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diretto da Romano Luperini

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Sulla morte di Samuel Paty, 16 ottobre 2020

 Nessun insegnante può sentire o leggere la notizia della decapitazione di Samuel Paty, il collega francese “punito” per il contenuto di una sua lezione sulla libertà di espressione, senza provare sgomento, rabbia, paura. (La notizia di una decapitazione. Non una coltellata, non un colpo di pistola, nemmeno una bomba: una testa mozzata e mostrata su Twitter, la versione domestica dei video mostruosamente efferati dell’Isis). Ma ci sono altri dettagli inquietanti. La lezione del collega sulle vignette su Maometto risale al 5 ottobre. L’omicidio è maturato nell’arco delle due settimane successive, durante le quali Samuel Paty è stato minacciato e sottoposto a una campagna diffamatoria sui social da parte dei genitori degli allievi. Inoltre, intorno alla figura dell’assassino prende corpo un folto gruppo di parenti fondamentalisti, poi fermati dalla polizia, se non una vera e propria rete di contatti con il terrorismo islamico. Non è un irrazionale gesto di violenza isolata. Da tempo si è rotto qualcosa nella società francese e nella sua scuola, quello spazio idealmente aperto e libero in cui si prende la parola tutti insieme.

Al centro della tragedia, ancora una volta, le vignette di Charlie Hebdo. Evidentemente lì c’è una piaga purulenta che non riusciamo a sanare. E non è strano, perché quelle vignette sono il punto di conflagrazione di una molteplicità di questioni che non è facile tenere insieme senza che esplodano: libertà di espressione, illuminismo, modernità, tolleranza, blasfemia, diffamazione, sensibilità culturali, universalismo e culturalismo, ritorno del barbarico nel cuore stesso della civiltà della tecnica, ordine pubblico e sicurezza, impotenza della scuola a educare alcuni figli di immigrati ai valori della convivenza in società multietniche (ma per i giovani banlieusard francesi non dovrebbe essere del tutto improprio parlare di “figli di immigrati”? Non sono francesi da due, tre generazioni? La domanda vale anche al netto del fatto che l’omicida in questo caso fosse ceceno e non provenisse dalle ex colonie).

La satira, genere ambiguo

Non insegno in Francia, un paese con una storia di immigrazione e la presenza di un radicalismo islamico che non sono le nostre. Ma l’abisso che separa una lezione sulla libertà di espressione da una decapitazione è incolmabile, terribile. Ci sgomenta. Che cosa è successo? Posso partire solo dalla mia esperienza.

Finora, nelle scuole in cui ho insegnato, mai ho dovuto affrontare le conseguenze di imbarazzi o fastidi o ostilità da parte di studenti e genitori per il contenuto di una mia lezione. Se nessuno oggi si scandalizzerebbe più delle parolacce di Leopardi – anzi lo rendono umano –, potenzialmente delicata è la lettura del Maometto dantesco, ma ho potuto portare in classe anche quella.

Soprattutto ho potuto leggere, senza che si manifestassero reazioni di rigetto – giusto qualche sopracciglio alzato, qualche osservazione più stupefatta che indignata –, le oscenità sessuali, misogine, omofobe, razziste (antielleniche e antiorientali, come sempre negli scrittori latini) di Giovenale, per ragionare sulla ambiguità della satira.

Questo genere letterario infatti usa la deformazione e lo straniamento (la caricatura, il ridicolo, il paradosso, il rovesciamento, lo stravolgimento grottesco e talvolta disumanizzante delle figure) per additare una norma morale, a scopo di conformazione insomma. La satira non è la comicità, non è divertente, leggera, divagante: il satirico è un atrabiliare che ride del mondo perché lo vuole fustigare, anzi, spesso scarica su di esso una certa aggressività libidinale. Quando leggiamo i satirici latini in classe, non riesco a non nominare Beppe Grillo, che è quasi archetipico: lo sberleffo ai potenti, il vaffanculo alla casta, gli attacchi alla corruzione di Craxi, erano e sono la evidente manifestazione di un desiderio di pulizia, trasparenza, moralità e di un disgusto per la corruzione e il degrado di questo mondo. Con gli studenti uso un’immagine icastica: il satirico è un animale doppio, da un lato dispettoso e caustico satiro, dall’altro severissimo censore. Un sovvertitore della morale e un moralista al quadrato.

Mi pare che le vignette di Charlie Hebdo non facciano eccezione. Lo sberleffo blasfemo delle sue figure di ebrei, musulmani, cardinali, papi dinoccolati e ridicoli rivela il desiderio, nemmeno troppo inconscio, di un mondo interamente composto da atei libertari e irreligiosi che hanno smesso da un pezzo di credere in superstizioni da bambini scemi di quattro anni. Ma la religione è un fenomeno antropologico complesso. Irriderla può manifestare un sentimento anticlericale, ed è allora critica del potere (dal basso verso l’alto, dal debole verso il forte); ma può anche avere l’esplicita intenzione di urtare la sensibilità dei credenti, e in questo caso la direzione dell’irrisione diventa molto più ambigua (dall’alto verso il basso? dal forte verso il debole?). In occasione delle vignette sul terremoto del 2016 in Italia, in cui, sotto la scritta «Sisma all’italiana», i morti erano rappresentati come condimento di strati di macerie disposti come strati di lasagne, persino il direttore di un giornale sfrontato come Il Vernacoliere mosse severe critiche a Charlie Hebdo, e un artista che certo non le manda a dire come Daniele Luttazzi parlò di «sfottò fascistoide», pur aggiungendo che non ci doveva essere alcuna forma di censura: di fronte a una vignetta legittimamente scritta da «teste di […]», così scriveva, noi abbiamo il legittimo diritto di dire che lo sono. La satira «è giudicabile». È una presa di posizione più sottile della semplice difesa senza se e senza ma della libertà di espressione, perché individua due livelli: la libertà di espressione ci fornisce un quadro di riferimento entro il quale la dialettica reciproca è però aperta, agonistica, dura. Ma il gioco funziona soltanto se i due livelli non collassano l’uno sull’altro.

Violenza simbolica

Sembra una domanda sciocca: la satira di Charlie Hebdo è “di sinistra” o “di destra”? È irrilevante, risponderà giustamente chi difende la libertà di espressione: va garantita comunque. Tuttavia, quel che sembra ovvio sul piano giuridico e degli ideali normativi potrebbe esserlo meno sul piano politico, sociale, culturale.

Scrivere una vignetta che associa Aylan, il bambino siriano riverso sul bagnasciuga in una foto celebre, agli arabi che a Colonia, la notte di Capodanno del 2016, molestarono diverse donne, rappresentandolo adulto, con la lingua di fuori, che insegue dei sederi per palpeggiarli, domandandosi «Chi sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?», non è un messaggio che potrebbe funzionare bene come tweet di Le Pen, Meloni o Salvini?

È satira, si dice, è letteratura, libera per definizione: ma anche l’idea dell’autonomia e universalità dell’arte è una costruzione culturale relativamente recente (dell’arte borghese otto-novecentesca). Questo principio vale anche oggi? Nella società dello spettacolo e dell’immersione perenne nella mediosfera, il confine netto tra il campo simbolico dell’arte, relativamente autonomo, e il campo del reale è diventato da un pezzo una sfumata e confusa zona di transizione. Oggi una barzelletta razzista al circolo canottieri di Brembate genera proteste in piazza a Bombay.

Proprio la destra populista e xenofoba, sui social network e in tv, è perfettamente in grado di giocare su questa ambiguità: quando Salvini dichiara che si andrà casa per casa a stanare i clandestini, evoca intenzionalmente uno scenario che sa di retata nazifascista, ma non lo dice alla lettera, non lo farebbe davvero, né invita davvero a uscire di casa alla caccia di stranieri. Il suo è “solo” un tweet: linguaggio. Eppure produce un effetto politico reale: al limite minimo ottiene voti, al limite massimo, a furia di accumulare simboli, finisce per armare la mano di qualcun altro, che si incarica di tradurre la rappresentazione linguistica in atto.

Da qualche decennio viviamo un clima culturale che ha messo al centro delle proprie riflessioni i valori pragmatici e performativi del linguaggio: la teoria degli atti linguistici ci ha spiegato che è possibile “fare cose con le parole” (“vi dichiaro marito e moglie” è una formula verbale, ma produce un effetto sulla realtà); gli studi culturali hanno decostruito le pretese universalistiche e ricondotto le culture ai loro nessi sociali e pratici; la critica letteraria si è orientata agli effetti sul lettore; l’arte ha abbandonato il campo del figurativo per occupare quello del performativo; l’attenzione verso il non offending language e le discussioni sull’appropriazione culturale ci hanno ricordato – anche se molto spesso con un eccesso di zelo perbenistico – che anche le parole e le rappresentazioni artistiche e cinematografiche possono esprimere dominio; abbiamo realizzato che le statue dei colonizzatori per qualcuno non sono solo documenti storici o monumenti, ma concreti atti di perpetuazione del colonialismo.

Aggiungiamo che i mass media, e i social network in particolare, hanno consentito una circolazione potenzialmente senza confini alle nostre parole e opere d’invenzione, così che il contesto e i codici necessari a interpretarle vanno persi e la loro ricontestualizzazione trasforma quella che in un paese occidentale laico è una vignetta satirica in un atto linguistico di tutt’altro tipo all’altro capo del mondo. Le interpretazioni si sono fatte instabili. La sicurezza di poter essere compresi è sempre meno scontata. Il confine tra violenza reale e violenza simbolica si è assottigliato.

In classe

Ho detto che contenuti potenzialmente scandalosi non sono mai stati un problema per me, nelle mie lezioni. Ma le cose potrebbero cambiare, le sensibilità mutano. Domani, leggere la descrizione sessista della matrona Mevia, che con le mammelle nude e lo spiedo in mano va a caccia di cinghiali maremmani nell’arena, offrendosi come una svergognata allo sguardo degli spettatori dei giochi gladiatori (Giovenale, satira I), potrebbe turbare qualcuno ed essere mal interpretato. Ma non c’è bisogno di ricorrere al verbo al futuro.

Venerdì, il giorno successivo all’omicidio del collega, mi hanno dato una supplenza in una seconda non mia. Ho proposto loro di parlare di quello che era successo. Abbiamo letto un paio di articoli, visto alcune vignette di Charlie Hebdo. Erano ragazzi che l’anno dell’attentato alla redazione del giornale avevano 9, 10 anni, non ne ricordavano granché. Qualcuno ricordava, con indignazione, la vignetta sul ponte Morandi. Il bilancio della lezione ha confermato un’impressione, già maturata con classi che conosco bene, sul senso comune degli adolescenti di oggi: le varie forme della libertà personale per loro sono come l’acqua per i pesci, un dato di natura. Libertà di esprimersi e assenza di censura sono cose ovvie, che non è necessario tematizzare. Quello che invece si tematizza è altro: la reciprocità, il rispetto, il dovere di non offendere. È controintuitiva l’idea che la libertà di espressione valga soprattutto per tutelarci in quei casi in cui la cosa che diciamo non piace a qualcun altro e per tutelare l’altro dalle nostre reazioni quando dice qualcosa che non piace a noi.

In effetti, provando a chiedere ai ragazzi se accetterebbero forme di censura preventiva, e se non credono che un principio come “è vietato offendere” ci lascerebbe in balia di un’aleatoria “sensibilità personale”, viene fuori la classica formazione di compromesso: no, la censura è sbagliata, però… Però molti non se la sentono di dire “je suis Charlie”.

Questo è il senso comune e di qui bisogna partire. La blasfemia, lo humour nero e aggressivo di Charlie Hebdo, seppur non sono propriamente un tabù, sono forme d’espressione per la cui tutela non si scenderebbe in piazza. La libertà è una sfera di relativa tranquillità e benessere personali, da non turbare. Il gusto della provocazione libertaria non è comprensibile. Qui c’è un limite umano, tangibile, su cui l’appello a forme di tolleranza astratta, o percepite come tali, non fa presa.

Metafore, gioco, realtà

A scuola ci prendiamo la libertà di affrontare con spirito critico qualsiasi argomento. Possiamo parlare di temi difficili o censurabili, perché è un luogo in cui viviamo due passi indietro rispetto alla realtà e proviamo a smontarla e capirla. La scuola è un luogo in cui si gioca al “come se”, all’“ora facciamo che”. Un luogo che maneggia simboli e non fatti. Un luogo che non è il mondo intorno, ma una sua versione concentrata e ideale. Un luogo in cui dovrebbe essere possibile parlare di cristianesimo e islam facendo finta per un attimo che nessuno di noi sia cristiano o musulmano. È la forza di questa istituzione.

Ma con Samuel Paty non ha funzionato: l’istituzione, con la sua ritualizzazione della realtà a scopo pedagogico, non lo ha protetto. Il collega, prima di mostrare le vignette, ha compiuto un gesto significativo: ha detto che chi riteneva di essere offeso dal loro contenuto poteva non prendere parte alla lezione. Apparentemente un gesto di delicatezza. In verità, è stata l’ammissione che quella lezione non era universale, nemmeno in quella forma potenziale, ideale, ludica che ho descritto. Quella lezione non era per tutti. Qualcuno non possedeva la chiave per interpretarla, qualcuno non voleva giocare a quel gioco, che funziona solo fino a quando tutti sono d’accordo a non rovesciare il tavolo e a considerare quello che hanno davanti agli occhi un “come se”. Quando la metafora della libertà di espressione come ideale quadro normativo collassa sul reale – sulla sua, per così dire, immediata letteralità – non c’è più spazio per il dialogo e il confronto.

Possiamo consolarci dicendo che la scuola è proprio il luogo in cui dovremmo fornire gli strumenti per capire le metafore. Ma non sono solo gli studenti musulmani radicalizzati della banlieu parigina a dar prova di difficoltà nel distinguere tra simbolico e reale. Il mondo intorno a noi ha eroso poco alla volta la netta distinzione tra letteratura e realtà, tra la violenza simbolica di una vignetta satirica e la violenza reale di una decapitazione. Dietro a tutto ciò ci sono ragioni socio-culturali, economiche, politiche, ovviamente. Dovremo indagarle, prenderle di petto, senza illuderci che basti l’invito a difendere la laicità dalle République di Emmanuel Macron (invito per molti altri versi più che comprensibile e legittimo).

La lezione del nostro collega, Samuel Paty, è stata investita dalla stessa storia che cercava di spiegare, nella convinzione che lo spirito critico della scuola fosse sufficiente a maneggiare un tabù. Il collega non è un martire della libertà di espressione o della laicità. È un onesto insegnante che cercava di fare il proprio dovere in un mondo in cui, ben prima che il 5 ottobre lui entrasse in classe, erano saltate le distanze di sicurezza con la realtà. Tragicamente, i due passi indietro della scuola stavolta non sono bastati.

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