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diretto da Romano Luperini

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Non abbiamo avuto la primavera

 1 – In che modo finisce il mondo? Anzi, riformulo subito la domanda: in che modo finisce un mondo? Siamo stati in questi mesi, tutti quanti, spettatori di uno strano fenomeno: la pandemia ci ha mostrato in maniera chiara che il mondo, questo mondo che siamo abituati a vivere, del quale ci lamentiamo, che cerchiamo di proteggere o di distruggere con i nostri comportamenti, che ci è consueto, che – pur essendosi allargato a dismisura con la rete, i mezzi di trasporto e telecomunicazioni – rimane un piccolo mondo, fatto dai nostri sistemi produttivi, economici, sociali, prodotto dalle nostre relazioni, imposto dal mercato, e recalcitrante allo stesso; questo mondo assolutamente meraviglioso – quanto erano belle le meduse trasparenti nei canali di Venezia! Oppure l’erba verde brillante che spuntava a ciuffi dai san pietrini di Piazza del Campo a Siena;  senza dimenticare la scoperta del colore dell’acqua del Po, che in realtà è una forma di luce liquida, che si deposita lungo la città e la riverbera -, il mondo dei nostri genitori vecchi, e di colpo fragili e mortali, il mondo dei nostri amici, delle nostre relazioni, il mondo abitato dai nostri corpi, era finito.  

2 – In realtà uno dovrebbe analizzare bene le frasi che scrive, chiedendosi se la frase abbia senso, e domandandosi almeno cosa significhino realmente la parola “mondo” e la parola “fine”.

Ernesto De Martino ne La fine del mondo (Einaudi) racconta l’episodio del campanile di Marcellinara (pp 69-76): De Martino è con la sua macchina, deve raggiungere una località, ma non riesce a trovarla. Nel suo vagabondare incontra un pastore e gli chiede indicazioni, l’uomo gliele dà, ma De Martino, non completamente convinto, lo prega di salire in macchina e di mostrargli la strada. L’uomo, non senza qualche perplessità, accetta. Iniziano il viaggio verso la località e con lo scorrere del tempo e dei chilometri l’ansia del contadino aumenta fino a diventare una agitazione quasi insopportabile, quando l’uomo si rende conto di non vedere più nel suo orizzonte visivo il campanile di Marcellinara. Così l’agricoltore chiede a De Martino di riportalo indietro al punto da dove  potrà rivedere il suo campanile, cosa che l’antropologo fa. 

Ora non è necessario stabilire, né interessa, se questo episodio sia realmente avvenuto, o se sia un apologo creato ad hoc da De Martino per farci entrare nella sua ricognizione della fine del mondo. Sta di fatto che per il contadino il mondo finisce quando il campanile del suo paese scompare dal suo orizzonte e campo visivo. 

3 – Così mi sono chiesto come finisce il mio mondo, e mi sono ricordato di un episodio di molti anni fa (ero un adolescente), in cui eravamo sulle panchine nella piazza del paese,   bevevamo qualche bibita gassata, coca cola, pepsi, aranciate e altri intrugli, quando è arrivato il Bepi. Il Bepi – come il contadino di De Martino – non era mai uscito dal paese, tranne che per un breve e avventuroso, e non sapremo mai quanto vero, il segreto se l’è portato nella tomba, soggiorno in Libia durante la guerra, culminato in un soggiorno di tre mesi nelle carceri, in quei giorni dice che l’unico libro in lettura fu la Vita Nova di Dante, di cui recita sempre a memoria qualche pezzo, facendo sì qualche storpiatura e arrangiando un po’ la sintassi, ma tutto sommato con una certa aderenza all’originale; il Bepi arriva, in quel pomeriggio sonnacchioso, si mette esattamente nel mezzo, equidistante da tutti e dice: “Guardate che il mondo finisce per quello che beviamo”. Noi ovviamente non diamo nessuna importanza a quelle parole, ma lui non si arrende, Bepi non era il tipo da abbandonare la discussione, e riprende: “Che dovreste saperlo voi che siete andati a scuola, ad esempio perché è finito l’impero romano, che era imbattibile, che avrebbe distrutto e dominato ogni popolazione in tutto il mondo? Lo sapete? Voi come è finito l’impero romano?». Allora qualcuno per dargli corda risponde: «Bepi, i Barbari… lo sanno tutti”. E lui: “No che barbari e barbari!! L’esercito romano li avrebbe distrutti, fu per colpa delle acque che bevevano. La colpa è del rame con cui avevano fatto i tubi per far correre le acque. Ecco nel corso dei decenni e dei secoli, il rame ha avvelenato le acque, e l’acqua che i romani bevevano era avvelenata e lentamente, piano piano, i romani si sono auto-avvelenati e sono diventati meno forti, più inclini alla malinconia, e pazzi. Così i barbari li hanno invasi e hanno fatto finire quell’impero. E ora eccovi qua, voi uguali, a bere schifezze sulle panchine, per colpa vostra il mondo finirà…”.

4 – Il povero Bepi mi è tornato in mente in questi mesi, perché negli anni mi aveva sempre colpito il suo atteggiamento paranoico nei confronti del mondo che finisce – una volta erano le bibite che bevevamo, un’altra il tipo di cemento che usavano per costruire le case, oppure il tipo di pomodoro che mangiavamo – e che mi è parso simile a molti comportamenti, osservati in questo periodo di chiusura; c’era qualche cosa del Bepi, e del contadino raccontato da De Martino, sia in quelli che presi da raptus improvvisi panificavano, facevano dolci, e cucinavano, come se la sovra-produzione di cibo possedesse in sé una potenza esorcistica, o in quelli che dai balconi sentivano il bisogno di cantare o  applaudire; sia nella manifestazione paranoica di coloro che nonostante le evidenze interpretavano i numeri  ei morti e dei contagi come se fossero una truffa, parlando in modi più o meno ossessivi di complotti, verità nascoste etc etc. 

È vero, ciò che è accaduto all’Italia, e al mondo, in questi mesi è qualcosa di strabiliante: la medicalizzazione della nostra esistenza, la scelta imposta, come necessaria e non derogabile, della salute sull’economia, e le ricadute che queste scelte produrranno nei prossimi anni a livello psichico, ma anche speculativo e legislativo saranno enormi. 

Il modo di pensare il mondo è cambiato, la nostra idea di etica si è modificata, potremmo dire che abbiamo assistito a un vero e proprio “crollo”. E ancora una volta De Martino ne La fine del mondo, nei capitolo intitolato Mundus, parla del caso del contadino di Berna, che nel 1947 fu ricoverato presso un ospedale   che presentava un delirio schizofrenico di fine del mondo (pp. 97-118). Mi interessa di questo capitolo la parola crollo come «vissuto della fine del mondo» (p.100), come perdita di una normalità: 

Il mondo normale è domestico, familiare, mio in quanto comunicabile agli altri […]. La perdita della normalità del mondo è il perdersi della sua storicità, il suo uscire dal cammino che dal privato porta al pubblico (De Martino p.101)

5 – C’è un ordine del mondo e questo ordine stabilisce il mio perimetro di movimento e di azione (ritorna in altro modo la metafora del campanile), il mondo è in realtà ciò che mi definisce come persona/storia, e come privato. L’aggettivo “domestico”, usato da De Martino, assume un significato di casa: “casa” non nel senso di alcova, di rifugio, ma nel senso di luogo in cui ogni parte di me stesso, del mio essere me, si trova in equilibrio. Poi avviene il crollo, per il giovane di Berna il crollo ha un significato preciso: «Quando gli uomini non sono al posto giusto» (p.106). De Martino aggiunge: 

Ma non soltanto gli uomini  on sono al loro posto giusto, ma anche gli alberi, le case – in generale tutte le cose. Ha avuto luogo in cambiamento (Wechsel). Gli uomini non hanno più le loro cose con sé, e ora le cercano (De Martino, pp.106-107)

Della citazione mi soffermo sulla parola “cambiamento”, mi ritorna alla mente un passaggio del libro di Vito Teti, Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus (Donzelli), ma prima debbo fare un distinguo. Il libro di Teti non è un istant book, certo lo è per tempismo di uscita, e titolazione, ma in realtà sono temi questi della fine, dei crolli, dei terremoti, delle carestie e dei rivolgimenti, che da anni l’antropologo calabrese va indagando. Teti scrive: «Mi viene in mente il termine catastrofe con cui gli storici latini indicavano un rivolgimento, un rovesciamento» (Teti, p.10). Il cambiamento raccontato da De Martino potrebbe essere la catastrofe evocata da Teti?  Prevedere l’imprevedibile nelle sue pagine iniziali pone un dubbio linguistico,  legato al modo con cui definiamo il momento che stiamo vivendo. È questa veramente al fine? L’apocalisse? La catastrofe? Esiste una parola adatta una definizione – per delimitare un confine – di ciò che stiamo vivendo? 

6 –  De Martino nella citazione precedente parla del mondo “domestico” come “mio in quanto comunicabile agli altri”. Quindi si fa largo anche il tema della lingua, della parola, di come dire questo mondo o il suo crollo; una delle caratteristiche più interessanti del libro di Teti è appunto l’intento definitorio/linguistico di ciò che abbiamo vissuto; definire il perimetro della lingua entro la quale si muovono i nostri ragionamenti e gli accadimenti storici che raccontiamo è fondamentale, soprattutto se come in questi ultimi mesi a raccontare questi eventi sono stati giornali, televisioni e social media che spesso fanno un uso vago e approssimativo del linguaggio. Qualcuno potrebbe dire che i giornali lavorano di semplificazione, ora la semplificazione non è di per sé un male: la scrittura e il linguaggio sono un estremo e ultimo  entativo di consegnare la realtà che viviamo, il mondo, a un codice comunicativo semplice; la scrittura è poi proprio un medium composto da un numero limitato di lettere, che combinate infinitamente possono produrre, grazie a una serie limitata di regole compositive, un tentativo di comprensione e di racconto di ciò che accade. Il problema è che spesso si tende a sostituire la semplificazione con un atteggiamento semplificatorio: ad esempio i giornali per descrivere questi ultimi sei mesi hanno usato spesso il termine “guerra” e tutto ciò che nell’immaginario questo comportasse, gli infermieri eroi, i cassieri dei supermercati martiri, l’esercito dei dottori; c’è stato anche un tentativo di far percepire la partecipazione alle misure di contenimento anticovid come una sorta di Resistenza, in un parallelo tra la lotta alla malattia e la lotta partigiana; una sovrapposizione alcune volte declinata con simpatici meme, come quello che sosteneva che “tuo nonno per combattere la guerra è dovuto andare sulle montagne, tu devi solo stare coricato sul divano”. In questi casi  ’equiparazione tra nazi-fascimo e virus ha portato a un altro interessante cortocircuito linguistico legato alle parole “negazionismo” e “negazionisti”, termini che, nel linguaggio storiografico, indicano coloro che negano l’avvenimento storico dello sterminio degli ebrei, ma che in questo 2020 identificano coloro che negano  ’esistenza del covid. 

7 –  Questa volontà di costruire una narrazione di guerra è divenuta lampante nell’interpretazione/ racconto della vicenda umana di Josip Ilicic, giocatore dell’Atalanta. Per capire il modo in cui questo è stato narrato dobbiamo partire da due fermoimmagine diversi. Il primo è quello famoso, più volte riproposto in questi mesi, di una lunga teoria di camion militari che nella notte escono da Bergamo portando via, con il loro carico di bare, uomini e donne morti per il covid; un numero così alto che camere mortuarie, cimiteri non potevano in nessun modo sopportare. Se le si guarda bene, quelle sequenze mostrano il collasso della società basata sul mito di Antigone, sull’usanza di seppellire i propri morti. C’è la rottura di un paradigma secolare e millenario. 

Pensare questo, pensare che non siamo stati in grado per un periodo piuttosto lungo di tempo di dare una sepoltura degna dei nostri morti, sarebbe stato troppo complesso da metabolizzare; dirsi che i nostri morti non erano nostri, ma erano un tutt’uno senza identità, sarebbe stato orribile da sopportare. 

Entra, così, in scena la seconda immagine: un calciatore dotatissimo, in una partita di Champions League, segna quattro gol, è l’ultima partita prima della chiusura definitiva degli stadi, prima della sospensione dei campionati. I suoi gesti atletici, il muoversi agilmente, nonostante le brutte e lunghe leve, l’armonia del tocco, la facilità con cui fa cose che paiono impossibili sembrano suggerire una speranza, una sorta di leggerezza aerea che ci salva dal virus tremendo. Il giocatore in questione è Ilicic che gioca nell’Atalanta e vive a Bergamo. 

8 – Passano i mesi, vediamo le immagini, assistiamo alle notizie, prima allarmanti poi via via più rasserenanti.  Si torna alla normalità, o almeno si tenta, e così si torna a giocare a calcio, ma Ilicic, quando torna a giocare per pochi minuti, è il fantasma del grande calciatore che è stato in quell’ultima serata di Champions. Cosa gli è successo? Iniziano le ridde di supposizioni, fino a che non viene trovata la prefetta narrazione: Ilic, che ha vissuto la guerra nella ex Jugoslavia negli anni 90, ha visto i camion con le bare lungo le strade di Bergamo, è tornato indietro nel tempo e ha deciso di lasciare l’Italia e di tornare al suo paese per curare i propri “demoni” (altra parola passepartout del giornalismo: non paranoia, depressione, stato depressivo etc etc ma demoni come a significare qualcosa di assoluto, radicale, e quindi inspiegabile, ma anche sinistro e affascinante). Il parallelo tra i camion con le bare e il crollo nervoso del calciatore della città più martoriata è un perfetto romanzo d’appendice: il ritorno alla terra natale, la consolante aria della patria, la solitudine e la rigenerazione, la rinascita fino allo scontato ritorno in Italia (se fosse una fiction sarebbe veramente pessima, il rischio che qualcuno voglia farci una fiction – con protagonista Beppe Fiorello nei panni di Ilic   non è così peregrina.). 

In realtà il ricorso a queste narrazioni così facili, così totalmente limpide nella loro comprensione, indica che il virus ha mostrato qualcosa di noi, che tendiamo a voler addomesticare. Il crollo di Ilicic è molto simile a ciò che De Martino racconta nel suo libro: è come se di colpo il mondo domestico, l’usato e solito mondo che avevamo visto ed eravamo abituati a portarci dietro non è più.

9 – Sempre scorrendo i giornali abbiamo letto di crollo, calamità, disastro e sospensione. Teti ci avverte

Ma anche con queste metafore, che arrivano da precedenti esperienze, da altre culture, bisogna andare cauti. Perché non restituiscono il senso estremo, il senso di ultimità che qualcuno aveva temuto, annunciato, prefigurato, ma nessuno aveva fin qui vissuto. (Teti, 10)

E aggiunge

Non c’è parola che possa dare l’idea di uno scenario di dolore, di paura e di speranza come questo, del tutto imprevedibile, vissuto insieme dal mondo intero, senza distinzione di nazioni, etnie, religioni, culture. L’umanità si scopre, si vive, davvero unita nel rischio della fine. ( Teti 10)

Se dovessimo descrivere la vera esperienza di questi sei mesi, potremmo definirla una povertà di parola, il nucleo del saggio di Teti sta appunto nel tentativo di definizione di un linguaggio che possa in qualche modo raccontare questa fine, che stiamo vivendo. Teti adombra l’ipotesi che parole come catastrofe, guerra, crollo, calamità, disastro e simili siano infine sinonimi di una parola che abbiamo paura ad usare ovvero Apocalisse: «E se fosse l’Apocalisse la parola che non vogliamo adoperare per indicare quanto sta accadendo da decenni» (Teti, 14). L’Apocalisse come fine del mondo non è tanto la fine di un mondo, ma la rivelazione di qualcosa che ci è rimasto celato, è il rivolgimento delle cose così come sono – l’Apocalisse «gira il mondo sottosopra» (Teti, 17) – e ce lo mostra diversamente da come avevamo mai immaginato, ci insegna, l’Apocalisse, un linguaggio nuovo, quello della profezia, del tempo futuro che abolisce il presente che viviamo e che si collega al passato

Non è molto   e ci sembra lontano – quando ascesero in alto

Tutti quelli che avevano reso felice la vita,

quando il padre voltò la sua faccia agli uomini

e luttuosa tristezza giustamente cominciò sulla terra, 

appare per ultimo allora un placido genio, un divino

consolatore, annunziò la fine del Giorno e sparì. (Hölderlin, Pane e vino)

L’Apocalisse non è qualcosa che riguarda il nostro futuro, ma in realtà è strettamente legata al passato,  profezia non è leggere i segni di ciò che accadrà, ma è leggere i segni di ciò che è avvenuto, non è narrare qualcosa  di imprevedibile, ma è prevedere ovvero sapere già dai segni del passato ciò che avviene: è un guardare prima. 

Pensare in questo modo ci spaura, perché nella nostra esistenza comune il futuro è uscito dall’orizzonte esperienziale; lo abbiamo modificato trasformandolo in una banale dilazione in avanti: pensavamo che il nostro futuro potesse essere le prenotazioni dei viaggi da un anno all’altro, la scelta di andare “domani” a trovare i genitori anziani, lasciandoli nelle Rsa, di decidere di rimodernare la casa nei “prossimi mesi”. Questo atteggiamento, che è culturale, sociale, addomestica il tempo a venire in un “sempre presente” a qualcosa che non passa e non si modifica mai.

10 – Qualche giorno fa ero in un negozio di abbigliamento. Mentre giravo tra i vestiti ho sentito il commesso parlare con un’amica. L’amica gli chiedeva come erano andati gli affari, se avessero venduto, se la gente veniva, se era spaventata: le solite domande che spesso si sentono rivolgere agli esercenti. Il ragazzo ha raccontato le vicende, le solite: l’incertezza nei mesi di chiusura, il sollievo di riaprire, le paure legate alle disposizioni sanitarie, il rischio, la paura di non farcela e chiudere la serranda; infine ha aggiunto: “E poi non abbiamo avuto la primavera, che vuoi farci?”. 

Non abbiamo avuto la primavera, ovviamente il commesso con quella frase indicava che un’intera stagione di abiti, quellidella collezione primavera, era andata invenduta con tutte le problematiche di magazzino, di mancati in troiti. Io, però, mi sono soffermato sul dato simbolico che quella frase, pronunciata dal commesso, possedeva. Il non avere la primavera significa che il ciclo temporale, ciò che è sempre stato nei secoli, il complesso volgere delle stagioni, il susseguirsi di autunno, inverno, primavera estate ha subito come un salto, un giro a vuoto. Abbiamo perduto una stagione, la nozione dello scorrere del tempo, la prevedibilità degli eventi naturali così come l’abbiamo vissuta, introiettata è in realtà rotta: abbiamo noi in questi anni e le persone prima di noi nei secoli sempre visto il gemmare dei rami, lo sbocciare dei fiori, ma la nostra esperienza, questa del 2020, è una esperienza, lo abbiamo detto precedentemente, di povertà, che ci ha donato penuria di parole e ha mostrato la fragilità della nostra esistenza, e ha reso, almeno per me, inquietante  a frase di Hume: «Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intelligibile e non più contraddittoria dell’affermazione che sorgerà.». Se abbiamo perduto la primavera, che tempo è il nostro, come possiamo definire il tempo che abbiamo?

11 – Normalmente noi associamo il concetto di “realtà” a quello di chronos, e tutti quei romanzi che ignorano completamente questa associazione ci sembrano romanzi poco seri o addirittura folli; solo l’inconscio è atemporale e l’illusione che il mondo possa essere costruito per soddisfare l’inconscio è una illusione senza futuro. […] Il nostro passato è breve, è organizzato dal nostro desiderio di completezza ed è in semplice relazione con il nostro futuro

A scrivere queste parole è Kermode ne Il senso della fine (Saggiatore, p. 53), il suo testo è certo un insieme di “studio sulla teoria del romanzo”, come recita il sottotitolo, ma contiene al suo interno una riflessione sul concetto del tempo a partire dalla narrazione, che potremmo così riassumere: che tipo di tempo producono e descrivono i romanzi? Quanto il tempo narrato nelle finzioni è figlio speculare e in parte distorto delle visioni apocalittiche e della fine del mondo? 

Nella speculazione di Kermode uno dei fondamenti, che secondo il suo stesso autore non fu colto a fondo, è appunto l’idea di aevum come luogo temporale intermedio tra il tempo che scorre (kronos) e il tempo dopo la fine (kairos), quel tempo fittizio verrebbe da dire in cui esistono i personaggi dei romanzi: «Potremmo dire che l’aevum è l’ordine temporale dei romanzi. I personaggi dei romanzi sono indipendenti dal tempo e dalla consecutività, ma possono – come di solito fanno – operare all’interno di essi» (p.76).

Ecco l’essere stati privati della primavera ci ha costretto a essere come personaggi di un romanzo, a subire quel tipo di scorrere del tempo è che logico in un romanzo, ma è totalmente innaturale in noi, che non siamo per nulla indipendenti dal “temporale consecutività” dello scorrere della vita. Anche questo produce il crollo psichico e culturale e antropologico di cui parlava De Martino e che la narrativa adombra in ogni sua pagina. Il tempo, più che la realtà, è ciò che la letteratura cerca di comprendere, di rendere intellegibile, e il senso della fine del tempo è forse ciò che come esseri umani ci spaventa. Non a caso spesso le narrazioni sono una sorta di ricomposizione temporale. 

Pensiamo all’Odissea e al finale incontro tra Laerte, Ulisse e Telemaco; alla fine di questa lunga peripezia i tre uomini si trovano insieme, hanno ricostruito il loro albero genealogico, hanno ristabilito la loro regalità hanno formato nuovamente ciò che all’inizio del poema sembrava infranto; la loro identità che era perduta – Laerte, Ulisse e Telemaco erano tutti e tre “uomini da nulla” – viene ricomposta. Il tempo passato, il lungo scorrere degli anni, infine si chiude, e il sole sorge e la primavera tornerà. Ciò che ci produce la lettura dell’Odissea, e forse di una buona parte della letteratura, è la ricomposizione del tempo. 

Torniamo al contadino di Berna così scrive De Martino

Il mondo – che il malato rappresentava nella modalità più prossima alla sua esistenza di contadino come ciò che l’uomo produce col suo lavoro e come ciò che la natura genera attraverso i suoi ritmi stagionali   era entrato in una crisi radicale a patire dalla precedente primavera, quando al malato era accaduto di sradicare alcuni arbusti, dando così, con questo sua atto colpevole, il primo avvio al processo di dissoluzione. (De Martino, p.97)

12 – Il mondo inizia a dissolversi in primavera, quando il ritmo di ciò che abbiamo sempre visto non avviene, ma la narrazione – pur nelle complicate peripezie dell’intreccio – ci porta infine a compiere una esperienza di composizione della frattura, a fare sì che il mondo sottosopra dell’apocalisse in qualche mondo, alla fine della storia, si ritrovi nuovamente in ordine. 

Esiste, però, la possibilità che il tempo, il kronos, non si ricomponga, che la storia raccontata, o vissuta, non produca in noi nessun sentimento di ripristino; c’è la possibilità atroce che perduta la primavera non arrivi l’estate, che il tempo così come l’abbiamo percepito, e l’esistenza così come l’abbiamo vissuta, non siano più pensabili: che il trauma, la ferita, il taglio producano una interruzione dello scorrere del tempo, e aprano – il trauma è letteralmente un’apertura – a qualcosa di nuovo e terribile. Non tutte le odissee si concludono con un ritorno, ma possono annunciare a un tempo nuovo, oscuro, incomprensibile e inquieto, come la vergognahe sopravvive a K. nel del Processo o come il sogno del lager che chiude l’odissea di Primo Levi

Sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla è vero all’infuori del lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. 

Il tempo dell’Apocalisse, il tempo fuori dal tempo che scorre, fuori dalle stagioni, fuori dal sole che sorge e tramonta, il tempo che non ha che fare con la vita, il tempo di cui, nei mesi della chiusura, abbiamo fatto seppure breve e confusa e oscura esperienza, è così simile a ciò che ci fu prima di ogni tempo, nascosto e dilatato in un silenzio che non possiamo immaginare, nella lunga angosciosa solitudine sterminata di uno spirito che camminava sul tutto vuoto.

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