Contro l’ideologia burocratica
Il primato dell’organizzazione
Le riforme che si sono susseguite nella scuola degli ultimi quindici anni, da quelle più ambiziose e articolate (Gelmini, Renzi) a quelle più mirate e specifiche (ad esempio, i continui interventi sull’esame di Stato) presentano una caratteristica comune: un forte orientamento all’organizzazione di sistema ed una progressiva crescita nella burocratizzazione della professione insegnante.
L’enorme mole di Piani, Documenti, Rapporti, Patti e Regolamenti che le ha accompagnate fa sentire continuamente i suoi effetti attraverso monitoraggi, aggiornamenti, integrazioni e rinnovi.
In un simile quadro culturale, la domanda fondamentale per chi insegna tende ad essere come fare, anziché cosa fare, e soprattutto perché farlo. Questa spinta alla descrizione e alla rendicontazione del singolo passaggio di ogni azione formativa si salda infatti ad un malinteso pedagogismo, che colloca “il metodo” al di fuori di ogni discussione sull’epistemologia disciplinare.
La Didattica A Distanza è stata inserita dal legislatore con grande naturalezza in questo disegno, fornendo opportunità e risposte tecniche a questioni legate all’insegnamento.
Nella sua versione emergenziale – quella praticata da febbraio dello scorso anno scolastico – il forzato trasferimento sullo schermo delle azioni didattiche è stato considerato sinonimo di innovazione didattica, come se le potenzialità di una nuova strumentazione tecnologica per l’educazione si riverberassero automaticamente sui contenuti che esso veicola, sulle pratiche comunicative cui viene associato, sui risultati di apprendimento.
Quest’equazione risulta semplicistica. Non lo sottolineano soltanto i critici del digitale, spesso animati da preconcetti ideologici avversi alla tecnologia come strumento di formazione (esemplare il caso di Agamben), ma anche alcuni dei più seri studiosi dell’intreccio fra tradizione e innovazione nell’insegnamento: penso in particolare a Gino Roncaglia.
Tuttavia, l’impostazione di questo nuovo anno scolastico, ben prima che si passasse nuovamente in Didattica Digitale Integrata, ha confermato l’inclinazione a confondere medium e messaggio: così, come ho ascoltato di recente in un webinair De Agostini sul nuovo Piano per la DID (di cui tutte le scuole hanno dovuto dotarsi in questi primi mesi dell’anno) l’orizzonte atteso è quello del “digitale come norma”.
Discutibile in linea di principio, quest’orizzonte cozza contro una realtà in cui la tecnologia che dovrebbe supportare il progetto non funziona.
I docenti hanno di fronte a sé una scelta doppiamente obbligata: pianificare una bella lezione online, scegliere modalità, documenti e contenuti, progettare verifiche probanti, certo; prima, però, trovare un’aula vuota dove il wifi funzioni e il rimbombo non sia eccessivo, sperare che la linea regga, che gli studenti riescano a collegarsi e che siano pochi quelli che fingono malfunzionamenti, interrogare i colleghi informatici per esercitare un controllo durante le verifiche e validare le valutazioni.
Costrizione digitale e media education
Naturalmente, il riduzionismo tecnologico nulla ha a che fare con le potenzialità educative del digitale, che sono certamente notevoli ma andrebbero esplorate entro tre condizioni significative, oggi impraticabili: strumentazione efficiente; circostanze non eccezionali; libera scelta di strategie che contemplino l’utilizzo del digitale.
Tuttavia, nonostante esse oggi non ricorrano, è utile chiedersi come nell’ambiente della DDI si possano affrontare gli interrogativi fondamentali della nostra professione: il cambiamento di prospettiva (psicologica, comunicativa, culturale) imposto dal lavoro sugli schermi rafforza infatti l’esigenza di formulare ipotesi su alcuni temi chiave, che concernono, prima del come, perché e cosa insegnare.
Ci troviamo in una situazione gravissima, in cui abbiamo un bisogno assoluto di coinvolgere gli studenti, creando una comunità di valori e di lavoro. Dobbiamo farlo senza disporre della realtà fisica della scuola, che ci è negata. Allo stravolgimento della dimensione spaziale si accompagna una deformazione del tempo, per cui anche ritmi e sincronie abituali vengono modificati, e abbiamo in generale l’impressione di “avere poco tempo” e di inseguirlo. Infine, la sensazione di isolamento provata da molte colleghe e colleghi, indotta attraverso gli anni dalla progressiva riduzione di momenti comuni (le “ore buche”, per esempio) e da logiche di competizione fra gli insegnanti e di individualismo si concretizza in una solitudine reale, vissuta in un’aula vuota o a casa propria.
Come gesto di autodifesa, vorrei allora proporre alla discussione due grandi questioni, insieme culturali e didattiche, che anche nella dimensione virtuale dell’insegnamento risaltano in primo piano..
Per quanto la mia esperienza sia limitata alla secondaria superiore, spero che queste idee possano risultare utili anche a chi insegna in altri ordini di scuola.
Come salvare il valore delle conoscenze?
Agli occhi degli studenti, il valore delle conoscenze non si afferma con un atto d’imperio. Al contrario, qualsiasi imposizione in questa direzione si traduce in un atteggiamento ipocrita da parte loro. Una simile visione autoritaria fu definita nel 2010 da Paola Mastrocola (“Togliamo il disturbo”, Guanda, pag. 23):
La scuola è questo: l’insegnante spiega, l’allievo studia; l’insegnante interroga, l’allievo ripete
La separatezza dei ruoli e la passività intellettuale dell’allievo di cui qui si parla servono a ottenere obbedienza e servilismo, non una crescita culturale della persona; a meno che per “cultura” non si intenda un accumulo progressivo di nozioni. Tuttavia, il problema di “giustificare” il valore del sapere di fronte alle nuove generazioni (più in generale, ad ampie fasce dell’opinione pubblica) esiste.
La “didattica per competenze”, nel quadro della quale le conoscenze sono alla base di un costrutto teorico che le integra con abilità e atteggiamenti può certamente costituire un punto di partenza per una risposta efficace: senza togliere nulla al valore storico e identitario delle conoscenze, non le considera infatti autoreferenziali e museali, ma ne sottolinea la vitalità, rendendole parte di un vissuto culturale ed esistenziale autentico.
Nella DDI, il bisogno di colmare la distanza che spesso separa gli studenti (talvolta, classi intere) rispetto agli argomenti trattati è ancora più marcato; anche la sensazione di un “tempo contratto” ci induce a riflettere a fondo sull’equilibrio fra la quantità e la qualità delle conoscenze, riformando la prima (nel senso della riduzione) e la seconda (con il riconoscimento della centralità dello studente, portatore di un giudizio critico). Si rafforza la nostra consapevolezza che da un accumulo di conoscenze, per quanto numerose, importanti e validate dalla tradizione, non deriva di per sé una crescita nella capacità dei giovani di formulare ipotesi interpretative sulla letteratura, sul mondo in cui vivono e su se stessi.
Quali processi logici insegnare?
Come insegnanti, siamo alla ricerca di un equilibrio ragionevole fra l’oggettività (la trasmissione di concetti e contenuti di cui la tradizione critica e scolastica ha sancito l’importanza) e la soggettività (il desiderio che questo patrimonio non rimanga inerte, ma attivi nelle ragazze e nei ragazzi autonomi percorsi di pensiero).
Possiamo cercare quest’equilibrio attraverso l’esercizio e la costruzione di un pensiero che abbia alla base l’assimilazione e la condivisione di categorie, concetti e informazioni, e si apra poi a momenti di ascolto e comprensione reciproca.
In questa prospettiva, è importante chiedersi quali siano i percorsi logici fondamentali, che in qualche modo sussumono e sintetizzano il senso stesso dello “stare a scuola”.
Si tratta, credo, di due processi uguali ed opposti: il primo conduce dallo schiacciamento su se stessi e sul presente ad una ragionata apertura e confronto con “altri” da sé e con la distanza nel tempo (storicizzazione); il secondo avvicina il patrimonio storico e l’alterità culturale, nelle sue più diverse forme, alla dimensione individuale presente e al vissuto (attualizzazione).
Tenerne presente la centralità può confortarci, nella situazione di “assenza” e distanza nella quale lavoriamo.
La didattica digitale spinge infatti verso l’attribuzione di compiti significativi alla classe, nella forma di attività seminariali e di gruppo. Facilita inoltre l’incontro fra gli insegnanti, in particolare nella forma della compresenza. Queste dinamiche, potenzialmente virtuose, incidono anche sulle pratiche valutative, stimolando la sperimentazione di valutazioni diffuse e partecipative, lontanissime dal mito dell’oggettività.
Quale sarà la futura normalità?
Il complesso intreccio di questioni epistemologiche e culturali al quale ho appena accennato è stato terreno, attraverso gli anni e durante l’emergenza, di sperimentazioni ed esperienze significative.
Che quest’orizzonte alto e sfidante non stia altrettanto a cuore al Ministero è però sensazione diffusa, corroborata soprattutto dalla nozione e dalle esperienze di “didattica mista”. Su questa modalità di insegnamento ha scritto parole definitive Luisa Mirone: della disintegrazione di qualsiasi comunicazione efficace alla quale conduce, dell’impossibilità di focalizzare l’attenzione di docente e studenti su un oggetto di studio, non dovrebbe meritare nemmeno di accennare.
Tuttavia, non possiamo nasconderci che questa forma di didattica nasce proprio dall’ideologia del controllo burocratico di cui si parlava all’inizio: traduce infatti in norma la volontà di fare apparire la situazione sotto controllo, di negare la complessità della realtà in nome di una rappresentazione ordinata, formalmente ineccepibile.
Che questa volontà di disegnare precisi congegni burocratici, tanto perfetti sulla carta quanto distruttivi nella realtà, finisca con la fine dell’emergenza non siamo affatto sicuri.
Per questa ragione, è necessario che ci opponiamo al primato dell’organizzazione.
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