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diretto da Romano Luperini

2019 24 anne frank

Anne Frank, una ipotesi

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

1. Circa due anni fa immagini raffiguranti Anne Frank vennero diffuse da alcune frange della tifoseria laziale come offesa ai tifosi della Roma. L’immagine ritraeva il viso della giovane ragazza con la casacca dai colori giallorossi. L’intento di chi aveva fatto quel fotomontaggio era evidente: offendere – dandogli dell’ebreo – l’avversario. Questa ipotesi era suffragata anche dalla storia delle due tifoserie, legata ad ambienti fascisti, quella biancoceleste, più popolare e comunista quella romana. Questo noioso fatto di cronaca, una bega tra due tifoserie, che si odiano, una gara a chi è più ignorante, ebbe, invece, delle interessanti ripercussioni sui social. Non appena venne divulgata la notizia del fotomontaggio nel giro di poco twitter, fb e i diversi social network pullularono di uno solo hastag ovvero #siamotuttiannafrank o #siamotuttiannefrank, a cui si aggiungeva la pubblicazione della foto originale, la matrice che aveva prodotto il fotomontaggio, in decina di migliaia di pagine.
Il primo pensiero è stato che l’indignazione social è facile, s’infiamma e divampa come un fuoco tra le sterpaglie e certe volte chi vi partecipa, anche animato da buon cuore, tende a non comprendere quello che sta facendo. Anche questo mio pensiero rischia di essere superficiale se non comprende più profondamente i meccanismi che hanno mosso migliaia di persone a questa condivisione.

2. Proviamo ad analizzare cosa significhi #siamotuttiannefrank. Se togliamo il simbolo, normalizziamo gli spazi e mettiamo le maiuscole ai nomi propri, otteniamo la seguente frase: siamo-tutti-Anne-Frank. Questa semplice operazione di ripulitura chiarisce alcuni punti. Concentriamoci sulle maiuscole del nome, esse sono segnali inequivocabili per fornire l’identità di quella persona e non di un’altra. Sono il segno grammaticale evidente che Anne Frank non è anne frank, ovvero che non è un vaso vuoto, che può contenere moltitudini, ma è semplicemente una e quella sola persona. Dire siamo tutti Anne Frank e dire siamo tutti anne frank, quindi, suona completamente e disperatamente diverso, ma in entrambi i casi orrendo.

2.1 Siamo tutti Anne Frank. Chi può pronunciare una frase del genere? Chi ha il coraggio di sostenere che la nostra esistenza possa essere simile a quella di una bambina ebrea sotto l’occupazione nazista, costretta a vivere nascosta, che viene arrestata, deportata e infine muore a Bergen Belsen? Siamo noi simili al suo corpo smagrito per la fame? Siamo noi simili alla cenere che è diventata? Possiamo noi anche solo immaginare di essere quella cosa che ora lei è? O quella cosa che lei è stata? Che tipo di pensiero può produrre un’associazione, un tentativo di mimesi di quest’ordine?

L’indignazione è solo una faccia diversa dalla rimozione. Non c’è eticamente molta differenza tra la fotografia razzista di Anne Frank e questo sentimento superficiale nell’appropriarsi della vita della vittima, perché essa, nella sua fattuale concretezza, è sparita dal nostro orizzonte ed è diventata una sorta di immagine vuota.

2.2 Le maiuscole del nome, quindi, possono sparire: la persona che fu Anne Frank è scomparsa e la storia della bambina morta nel lager è divenuta un brand, un vuoto simbolo che ognuno di noi si può applicare sul petto come una spilla sulla giacca, è la progressiva ed esasperante deriva pop di tutto ciò che riguarda la Shoah e la seconda guerra mondiale. Basta digitare sul motore di ricerca “siamo+tutti+anne+frank+immagini” per essere travolti da una moltiplicazione della foto di questa ragazza: con la maglia del Napoli, della Juventus, del Toro, del Bologna, sulle felpe di alcuni tifosi mentre entrano allo stadio, sulle magliette che i giocatori indossano durante il riscaldamento, sulle prime pagine dei giornali etc etc. Anne Frank diventa qualcosa di seminale, che si perde tra i diversi marchi che lentamente scivolano dietro le spalle dei calciatori durante le interviste post partita o diventa come quei cartelloni pubblicitari messi tra primo e secondo tempo quando vengono richieste due frasi a caldo a un giocatore della squadra. La dominante, rispetto a queste due frasi, è fastidio.

3. Questa sensazione mi riporta a una mattina ad Amsterdam di molti anni orsono. Sono appena uscito dal Museo Nazionale di Vincent Van Gogh; e sono combattuto da uno strano sentimento. Avevo aspettato così tanto il momento in cui avrei visto i quadri di Van Gogh che ora, subito fuori, quelle mura non riesco a decifrare il mio sentire. Ci metto un po’ a capire, ripercorro i diversi quadri che ho visto, analizzo il mio stato d’animo e mi è chiaro che la nota persistente alla mia bocca è la delusione. Sono deluso dei quadri che ho visto: molti di questi li ho osservati così tante volte riprodotti nei libri, sulle cartelline degli album da disegno, sulle copertine dei quaderni che usavo scuola, sugli astucci, molti di questi dipinti li ho veduti riprodotti nelle matite, nei magneti che appendevo al frigorifero, come poster sui muri della cameretta mia o delle mie fidanzate, li ho ri-disegnati orrendamente nelle ore di storia dell’arte; in una parola li ho visti così tante volte che l’esperienza dal vero è risultata vuota e senza un reale impatto emotivo per me.

La ripetizione di un concetto, lungi dal renderlo più potente, finisce per svuotarlo di senso. Mi sono ricordato, proprio in quel momento seduto per terra fuori dal Van Gogh Museum, di un aneddoto su di un Papa, a cui fu rimproverato da un suo collaboratore l’intercalare, condito troppo spesso da una singola parolaccia. A tale rimbrotto il Pontefice rispose: “E io la ripeterò così tante volte fino a che quella parola avrà perduto senso e sarà solo un suono”.

Ecco la visione preventiva, durata molti anni, dei quadri del pittore olandese aveva prodotto in me lo stesso sentimento di svuotamento.

Mentre ero alle prese con questi ragionamenti, gli amici mi dissero che saremmo andati alla casa di Anne Frank. Io mi alzai e questi pensieri rimasero latenti nel mio cervello fino a quando mi trovai davanti alla porta della casa, dove era vissuta la ragazza. Mi sono fermato davanti, ho guardato quelle mura. “No, non entro” dico ai miei compagni di viaggio. Io non ci riesco, preferisco aspettarli. Così trovo un posto comodo e  mi metto a leggere un libro, è un romanzo di Imre Kertesz, Khaddish per un bambino non nato. Il concetto centrale nel testo di Kertesz è questo: il male è facile, quasi banale, da descrivere, è la descrizione del bene, del fare del bene che è complessa; il male tutti lo capiscono con una certa dose di approssimazione, ma il bene invece? Come fai a descrivere il bene?

Io rimango davanti alla porta della casa museo di Anne Frank  e fisso quel via vai di gente che entra e esce ed è felice e sorride e mi immagino che scriva sul libro del ospiti Che bello essere venuti qui! Come è stata toccante questa visita! Dobbiamo ricordare per questo non capiti nuovamente! e altre frasi dello stesso tenere. Poi posata la penna e chiuse le pagine escono e vanno a fumarsi qualcosa a coffe shop, altri mangiano un panino oppure si dirigono verso la nuova meta dimentichi ciò che hanno appena fatto.

4. Cerco di analizzare il cortocircuito che mi ha portato a sovrapporre il sentimento di disagio davanti alla casa di Anne Frank – devo confessare al lettore che mi ha letto fino a qui, che questo sentimento è qualcosa di molto usuale per me; io vivo a Torino e non sono mai riuscito a varcare la soglia di C.so Re Umberto dove viveva Primo Levi, tutte le volte che mi avvicino a quel portone ho un rifiuto, una sorta di meccanismo autistico che mi impedisce di mettere i miei piedi sulle pietre che videro per ultime l’esistenza corporale di Levi – a quello appena uscito dal Van Gogh Museum. Se dovessi riassumerlo in una parola direi che quel sentimento ha a che fare con la “riproposizione”. A forza di vedere immagini dei quadri di Van Gogh, i dipinti veri e propri hanno perduto qualsiasi tipo di interesse; le riproduzioni sono diventate più reali e concrete dei quadri che avevo davanti; lo stesso vale per Anne Frank con il prodursi di variazioni su di lei e sul suo destino fino alla trasformazione in una icona pop. Ciò che mi chiedo è: esiste una qualche differenza tra le foto di Warhol e la lunga teoria di Anne Frank con le maglie delle diverse squadre di calcio, che visto sul web?

5. La spettacolarizzazione della Shoah, che ha come punto di partenza il film di Begnini La vita è bella, il quale ha compiuto quasi esclusivamente danni, è un fenomeno che in questo inizio di XXI secolo dovrebbe essere maggiormente studiato. La spettacolarizzazione va di pari passo con la negazione di quest’evento cruciale. Sembra esserci una relazione diretta: più la Shoah diventa memoria comune, più diventa oggetto di giornate, di film, sfondo di libri, maggiore è il numero di coloro che la negano, la deturpano, pongono dubbi rispetto alla ri-costruzione storica. La spettacolarizzazione toglie il tragico, fa sì che quel grumo di colpa metafisica che è il buco del culo della Storia ovvero Auschwitz diventi accettabile. La spettacolarizzazione ha reso pop l’anus mundi del campo di concentramento, ha reso tutto spudorato; chiunque, per questo motivo, si sente in diritto di fare della Shoah quello che vuole: può farci ironia, degradarla a barzelletta, schernirla e – perché no?- di negarla.

Ora faccio un’immaginazione, ma spero che si comprenda il motivo etico di questa fantasia, e mi chiedo: quale differenza c’è tra una persona che va al cinema a vedere La vita è bella e esce piangendo e una donna che si stampa una maglietta in cui Auschwitz è scritto con i caratteri della Walt Disney?  Aspettate un secondo prima di indignarvi, seguite il ragionamento. Il film di Benigni è pieno di errori storici e narrativi, che fa del lager una favola (parlo proprio della struttura narrativa, alla Prop per intenderci) e quindi ecco la quete, la prova, gli ostacoli, gli antagonisti, la ricompensa finale. Questa riduzione del complesso mondo concentrazionario, complesso per le domande etiche filosofiche morali spirituali e storiche che pone, a semplice fiaba non apre pericolosamente la porta, forse anche un semplice spiraglio, alla possibilità che ogni cosa possa essere manipolata e diventare opera di fantasia?

La scellerata idea della maglietta con i caratteri della Disney è sicuramente terribile e tremenda, ma se la Walt Disney producesse un cartone animato ambientato in un lager? Se lo facesse diventare un immaginario di massa? Se ne vedesse i gadget? Se facesse le magliette? Se lo facesse dicendo che però ciò che vuole è che s’abbia memoria di ciò è stato?  Quale sarebbe la differenza con la stupida maglietta, che la stupida signora indossava a una stupida manifestazione di stupidi fascisti? Siamo così sicuri che esiste una reale e concreta differenza o no? (Prevengo l’obiezione del mio lettore: ma guarda che esiste già un libro che racconta la storia concentrazionaria usando i “topi”, ovvero Maus di Spiegelman. Lo so, lettore, ma la lettura di Maus è una esperienza totalmente diversa e spiazzante, per nulla fiabesca o favolosa, assolutamente centrata dal punto di vista della verità e verisimiglianza storia, che fa impallidire il raffronto con la favola bella di Benigni).

6. Quando succede questo, cioè quando mi succede che entro in una specie di cortocircuito da qui non riesco a uscirne – per dire questo articolo che stai leggendo è da circa 4 mesi che cerco di metterlo in pagina, ma sempre mi fermo e riparto e cancello e butto via, e riparto perché leggo e mi dico: “Ecco anche tu Demetrio fai esattamente la stessa cosa che stigmatizzi; semplifichi, strizzi l’occhio, produci una sorta di patto con chi ti legge basato sulla simpatia e sulla fruibilità”; e così mentre mi dico queste cose cancello quello che ho scritto e riparto dal foglio bianco – mi rivolgo ai libri e in questo caso a due testi che ho amato molto e che ho letto nel corso di questi ultimi mesi a proposito della mia ipotesi su Anne Frank.

Il primo è la nuova traduzione del Diario di Anne Frank redatta da Antonio de Sortis, edita da Mondadori, e il secondo è un saggio editto da Carocci dal titolo Primo Levi e Anna Frank e l’ha scritto Maria Anna Mariani.  Perché il diario di Anne Frank è interessante, anzi perché questa nuova versione del diario è interessante? Perché ci consegna, forte degli strumenti della filologia e di un’accurata ricostruzione testuale e di traduzione, una immagine ben diversa di uno dei libri cardine della nostra cultura; un libro che fin dal suo apparire è stato oggetto di manipolazione, cambi, modificazioni lievi, dettati dal buongusto, dal pudore, dalla paura etc etc, che quindi hanno reso un’opera di verità – il diario per definizione viene percepito come una sorta di luogo franco in cui ciò che si dice è il più vicino possibile a ciò che realmente si vuol dire – meno veritiera di quel che credevamo.  Il libro di Maria Anna indaga, invece, quella che potremmo definire la fortuna figurale di Anne Frank, ne scova soprattutto i modi e nodi narrativi nella letteratura e nelle opere di immaginazione; ragiona il suo saggio su quel momento di passaggio da ceratura, a persona e, infine, a personaggio.

Mentre li leggevo, ho sentito il bisogno di fare dei ragionamenti con loro, ho scritto alcune mail, mettendoli a parte sentimenti miei, intuizioni che nascevano riflettendo sui loro testi. E loro mi hanno risposto e così mi pare che si giusto riportare le cose che dico io e quelle che loro mi hanno replicato, perché rende più preciso il quadro di questo articolo.

7. Leggendo i due testi, ho fatto una immaginazione, legata a qualcosa che poteva essere e non è stato. So che il provare a chiedersi come sarebbe andata se – ma il come sarebbe andata se è un’attitudine tipica degli scrittori, un po’ meno dei critici letterari o di chi lavora con gli strumenti della filologia – produce una sorta di scarto morale, a volte fastidioso, ma in questo caso mi pare stringente rispetto al tema. Ho l’impressione che Anne Frank sia una sorta di pietra di inciampo della letteratura mondiale. Nella sua persona c’è qualcosa di tremendo e misterioso. Provo a spiegarmi meglio. È come se in lei osservassimo qualcosa in potenza; meglio ancora è come se osservassimo il resto di qualcosa che sarebbe potuto essere. Provo a chiarirmi con una descrizione. In questa estate caldissima, ho visto sui tronchi di alcuni ulivi le mute dei bruchi seccate dal sole: da quelle mute saranno uscite, di certo, bellissime farfalle, ma io di questo avevo solo l’impronta in negativo del bruco. La mia fantasia immaginava delle ali colorate e un insetto librarsi da lì, ma nulla avevo in mano se non delle secche secrezioni indurite dal caldo. Mi spiego meglio: se Primo Levi fosse morto ad Auschwitz, noi ci saremmo privati – il mondo si sarebbe privato – di uno dei più grandi scrittori della nostra contemporaneità. Con Anne abbiamo una sorta di rispecchiamento rovesciato; è come se con lei fosse morta questa possibilità, noi abbiamo un diario, una scrittura che ci fa dire che sarebbe stata una scrittrice, ma la sua tragica fine che chiude prima del tempo qualsiasi ipotesi. È una sorta di grande allegoria della seconda guerra e di Auschwitz: il destino di un intero continente è finito ingoiato in quel buco nero. Tutte le vite che avrebbero potuto essere e non sono state. Maria Anna – a questa mia osservazione – risponde richiamandomi a una maggiore cautela: «Resisto però all’idea di leggere il diario di Anne Frank come promessa dell’opera di una probabile futura scrittrice. Perché pretendere di scorgere in questo testo il preludio a un potenziale corpus letterario? È come se il diario non bastasse mai ai suoi interpreti (in fondo, chi lo rimprovera di essere una “testimonianza impropria” della Shoah perché non racconta l’evento della deportazione compie un movimento retorico strutturalmente simile). Credo che non si sia abbastanza riflettuto su quel che il diario è, nella sua datità, nella sua finitudine. Occorrerebbe interrogarsi non tanto su quello che Anne Frank avrebbe potuto scrivere: ma su quello che ha scritto e su quello che non ha scritto. Sulla lacuna che chiude il suo racconto e che fa del diario l’opera di una sommersa. Anne Frank è una sommersa. E dover rimpiangere di più la sua morte perché si tratta della morte di una potenziale scrittrice mi pare insostenibile». Antonio mette in evidenza, invece, un dato sulla scrittura che mi pare interessante: «Nella seconda stesura del Diario, la cosiddetta versione B,[1] Anne riscrive buona parte dei suoi resoconti quotidiani, sfronda e aggiunge, spinta dal desiderio di dimostrare a sé e agli altri le sue capacità di narratrice, di misurarsi non solo con un presente di angosce e speranze, ma con un futuro che possa sbocciare in quelle stesse pagine. Il destinatario delle sue lettere a nessuno, la “Cara Kitty” della versione B, è a tutti gli effetti un personaggio letterario, ed è in quest’orizzonte che Anne comincia a intravedere tutti noi che, da una posizione così differente da quella sperata, oggi la leggiamo. Qui Anne inizia a trasformarsi in protagonista di un’autobiografia, il cui epilogo è paradossalmente, assurdamente differente da quello della vicenda dell’autrice: il libro è interrotto, ma salvo».

La chiusa della mail di Antonio mi porta a fare un altro ragionamento che è legato alla recezione della scrittura di Anne Frank. Il rischio che si corre a leggere certi libri e che essi vengano percepiti in modo “monumentale”. Il libro di Anne Frank non si legge, ma si percepisce come una statua a cui di volta in volta viene cambiata la frase commemorativa sul piedistallo. Più che leggere e studiare, il Diario viene usato come formulario di frasi ad effetto.  Maria Anna mi riporta una riflessione sul destino ermeneutico del Diario. Mi scrive: «Il diario di Anne Frank è stato spesso trattato come un serbatoio da cui estrarre sentenze: schegge di frasi estrapolate dal proprio contesto e poi piegate a veicolare determinati “insegnamenti” o contenuti ideologici. Una in particolare: “Nonostante tutto, io credo ancora che la gente sia davvero buona nel proprio cuore”. Si tratta della frase che si accampa sul retro di ogni copertina del diario (in ciascuna delle più di sessanta lingue in cui è stato tradotto), quella che è stata incaricata di condensarne il messaggio. Secondo Cynthia Ozick, che sul destino postumo delle parole di Anne Frank ha molto riflettuto, l’assolutizzazione editoriale di questa frase ha fatto sì che l’ottimismo speranzoso divenisse la cifra emotiva del diario: l’unica sua cifra emotiva, lasciando impercepite passioni tristi come disperazione, rabbia, risentimento – che pure compaiono con uguale frequenza nelle pagine».  Questa stratificazione ermeneutica è anche una stratificazione testuale, ciò che per tempo noi abbiamo letto del diario è in realtà ciò che il padre di Anne Frank ha voluto che leggessimo, che se vogliamo è un altro modo di lavorare alla costruzione di un monumento, mettendo in evidenza alcune parti e nascondendone altre. Antonio ha svolto un lavoro di traduzione interessante: «La possibilità di risalire fino al primo stadio del testo, ai “brogliacci di sé” ricavati dai manoscritti, sortì due effetti inaspettati. Da un lato, la scoperta del delicato procedimento che separava ciò che Otto Frank aveva unito, e dunque, per paradosso, il timoroso slittamento verso la fiction immaginato da Anne, svelò ai negazionisti l’autenticità del Diario; dall’altro, impose una riflessione sul modo in cui la versione C’era stata ricevuta dalle altre lingue. Ritradurre questo testo, partendo per la prima volta dalle stesure originali nella loro interezza, mi ha portato a dare ascolto a un tumulto spesso disorganico, indisciplinato,ma che se ascoltato con consapevolezza diventava trascinante, e per un po’ sommergeva la consapevolezza di stare maneggiando un documento storico».

7.1 Vengo forse alla fine di questo pezzo che ruota tutto su un non detto, su di un malessere non meglio esplicitato, che provo ora a rendere palese. Il problema che io noto, io che mi sono occupato e ho studiato gli scrittori che raccontano la realtà concentrazionaria, è di una progressiva e lenta sostituzione del termine scrittore con il termine testimone. Questo slittamento linguistico è ciò che mi turba. Viviamo in tempi di ipertrofia della memoria, di giornate per la memoria, abbiamo accesso a database e archivi dove ogni cosa viene catalogata; eppure ho l’impressione che questo numero esorbitante di dati produca una sorta di svuotamento. Uno dei temi sui cui si dovrebbe riflettere maggiormente è non tanto il binomio “realtà concentrazionaria”, ma su quello “letteratura concentrazionaria”. Antonio mi rimanda a un passo dell’introduzione di Alberto Cavaglion al Diario, che riporto: «Il primo dato da rilevare è la circostanza fortunosa in virtù della quale i diari sono arrivati a noi. Il salvataggio rappresenta il primo capitolo della ‘pazienza’ delle carte di Anne Frank. Nella storia del secondo conflitto mondiale non esiste soltanto il dramma dei libri bruciati sui roghi. Esiste anche, ma attende di essere scritta, la controstoria dei manoscritti salvati […] Le scritture dell’estremo, drammaticamente interrotte dal precipitare degli eventi, costituiscono un paragrafo, si potrebbe dire, di Resistenza dei libri e delle carte: una vicenda non meno encomiabile dell’assai più studiata Resistenza degli individui».

L’idea che esista una resistenza degli individui, a cui si affianchi una resistenza dei libri, mi fa comprendere che anche rispetto al binomio “letteratura concentrazionaria”, la nostra attenzione dovrebbe essere dedicata alla bistratta parola “letteratura”,[2] che qualsiasi cosa significhi rappresenta  la cosa che più amiamo nonostante la nostra irrimediabile ironia e noncuranza (cfr Esame di Coscienza di un letterato Renato Serra). E proprio per lasciare spazio alla letteratura ecco che mi vengono in soccorso i versi di Vittorio Sereni dedicati ad Anne Frank; essi spiegano e chiudono benissimo questo mio pezzo.

[…]quella

di Anna Frank non dev’essere, non è

privilegiata memoria. Ce ne furono tanti

che crollarono per sola fame

senza il tempo di scriverlo.

Lei, è vero, lo scrisse.

Breve bibliografia

  • Anne Frank, Le stesure origniali (trad. A. De Sortis), Mondadori 2019
  • Imre Kertész, Kaddish per un bambino non nato (trad. M.Sciglitano), Feltrinelli 2006
  • Cynthia Ozick, Di chi è Anne Frank? (trad. C. Spaziani), La nave di Teseo 2019
  • Maria Anna Mariani, Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura, Carocci 2018
  • Vittorio Sereni, Gli strumenti umani (introduzione di C. Fenoglio), Il Saggiatore 2018

Breve linkografia

  • Sulla questione #siamotuttiannafrank si legga Maria Anna Mariani in Alpabeta2
  • Per quanto riguarda la traduzione dei diari di Anne Frank è interessante questa intervista rilasciata da Antonio De Sortis a Liborio Conca su Il Tascabile

[1] Mi sembra importante questa puntualizzazione filologia di Antonio a proposito del suo lavoro sul Diario: «La mia traduzione è condotta proprio su quell’edizione critica che per prima vivisezionò gli scritti di Anne e ne sancì la natura stratificata. il Diario come oggetto editoriale è frutto di un’originaria forma di mediazione, operata da Otto Frank – il padre di Anne, unico sopravvissuto dei membri della Casa sul Retro – nel momento in cui scelse di integrare le due stesure originali, è, quindi,  possibile ammettere che la trasmissione del testo si sia più che mai confrontata con delle aspettative emotive e culturali. Il Diario non è pensabile al di fuori della funzione testimoniale che in parte Anne stessa, con la sua passione inquieta, preconizzava».

[2] Vorrei aprire un a parte su questo rapporto anche tra letteratura e storiografia che è uno dei nessi principali del discorso sul dire l’universo concentrazionario. Ci sono problemi etici e storiografici non indifferenti in questa tensione, fino a che punto è lecito fare letteratura (i.e. vera finzione) su questi argomenti? Non è forse migliore scelta lasciare che siano gli storici, con le loro fonti, le loro analisi materiali, la loro campionatura a produrre un discorso su questo tema? Eppure ho l’impressione che la materia concentrazionaria, questo groviglio di vite, destini, storie, questo magma che per essere compreso ha bisogno di più sguardi – filosofico, antropologico, scientifico, storico, sociologico – sia in qualche modo recalcitrante a essere contenuto nel discorso storico. Ho come l’impressione che forse la letteratura, con tutti i suoi strumenti e corollari (romanzo, critica, analisi del testo) possa produrre uno sguardo più centrato su quel fenomeno. E, quindi, non è casuale che due storici come Anna Bravo e Daniele Jalla, nell’introduzione a Una misura onesta (Franco Agneli), sostengano a un certo punto, parlando della rappresentazione dell’io nei testi di memorialistica concentrazionaria,che, cito a memoria, la materia trattata sembra chiedere che allo storico di fare un passo indietro per lasciare spazio al narratore.

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