. È patrimonio comune (come lo stereotipo dei nativi digitali) che la modalità preferita dai giovani contemporanei è quella visiva, cosa che si attribuisce all’invadenza (reale) della tecnologia nel mondo in cui viviamo e di cui sarebbero vittime in primo luogo i giovani. Sarebbe la decadenza dei tempi moderni che affermerebbe il primato della immagine. Ma se attribuiamo alla visione la sua qualità di evidenza forse, senza demonizzarla, potremmo considerarla come strumento utile alla conoscenza. Non voglio certo affermare la posizione estrema di quello scapestrato di Platone, evidentemente schiavo di un display, se afferma la superiorità della vista su qualsiasi altro senso. Ma se dal mondo greco-latino attraverso il razionalismo arriviamo alla fenomenologia  e alle neuroscienze, forse avremo il conforto necessario per non credere che quello che accade oggi ai nostri studenti sia soltanto una deprivazione culturale: se saremo in grado di sfruttare quello che abbiamo non è detto che ci si debba strappare le vesti rimpiangendo quello che non abbiamo. Del resto l’idea che sia impossibile stabilire un rapporto empatico e positivamente emotivo per realizzare  una warm cognition (D. Lucangeli) è contraddetta dalle caratteristiche tecniche del primo piano e del primissimo piano, che sono le uniche modalità che abbiamo per vedere i nostri studenti e per essere visti da loro. Come sa chiunque, si tratta di inquadrature che mettono in rilievo la psicologia di chi viene inquadrato, rivelano tensioni e reazioni a quanto accade, anzi, le espressioni del viso in primissimo piano trasmettono grandi significati attraverso piccoli segnali. Non credo sia necessario essere semiologi per decodificarli. E, per converso, l’intensità che useremo nell’affrontare un testo o un problema sarà chiaramente leggibile da parte degli studenti. È possibile perciò che si stabilisca una intensa relazione anche attraverso lo schermo, come dimostra, peraltro, l’esperienza che registra come molti studenti, e spesso quelli in più marcata difficoltà, e molti DSA, si trovino a loro agio e manifestino  significativi progressi anche relazionali a distanza. Non è detto, infatti, che stare vicini fisicamente significhi sempre essere vicini.

Quell’uom dal multiforme ingegno

Per chi, come me, insegni italiano è ovvio che il patrimonio letterario e la dimensione verbale della cultura abbia una rilevanza assoluta. E certo per chi è cresciuto sulla centralità del testo non è ammissibile perdere il contatto con la scrittura e la pagina scritta. Né di questo in realtà si tratta. Non si tratta di eliminare qualcosa nella nostra didattica, si tratta, per quanto possa apparire superfluo o contro natura, di aggiungere. La multimedialità era un’altra formula passepartout dell’aggiornamento che fu, ed espressione abusata nel didattichese delle carte. Ma se diventasse opportunità di sperimentazione per raggiungere in vari modi attraverso varie vie quelle competenze (tanto invocate quanto misconosciute) che devono svilupparsi a partire dalle conoscenze, allora non dovremmo pensare con terrore di dover abbandonare A Zacinto, piuttosto potremmo seguire la strada della ricerca azione ed utilizzare, tanto per rimanere nell’ambito del sonetto, le esperienze consolidate di Compìta, per esempio, declinandole alla didattica a distanza e dispiegando nell’evidenza della visione le strutture metriche e le frequenze e gli scarti formali. Oppure si potrebbe tentare la strada di un progetto pluriennale, forse più complesso, di cui si è dato conto qui. Certamente si tratta di modificare i tempi e di ammettere che il nostro lavoro, adesso, risulta essere più oneroso rispetto alla didattica in presenza, se non si vogliono ingolfare gli studenti di informazioni. Ma se si avrà la pazienza di intraprendere il cammino, sono certo che l’esperienza potrà essere gratificante per gli studenti e per gli insegnanti fusi in comunità dialogante operante e interpretante.  Bisognerebbe che si abbandonasse la prassi del controllo dell’insegnante che deve dimostrare di svolgere il proprio lavoro controllando, attraverso verifiche “oggettive” grigliemunite, le acquisizioni degli alunni. Bisognerebbe che si focalizzasse l’attenzione sul processo di arricchimento e formazione personale nel suo complesso, anche se non rilevabile all’interno di un quadrimestre. Bisognerebbe avere fiducia nel lavoro degli insegnanti, piuttosto che guardarli con la diffidenza dovuta a notori fannulloni.

Se tutto ciò accadesse sarebbe naturale mettere in atto, senza ansia, un rinnovamento dell’insegnamento e dell’apprendimento della letteratura, anche attraverso la scelta di operare dolorosi tagli nei programmi o di mettere in discussione la ricostruzione storicistica. A distanza abbiamo sperimentato la necessità di scelte che, probabilmente, non avremmo operato in presenza. Del resto, a distanza lo scorso a.s., è risultato forse più semplice con i ragazzi di quinto anno tenere in considerazione un ambito letterario che non fosse costretto nei confini nazionali, con grande vantaggio per la conoscenza “scientifica” della realtà del mondo contemporaneo, in cui non ha più molto senso parlare di letteratura italiana. Se l’obiettivo fosse davvero quello di aiutare la formazione di un cittadino consapevole non ci si accontenterebbe di una materia e di un voto senza un insegnante, ma si pretenderebbe un percorso complesso, guidato da insegnanti che non mettono il voto, ma che sono in viaggio insieme ai loro studenti.

Finalmente, peste senza dubbio

È noto come la “guerra nei confronti di un nemico invisibile” sia l’espressione diffusa, lo stereotipo linguistico che è frase idiomatica entrata trionfalmente nell’uso comune, per indicare questo tempo strano. Il guaio è che poi qualcuno crede davvero che siamo in guerra. È così che gli insegnanti, trasformati in milite ignoto, si trovano catapultati in trincea e devono partire all’attacco incuranti del fuoco delle mitragliatrici, dello scoppio delle granate o della mira del cecchino. Il nostro ministro che dovrebbe avere a cuore l’incolumità di chi le è sottoposto, ci mette sotto processo per abbandono di posto o violata consegna (art.124 del Codice Militare di Guerra), ci accusa, novella Cadorna, di viltà e disfattismo perché non vogliamo morire per la patria. Il nostro ministro ripete che le scuole sono posti sicuri e che i giovani si contagiano meno degli adulti, anche se altri dati mettono in dubbio le sue certezze.

Ma in attesa di un Armando Diaz, che abbandoni gli ordini strategicamente inutili e alla repressione preferisca la fiducia della truppa, è forse il caso di ricordare che – in guerra – è accettabile un certo numero di vittime (il che non ha mai reso felici, detto per inciso, chi è morto ed i familiari dei caduti), ma non in tempo di pace.

Non è accettabile – in pace – sia considerato accettabile che gli adulti, che lavorano a scuola, siano esposti ad un rischio di contagio maggiore rispetto a quello dei giovani.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […].

Articolo 32 della nostra Costituzione. La salute è fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Non c’è niente da aggiungere.

Siccome non ha nulla da nascondere, la Costituzione non è scritta in antilingua. Per questo nessuno la chiama CRI.

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