Fritto misto di didattica
Creatività al potere
È una situazione di emergenza e all’emergenza si fa fronte con atteggiamenti flessibili, collaborativi, aperti. Ce lo ripetono e ce lo ripetiamo anche noi docenti dal mese di marzo. Se centinaia di medici, infermieri e brava gente di professioni varie non avessero dato prova – già da allora – di risorse inesplorate, competenze altissime e spirito di adattamento, per molti settori della vita del nostro Paese sarebbe stata la fine. Ma mi limiterò a parlare di quello dove opero, che è la scuola. Forse ci si aspettava che, a fronte di questa disponibilità laboriosa, la risposta istituzionale fosse diversa: non che si pretendesse di ricevere premi o incentivi, ma magari qualche intervento più incisivo in materia di assunzioni, edilizia scolastica, numero degli allievi per classe, strumentazione digitale, ecco, quello sì. Questo non è accaduto e l’intervento istituzionale si è materializzato nelle forme che sappiamo (dotazioni di pc, dotazioni di banchi monoposto, dotazioni di gel e mascherine, dotazioni di segnaletica cartonata o adesiva da affiggere alle pareti delle aule e lungo i corridoi, nei bagni e nei laboratori, ovunque) e, per quanto attiene alla didattica, in un suggerimento: adottare la didattica mista. Alla carenza di aule, banchi, insegnanti e istruzioni logistiche, le scuole d’Italia hanno risposto con l’attesa flessibilità; alla carenza di indicazioni didattiche forti che precisassero contenuti e modalità della didattica mista hanno risposto con flessibilità e fantasia interpretativa. Alcune scuole hanno diviso i gruppi classe in due esatte metà, qualunque fosse il numero dei componenti, e, a settimane alterne, convocano nell’aula reale un gruppo e si connettono contemporaneamente con l’aula virtuale dell’altro gruppo rimasto a casa; alcune scuole hanno calibrato il numero dei presenti nell’aula reale in relazione ai posti disponibili previo distanziamento, sicché solo pochi studenti turnano in aula virtuale; altre scuole hanno diviso i gruppi classe in due metà, entrambe presenti in aule reali ma separate e connesse; in altre si assegnano lavori diversi, a chi sta a casa e a chi sta in aula, e si ripetono due volte, per il gruppo che prima era qui e ora è là e viceversa… Il repertorio è nutrito e denota sicuramente, accanto a una tenace volontà di lavorare, grande e ammirevole creatività.
Il sistema della comunicazione difettosa
Tuttavia anche la didattica è una disciplina, e non s’improvvisa. Va innovata, rimodulata, ripensata in risposta ai cambiamenti storici, sociali, culturali; non c’è dubbio. Va svecchiata negli strumenti e negli ambienti; siamo d’accordo. Siamo insegnanti, abbiamo fatto esperienza; e abbiamo letto abbastanza Mc Luhan e Morin, ma anche Perrenoud e Cytton, Castoldi e Benvenuto, Roncaglia e Baldacci e altri ancora per essercene solidamente convinti anche noi. Ma di una cosa soprattutto siamo certi: nella didattica può darsi sperimentazione, ma mai, assolutamente mai, improvvisazione. Il rischio è smarrire il messaggio. Ed è il rischio che temiamo fortemente oggi. La didattica è essenzialmente comunicazione, scambio, costruzione di messaggi all’interno di una comunità. Se (sia consentito il riferimento vecchiotto ma evergreen; e sia consentito non doverne dubitare più) ammettiamo la comunicazione come sistema complesso in cui il messaggio varia al variare dell’emittente, del destinatario, del codice, del mezzo, del contesto, l’ipotesi stessa della didattica mista, nelle modalità di cui sopra, si sgretola su se stessa. Un messaggio pensato, ponderato, calibrato per passare attraverso il video non può, ma deve assumere una fisionomia capace di attraversare lo schermo e la piattaforma digitale senza snaturarsi, anzi accogliendo come ricchezza le peculiarità anche di codice che quei mezzi, quegli strumenti offrono. Un messaggio pensato, ponderato, calibrato per attraversare un’aula reale non può ma deve assumerne un’altra, e altri codici. Ma il docente che contemporaneamente parli con quindici allievi presenti, scalpitanti dietro banchi monoposto, svegli da un’ora e mezza e già catapultati in bus in auto in strada, innamorati della ragazzina in prima fila, preoccupati di essere interrogati, di avere i brufoli, di aver dimenticato la mascherina o l’acqua, inorriditi o attratti dall’abito della prof, ma anche con quindici allievi che, col favor dello schermo, sotto la maglia griffata hanno i pantaloni del pigiama, dietro le spalle non la tavola periodica degli elementi ma la foto della squadra del cuore, ai piedi il cane che scodinzola e fuori dalla porta il giardino di casa, ecco, questo docente siamo sicuri che abbia esattamente gli stessi destinatari, a cui possa rivolgere con lo stesso codice lo stesso messaggio? Siamo sicuri che il contesto resti immutato? Abbiamo imparato la funzione condividi lo schermo, abbiamo scaricato l’estensione che ci consente di condividerlo e tenerci al contempo una finestrella che – piccoli come francobolli – mostri a noi e agli allievi in aula i volti degli allievi domiciliati, abbiamo smanettato per ore sul pc. Ma resta un dato incontrovertibile: il sistema della comunicazione è fortemente compromesso, il messaggio arriva male (e non è solo una questione di audio) e il pericolo di smarrire il senso stesso dell’insegnamento è incombente. L’insegnamento è possibile solo se esiste la comunità.
Comunità ermeneutica:
Comunità ermeneutica: la fortunata espressione con cui Luperini ha definitivamente tracciato la dimensione dell’insegnamento-apprendimento trova riscontro in altri pronunciamenti analoghi (Dell’Aversano, ad esempio, parla di comunità argomentativa; Le Monnier, 2005) e non può essere sostituita da community. Ma oggi questa comunità è esposta a un nuovo e insidioso attacco da modalità didattiche ibride che della comunità sembrano ignorare la necessaria condivisione di valori, codici e spazi. Per farsi ugualmente ascoltare e vedere da chi sta a casa e da chi è presente in aula, il docente resta immobile davanti allo schermo e dietro la cattedra, condannato a una frontalità che, avversata e dura a morire nelle sue manifestazioni più becere, oggi si impone come soluzione unica e cinica. Né sono pari le opportunità di intervento, di scambio, di partecipazione degli studenti che vivono l’aula e di quelli che, contemporaneamente, intuiscono quell’aula dal quadratino di schermo che riprende il docente. Gli studenti dall’aula vedono – se proiettati sul maxischermo della LIM – i compagni presenti e quelli che sono a casa, ma gli studenti che sono a casa di compagni vedono soltanto quelli che stanno a casa come loro. In queste condizioni, lo stesso ricorso in aula allo strumento digitale (audiovisivi, mappe, ppt e via discorrendo), ormai entrato largamente nella pratica didattica anche prima che la pandemia lo imponesse, viene limitato all’indispensabile, nel timore che l’uso diventi abuso; e si dilatano, spesso in un raddoppiamento di tempi e forme (per chi è a casa, per chi è in aula) vicino allo sperpero, anche i modestissimi e immortali supporti alla lezione quotidiana («vi faccio un esempio alla lavagna»).
Si dirà: è l’emergenza, bisogna essere flessibili, passerà. Speriamo. Ma non possiamo fingere di non vedere il rischio di un vuoto formativo, non solo nella quantità e nella qualità dei contenuti comunicati ai nostri allievi, ma nella costruzione dei legami comunitari (peraltro proprio mentre prende l’avvio ufficialmente l’insegnamento della Educazione civica). E non possiamo fare a meno di osservare che questa soluzione (o presunta tale), che oggi sembra obbligata, forse non sarebbe stata necessaria se l’edilizia scolastica fosse stata adeguata o fossero stati pensati e disposti, in questi mesi, spazi opportuni; se le classi non avessero continuato a essere composte da un numero di allievi didatticamente insostenibile con o senza Covid19; se i docenti e gli assistenti tecnici fossero stati in numero maggiore e in servizio nei tempi utili; se la piattaforma di riferimento e la strumentazione fosse stata unica e dotata per tutti delle stesse funzioni. Continuiamo a scaricare app, perché tante, troppe cose sono state scaricate sui docenti e sugli allievi, nella perfetta noncuranza di quel che la didattica esige per poter onestamente aspirare ad essere efficace. Se qualcuno l’avesse messa al primo posto, ex aequo con la sicurezza, nel progettare questo rientro a scuola, è probabile che altre soluzioni ci sarebbero state servite in luogo di questo indigesto fritto misto.
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RE: Fritto misto di didattica
Da insegnante che ha usato la DAD mi ritrovo nelle riflessioni di questo articolo.