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diretto da Romano Luperini

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La vita è bella? Un saggio sul mercato della felicità

 Cunegonda, l’aristocratica protagonista di Candido, o l’ottimismo, il racconto filosofico di Voltaire; Pollyanna Witthier, la giovane orfana di Pollyanna, il classico della letteratura per l’infanzia di Eleanor Porter; e Guido Orefice, il protagonista del film La vita è bella di Roberto Benigni: questi tre personaggi hanno qualcosa in comune. Nonostante le sciagure che gli capitano, rimangono convinti che tutto andrà sempre per il meglio in questa valle di lacrime. La vita gli riserva un trattamento spietato, ma resta pur sempre bella. Il mondo può sottrargli l’onore, la famiglia, la libertà, ma mai impedirgli di giocare al gioco della felicità, che consiste nel trovare il lato positivo di qualsiasi situazione, per quanto tragica. Le storie di questi personaggi luminosi e pieni d’amore hanno però un lato oscuro: presentano la felicità, e la sofferenza, come una questione di scelte personali, per cui chi non vede l’aspetto positivo di una data situazione dà l’impressione di desiderarla, e di conseguenza è ritenuto responsabile delle sue disgrazie.

In modo meno romanzato, lo stesso messaggio è alla base del discorso scientifico sul benessere e in particolare di concetti come quello di resilienza. Le storie citate sopra, le varie agiografie della contentezza che troviamo sugli scaffali dell’autoaiuto e le teorie scientifiche della felicità veicolano tutte due insegnamenti morali: la sofferenza è inutile, a meno che non se ne tragga una lezione positiva; la sofferenza protratta è una scelta, perché, per quanto certe tragedie siano inevitabili, abbiamo sempre la capacità di trovare una via d’uscita.

La “psicologia positiva” è stata  definita dal fondatore Richard Seligman “lo studio scientifico del funzionamento umano positivo e fiorente su più livelli, che include la dimensione biologica,  personale, relazionale, istituzionale, culturale e globale della vita”. Quest’ipotesi di indagine è mossa dall’intento di rompere con la tradizione, che gli psicologi positivi definiscono “modello patologico”, emancipando la ricerca dai suoi fattori di “debolezza” (l’insistenza sulla psiche come luogo di mancanze o di ferite), per esaltarne invece potenzialità costruttive attraverso concetti come resilienza, autoefficacia, sviluppo di sé; in questa prospettiva, lo psicologo rientra nel più vasto campo di quelli che si definiscono  “operatori dello sviluppo personale”.

La progressiva affermazione di questa visione nel corso degli ultimi trent’anni ha consentito alla psicologia positiva di acquisire – in particolare  negli USA – una posizione di assoluta preminenza nella ricerca universitaria. Contemporaneamente, si è creata una marcata interdipendenza fra la sua dimensione intellettuale e quella economica, e molte indagini basate sui suoi presupposti teorici hanno attirato ingenti finanziamenti, dando vita a programmi di sviluppo della felicità nei più diversi ambiti: sociale, lavorativo, scolastico. Il nesso fra ricerca universitaria, commercializzazione di idee e prodotti, politiche sociali all’interno di molti Stati nazionali ha determinato il crescente successo della cosiddetta “economia della felicità”.

Nel saggio “Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite”, la sociologa Eva Illouz e lo storico Edgar Cabanas avanzano serie critiche, di ordine metodologico, scientifico ed etico alla psicologia positiva.

Molti affermano – a ragione – che la psicologia positiva è poco più di un’ideologia riciclata sotto forma di grafici, tabelle e diagrammi pieni di numeri; una psicologia popolare facilmente commerciabile e promossa da scienziati in camice bianco. Eppure è proprio questo il motivo del suo straordinario successo: ha saputo raccogliere una serie di ipotesi sul sé, molto radicate e di natura culturale e ideologica, e le ha spacciate come fatti obiettivi, scientifici.

A scanso di equivoci, chiariscono sin dalle prime pagine che “questo non è un libro contro la felicità, ma contro la visione riduzionista della vita bella predicata da questi professionisti e in continua espansione”.

Cambiare se stessi per non cambiare il mondo

La critica alla “scienza della felicità” muove dall’idea stessa di persona e di quanto la dimensione relazionale/ sociale influenzi la nostra identità.

Richiamandosi agli studi filosofici di Lipovetsky e Foucault, Illouz e Cabanas interpretano il successo di questa “scienza” come un risvolto del

diffuso processo di individualizzazione e di psicologizzazione che ha trasformato radicalmente i meccanismi politici e sociali della responsabilizzazione all’interno delle società capitaliste avanzate. Il cambiamento ha permesso di inquadrare in termini psicologici e di responsabilità individuali le carenze strutturali, le contraddizioni e i paradossi di queste civiltà. (…) Sotto la veste del positivismo, lo studio scientifico della felicità umana ha trasformato questa nozione in un potente strumento ideologico, che sottolinea la responsabilità individuale per il proprio destino e veicola valori fortemente individualisti, camuffandoli da teorie psicologiche ed economiche.

In questo contesto ideale/ ideologico, si istituisce una gerarchia fra l’aspirazione a “cambiare il mondo”, considerata illusoria e fuorviante rispetto ai reali interessi (e potenzialità) del singolo, e “cambiare se stessi”, un orizzonte considerato invece praticabile e concreto. Questo restringimento dell’orizzonte sociale comporta però un rischio: “svuotare il sé di qualsiasi componente comunitaria, rimpiazzandola con preoccupazioni di tipo narcisistico”.

In sostanza, affermano Illouz e Cabanas, “ la scienza della felicità conduce alla passività” e contribuisce a diffondere le inquietudini e le insicurezza che aspira a curare.

Le emozioni vengono collocate idealmente al di fuori della storia e della società, come se fossero degli universali indipendenti dalla complessità interiore (le dinamiche fra sensazioni, razionalità, soggettività) e dai contesti culturali molto mutevoli al cui interno le persone vivono. In particolare

L’inconscio viene rimpiazzato dall’idea che la mente sia completamente conoscibile, e riconducibile a un modello matematico manipolabile dall’individuo stesso. (…) Quest’approccio si rivela fondamentale nel momento in cui l’individuo è rappresentato come lo psicologo di se stesso, cioè quando viene detto che possiede la capacità di curarsi da solo, anzi che è lui l’unico a poter comprendere davvero i suoi particolari bisogni, problemi, obiettivi. (…) Infine, questi metodi cancellano qualsiasi riferimento alla lotta interiore o al giudizio critico.

Sul piano politico ed economico, questa visione perviene a conclusioni che appaiono paradossali, se si considera che quest’approccio psicologico ambisce a fornire prove scientifiche inconfutabili della propria validità: si sostiene, ad esempio, che le condizioni migliori per il dispiegamento delle attitudini e delle emozioni positive, e per la ricerca della felicità, siano l’iniquità e l’ingiustizia. In una prospettiva di psicologia positiva

Al contrario di quello che sostengono molti economisti (per i quali ammortizzatori sociali, redistribuzione dei redditi e uguaglianza sono requisiti indispensabili di una società prospera e dignitosa), le ricerche sui dati massivi dimostrerebbero che la disparità economica e la concentrazione del capitale hanno un rapporto positivo con la felicità e con il progresso economico, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.

La matematica della felicità

Secondo la logica algoritmica delle moderne tecnocrazie, all’affermazione di questa visione “positiva” della felicità si accompagna la sua “oggettivazione”, cioè un travestimento scientifico nutrito di statistiche, numeri e coefficienti: l’Inventario della Felicità di Oxford, la Scala di Soddisfazione Esistenziale, il Questionario degli Affetti Positivi e Negativi, il Metodo di Campionamento dell’Esperienza ne costituiscono alcuni esempi significativi.

Quest’approccio è   penetrato anche nel campo delle politiche nazionali ed internazionali, attraverso il concetto di FIL (Felicità Interna Lorda), un ipotetico strumento di misurazione del quoziente nazionale di felicità utilizzato da diversi Governi.

Uno dei massimi esponenti della ricerca positiva in campo psicologico, Layard, cura annualmente per l’ONU il Rapporto Mondiale sulla Felicità.

Anche nell’ambito dell’esistenza individuale, gli scienziati della felicità ritengono di poter elaborare formule matematiche. Illouz e Cabanas si soffermano in particolare sul concetto di quoziente della positività, elaborato da Barbara Fredrickson: partendo dal presupposto che le emozioni positive siano inconciliabili con quelle negative, che esse siano scientificamente riconoscibili, e che la prevalenza delle prime o delle seconde individui persone funzionali o disfunzionali, è possibile determinare numericamente il corretto rapporto fra emozioni positive e negative, che in base ai suoi esperimenti corrisponde a 2, 9013.

Secondo Illouz e Cabanas, queste ricerche hanno fragili basi teoriche e scientifiche, e rivelano un’adesione incondizionata a un’ideologia che non si basa su equazioni matematiche, bensì morali:

Come sostiene Alexa Zupancic, l’assioma per il quale una persona felice è anche una brava persona è tipico di un discorso opprimente che veicola una morale perversa, per la quale: ‹‹Chi sta bene ed è felice è buono e bravo; chi sta male è cattivo››.

L’istruzione terapeutica

A partire dalla crisi del 2008, l’educazione positiva, espressione istituzionale della “nuova visione” psicologica, si è progressivamente affermata nel settore della scuola: sono state quindi inserite nei programmi delle scuole di ogni livello e nei piani di studio dell’università, soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada, iniziative basate sull’idea che l’apprendimento sia ostacolato o favorito soprattutto da fattori di tipo emotivo e individuale, più che da quelli di ordine sociologico.

In alcuni casi, quest’impostazione si è tradotta nella formulazione del curricolo; per esempio, il Ministero dell’Istruzione della British Columbia, nel 2008, definì in questi termini lo studente modello:

Possiede capacità manageriali e organizzative, sa prendere l’iniziativa, è responsabile, flessibile e adattabile, ha una buona autostima ed è sicuro di sé, è convinto che le sue azioni e le sue scelte abbiano ripercussioni su ciò che accade, si sforza di sviluppare le potenzialità  perseguendo ciò che gli piace fare e sa vendere le proprie competenze come se fossero prodotti.

Secondo Illouz e Cabanas, formulazioni di questo genere sono espressione di

una cultura didattica si stampo neoliberista, in cui la ricerca della felicità e lo sviluppo di competenze emotive e imprenditoriali hanno preso il sopravvento sulla ricerca della conoscenza e sull’evoluzione del ragionamento logico e del pensiero critico.

La sociologa e lo storico sottolineano come questa concezione dell’apprendimento condizioni pesantemente anche la vita al di fuori dell’istituzione scolastica: tende infatti a sostituire progressivamente l’idea di “carriera” (fondata sull’accesso ad un posto di lavoro stabile, come base della realizzazione di sé e della propria “felicità”) con l’idea di “successione di progetti” (in cui di certo esiste solo l’insicurezza e l’instabilità, e per il lavoratore è indispensabile imparare ad adattarsi alle situazioni che di volta in volta il mercato presenta).

Illouz e Cabanas non semplificano affatto la complessità del fenomeno, ma denunciano le sue pesanti conseguenze e la strumentalizzazione di cui è oggetto:

I progetti di questa successione sono concepiti come un assortimento non strutturato di percorsi, obiettivi e iniziative rischiose, in cui gli individui (come le imprese) devono “imparare ad imparare”, cioè devono essere flessibili, autonomi e creativi, e decidere da sé quali competenze, strumenti e scelte siano preferibili per adattarsi a un mercato caratterizzato dall’incertezza (…) La nascita di questo sistema prometteva di rimpiazzare la falsa autonomia della carriera con un’autonomia reale, basata su autoconsapevolezza, libera scelta e sviluppo professionale, ma ha finito per delegare ai lavoratori gli imprevisti e le contraddizioni del mondo del lavoro, scaricando così sulle loro spalle i problemi legati alla concorrenza e all’espansione dei mercati.

Com’è andata a finire, infatti, ce lo racconta con struggente realismo Ken Loach, in “Sorry we missed you”.

Una domanda aperta

“Happycracy” descrive la fascinazione esercitata dall’idea di una “felicità” sempre raggiungibile e disponibile a pagamento, analizza gli interessi che muovono questo mercato, confuta la pretesa scientificità delle teorie psicologiche che lo giustificano.

Più si procede nella lettura, più risulta evidente che la distopia che viene descritta è la realtà nella quale viviamo.

La conclusione del saggio riprende un celebre esperimento del filosofo anarchico Robert Nozick, docente ad Harvard. Supponiamo – afferma il filosofo – di essere perennemente collegati ad una macchina che ci fornisce a comando esperienze piacevoli, e ci dà l’illusione di vivere la vita che vorremmo. Potendo scegliere, opteremmo per una vita falsamente felice o per una vita autentica?

La risposta, oggi più decisiva che mai, è posta da Illouz e Cabanas a conclusione del loro studio:

La nostra risposta è simile a quella di Nozick: il piacere e la ricerca della felicità non possono mai rimpiazzare la realtà e la ricerca della conoscenza, ossia l’analisi critica di noi stessi e del mondo che ci circonda. L’industria che è sorta intorno a questo concetto è l’equivalente della macchina immaginata da Nozick, e romanzata da Aldous Huxley: vorrebbe controllarci tutti, non solo confondendo la nostra capacità di conoscere le condizioni che determinano l’esistenza, ma anche rendendole irrilevanti. La conoscenza e la giustizia, e non la felicità, sono e saranno sempre lo scopo morale e rivoluzionario della nostra vita.

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