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diretto da Romano Luperini

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Consigli di lettura per l’estate 2020 della redazione di La letteratura e noi /1

 La letteratura e noi va in vacanza fino a fine agosto. Oggi e venerdì pubblicheremo dei consigli di lettura per l’estate dei nostri redattori. Nella prima parte, stamattina, prendono la parola i redattori “giovani”, nel senso di coloro che sono entrati in redazione più di recente. Venerdì toccherà ai “vecchi”.

Considerando però la situazione eccezionale del 2020 e il difficile rientro di settembre, ci riserviamo la possibilità di intervenire ancora con pezzi inediti della sezione scuola.
Come già in passato, ripubblicheremo articoli già usciti nel corso del 2019-2020.
Auguriamo una serena estate ai nostri lettori. Ci rivediamo a settembre.
 
***

Antonella Amato

Le letture che ho scelto, seppure molto diverse tra loro, hanno in comune il fatto di riuscire a toccare di continuo qualcosa di nascosto e di invisibile, e a produrre un momento di vita, con i personaggi e tutta l’esistenza che si muove dentro di loro, ma anche con i misteriosi riverberi dell’imprevedibilità e dell’inatteso che emergono dall’esterno.

Piccoli equivoci senza importanza di Antonio Tabucchi, del 1985, è una raccolta di undici racconti postmoderni in cui viene negata qualsiasi possibilità di verità assoluta e di una conoscenza oggettiva del mondo. L’esistenza non è altro che «un rebus che non ha soluzione», un «equivoco senza importanza»,  un «appuntamento» incerto  («solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove»), perché la «ragion non riesce a riempire i vuoti fra le cose, e stabilire la completezza […] preferisce la complicazione». Ai personaggi, spaesati, non restano che rimpianti, ricordi forse ingannevoli (semmai sogni?), la sensazione costante di essere sempre fuori posto e la possibilità di «regolare sulla simmetria delle pietre l’infantile decifrazione del mondo senza scansione e senza misura».

Al di là del ponte e altri racconti, di Mavis Gallant, pubblicato in Italia da BUR nel 2005, è una raccolta di quattro racconti, tutti giocati su un movimento dialettico tra materia e astrazione, che restituiscono, al lettore, un mondo al tempo stesso realistico e visionario. Ogni racconto prende avvio da una situazione semplice, una realtà apparentemente banale, familiare, da cui, però, affiorano scintille, possibilità di sviluppo inaspettate che inducono i personaggi, inconsapevoli e smarriti, a misurarsi con un momento di svolta nel proprio destino, un cambiamento, un passaggio, un attraversamento, come fa intuire il titolo dell’opera. A risaltare è, dunque, un’atmosfera, rarefatta, di lucido e sottile straniamento che la Gallant definisce, sapientemente, con una scrittura elegante, asciutta ed essenziale.

Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli, è un romanzo recente, arrivato quinto alla finale del Premio Strega, che narra della settimana di TSO a cui venne sottoposto lo stesso scrittore nel 1994. Il ricovero obbligatorio diviene un’occasione inaspettata di incontro con cinque compagni di stanza del reparto di psichiatria, anche loro esseri umani «indifesi di fronte alla propria condizione, di esposti alle intemperie, di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un male ricevuto in dono», che è «una bestia infilata sotto la pelle». Una storia intensa, insieme violenta e delicata, che parla di fratellanza, di speranza e di salvezza, di poesia, e che riflette sulla scienza che tende a medicalizzare l’esistenza, negando il «miracolo dell’unicità dell’individuo».

Claudia Boscolo

Questa è secondo me un’estate importante, durante la quale faremo i conti con la nostra vulnerabilità e con la nostra presenza ingombrante sul pianeta. Quindi propongo libri che secondo me devono far parte del bagaglio culturale di chi vuole tentare di comprendere il difficile rapporto fra l’uomo e il suo habitat.

In questa ottica, nell’ambito della saggistica non letteraria, anche se non recentissimo, consiglierei Iperoggetti di Timothy Morton (Nero, 2018), il tentativo di costruire un cappello teorico-filosofico a proposito di tutto ciò che riguarda la biosfera e il nostro modo di stare al mondo. Morton costruisce una struttura epistemologica all’interno della quale includere i nostri comportamenti, che ci può far capire anche certe evoluzioni della narrativa contemporanea. Circa la grande tematica dell’estinzione, che sta diventando sempre più popolare anche perché ha un impatto sulle strutture narratologiche, è importante il testo di Massimo Sandal, La malinconia del mammuth (ilSaggiatore, 2019). Si tratta di un saggio divulgativo che racconta in modo molto elegante la scoperta di un passato in cui esistevano specie oggi estinte. Il punto da cui muove Sandal è la presa di coscienza che le estinzioni sono state molte e diverse nella storia del pianeta. Si tratta di capire come quella che noi stiamo provocando sia affine e differente da quelle già avvenute e se possiamo intervenire e quale sia il modo migliore, dal punto di vista di una biologia evolutiva. Sul tema della nostra convivenza con gli animali non umani, un motivo letterario su cui si gioca la narrativa contemporanea, Carl Safina ha scritto Al di là delle parole. Che cosa provano e pensano gli animali (Adelphi, 2018), un libro sulla comunicazione degli animali fra di loro e nostra con gli animali. Quindi è un saggio sul linguaggio in senso vasto, che può far comprendere quali regole animano la comunicazione intraspecifica, e l’antropocentrismo. Questo libro può offrire al lettore contemporaneo la possibilità di intuire possibili nuovi indirizzi della narrativa, ad esempio il racconto Storia della tua vita di Ted Chiang del 1998 (incluso ora nell’omonima antologia pubblicata da Frassinelli nel 2018), in cui si analizza il problema della comunicazione con la lingua di una specie aliena, racconto da cui è stato tratto il film Arrival di Denis Villeneuve nel 2016.

Simone Ghelli

Se penso alle letture estive, la mia memoria torna agli anni dell’università. Per risparmiare sull’affitto lasciavo il posto letto a giugno e tornavo a casa dei miei genitori. Avevo la fortuna di abitare a quattro chilometri dalla spiaggia, dove preparai più di un esame. La mattina era il momento migliore, ma anche il pomeriggio dopo una certa ora. Cercavo uno spazio non troppo affollato, certe volte scavavo nella sabbia per creare una specie di sdraio naturale. Per leggere bene bisogna stare comodi, ma non troppo – è un’idea che mi son portato dietro anche con la scrittura.

Per farla breve, io non venivo dal liceo. Laurearmi in lettere ha significato soprattutto recuperare da solo il terreno perduto. Avevo sempre letto tanto, ma in un modo assolutamente anarchico – amavo soprattutto i romanzi d’avventura, i fumetti, autori come Stephen King (che non era considerato propriamente letteratura). Da buon autodidatta, cercai di darmi un metodo: sceglievo ad esempio degli autori e leggevo più o meno tutti i loro libri – accadde così con Kafka, Dostoevskij, Pasolini, De Lillo, Mishima, Camus e altri – ma al tempo stesso mi muovevo un po’ a casaccio, sperimentando. L’unica costante rimaneva una forma di ossequioso rispetto nei confronti degli autori, che mi spingeva a finirne i libri anche quando non mi appassionavano – per liberarmi di questa cosa ci ho messo tipo vent’anni.

Tutto questo prologo per dire che vorrei consigliarvi dei libri che mi ricordano quei tempi, una fase della mia vita in cui leggevo per il puro piacere della scoperta – non c’era ancora dentro di me quella vocina critica che mi portava ad analizzare ogni cosa che leggevo, sovrapponendosi alla voce originale dell’autore o dell’autrice di turno.

La prima opera è una raccolta di racconti, che in realtà ho letto molto tempo dopo. Si tratta di un libro a cui devo tantissimo, quello che è riuscito appunto a risvegliare quel lettore capace di emozionarsi e meravigliarsi che tanti anni di studio sembravano aver addormentato per sempre. Sto parlando dei Sessanta racconti di Dino Buzzati. Se proprio dovete portarlo in spiaggia, vi consiglio di leggerlo con gli occhiali da sole. Ogni tanto potrebbe uscire qualche lacrimuccia – a me è successo leggendo il racconto intitolato L’uccisione del drago.

Un altro libro che vi segnalo lo lessi invece durante quelli che chiamo i miei anni di apprendistato. Il tamburo di latta di Günter Grass mi travolse per il suo ritmo e la sua ferocia – un romanzo di cui mi sarei ricordato pochi anni dopo, quando feci il servizio civile nell’ex Ospedale Psichiatrico di Siena. La voce di Oskar, il protagonista che si rifiuta di crescere, è di quelle che rimangono dentro al lettore e gli insegnano la libertà di dire no.

Infine, ma non ultimo, un libro che è un inno allo spirito fanciullesco che dovrebbe albergare in ogni lettore: La colazione dei campioni di Kurt Vonnegut, che l’autore presenta così: «Questo libro è un regalo che mi faccio per il mio cinquantesimo compleanno. Mi sento come se stessi superando il culmine d’un tetto… dopo essermi arrampicato su una delle falde. A cinquant’anni sono programmato a comportarmi in modo infantile.» Buona lettura.

Demetrio Paolin

La morte di Gesù è il volume conclusivo di una trilogia di “Gesù” di Coetzee (le altre due tappe sono L’infanzia di Gesù e I giorni di scuola di Gesù, tutti per Einaudi). Ci sarebbero diversi modi e approcci a questo romanzo, ma mi piacerebbe iniziare questa breve analisi/consiglio di lettura sottolineando un’assenza, che riguarda appunto il nome di Cristo/Gesù che presente in maniera così sfacciata nei titoli è invece assente nel corso della storia.

Il romanzo narra le vicende di David, Simon e Ines, che dopo una catastrofe – di cui non sappiamo nulla – si ritrovano a iniziare una nuova vita. David è orfano, compare sul ponte della nave a Simon che lo prende con sé e iniziano insieme un’avventura che li porterà prima a scegliere – o farsi scegliere? – da Ines come madre e compagna e poi a vivere una vita alla ricerca di una normalità, fatta di un lavoro, l’andare a scuola, un alloggio, un cane. Il dispositivo narrativo del romanzo è centrato sull’eccentricità del suo protagonista: David non è un ragazzino normale, sente e vede le cose con una particolare angolazione e sensibilità, che produce negli altri – in tutti gli altri che tendono a voler tornare alla normalità – un atteggiamento oscillante tra l’ammirazione e il pericolo. Già da questa breve trama ci si rende conto di come sia appena percettibile in filigrana un accostamento tra David e Gesù; ma la bravura e la grandezza di Cotezee sta proprio nel fuggire a qualsiasi sovrapposizione cristologica del suo piccolo protagonista, che va appunto dall’assenza del nome di Cristo dall’intero romanzo alla negazione di facili parallelismi: soprattutto nell’ultimo romanzo dove temi come la morte/sacrificio/espiazione avrebbero potuto prestare il fianco a tale interpretazione figurale.

Coetzee esclude dal suo orizzonte l’allegoria, non sembra volerci mostrare un senso altro delle cose, ma con le sue parole vuole mostrarci la strana e complessa intermittenza del mondo, e del nostro rapporto con la realtà. Non è casuale, quindi, come il libro a cui Coetzee guarda nella scrittura della sua trilogia sia il romanzo di Cervantes. Se il Don Chisciotte dal suo apparire sulla scena del romanzo segna la frattura tra le parole che dicono le cose e le cose stesse, se quindi indicano una sorta di crasi tra la realtà e la sua rappresentazione, nella trilogia di Gesù Coetzee lavora proprio sullo stesso piano, cosa rimane della realtà quando la realtà ci appare come nuova? Non dobbiamo dimenticare, infatti, che David, il presunto messia, appare nel mondo quando l’apocalisse – ovvero la rivelazione – è già avvenuta, quando i cieli nuovi e la terra nuova si sono aperti. E che cosa hanno mostrato?

Niente, hanno mostrato che la vita dopo l’apocalisse è medesima a quella di prima: burocrazia, scuole, insegnanti, lavoro, centri per l’impiego, sartorie, cane, fattorie, ospedali, malattie, amori, divorzi, persone che muoiono e altre che vivono. La rivelazione è che non c’è nessuna cosa da rivelare. Se volessimo parlare di questi romanzi come di un vangelo, ovvero come di un annuncio, dovremmo dire che l’annuncio di Coetzee riguarda l’irrimediabile rottura tra il mondo e la sua rappresentazione: qualsiasi forma d’arte appaia nel romanzo – la danza, la musica, la matematica, il calcio o la letteratura – si mostra sconfitta nei conforti una di una realtà opaca e stolida, che continua a esistere seguendo i suoi ritmi, indifferente e incurante della venuta del nuovo messia, che così come è apparso dal nulla nelle prime pagine del libro, infine scompare senza quasi che ce ne venga data notizia.

Stefano Rossetti

A. G. Ballard ha scritto romanzi per certi aspetti profetici, e insieme a P. Dick ha rivoluzionato il concetto stesso di fantascienza. Il condominio (1975, tradotto da Feltrinelli) è un perfetto esempio della sua poetica. In una grande torre alla periferia di Londra vivono migliaia di persone, in una sorta di alveare sociale contemporaneo. Il gioco di gerarchie, conflitti e ambizioni che vi si scatena ne fa il teatro di una vera e propria guerra per la sopravvivenza e per la supremazia. Ballard costruisce un’allegoria del mondo che ci attende (in cui viviamo?), dove tecnologia e primitivismo plasmeranno una nuova natura umana.

Francesca Fornario, giornalista, autrice e conduttrice radiofonica, ha scritto un piccolo gioiello umoristico: La banda della culla (Einaudi, 2015). Una storia di giovani donne e uomini che si incontrano nella sala d’aspetto di una ginecologa romana: destini diversi per circostanze e caratteri individuali, uniti dal desiderio di maternità e paternità, dalla volontà di creare una famiglia. L’intreccio fra giovinezza (fino a quando si è giovani in Italia?), lavoro e discriminazioni finirà per produrre un piano “criminoso”, l’unica via , nel nostro paese, per realizzare questo desiderio.

Simona Vinci, la mia preferita fra le scrittrici e gli scrittori italiani, in Mai più sola nel bosco (Marsilio, 2019), ripercorre le fiabe dei fratelli Grimm, sulle tracce di sé. “Sono cresciuta – spiega lei stessa -, questo era inevitabile, nonostante la mia feroce resistenza, ma l’invisibile a volte lo vedo ancora e una volta diventata grande non ho smesso del tutto di credere alle Cose.” Un racconto profondissimo, triste e magico, come tutti i suoi. Un libro che conduce a molti altri libri, indagando la genesi della raccolta dei Grimm e le numerose riletture cui ha dato origine.

Wyslawa Szymborska ha scritto poesie indimenticabili, che nascono dalla semplicità del quotidiano e conducono con naturalezza – nello stile e nel pensiero – a concetti universali. Nella sua voce, ragione e sentimento si fondono in un discorso chiarissimo. Tutte le sue poesie sono state raccolte in La gioia di scrivere (Adelphi, 2009), e le vacanze costituiscono un’occasione unica per leggerle con la serenità che meritano. “La prima fotografia di Hitler”, “Un’adolescente”, “La cipolla”: sono le prime storie in versi che andrò a ritrovare. Con sincera invidia per chi le scoprirà per la prima volta.

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