Abbecedario. Le parole dei ragazzi di questi mesi
La realtà sociale e la scrittura
«Dobbiamo guardare la realtà sociale», diceva Lévi-Strauss e noi docenti di scienze umane ripetiamo in coro «con gli occhi di un alieno, di un extraterrestre». Vaglielo a dire agli adolescenti che devono agire, sperimentare, lanciarsi verso il futuro senza guardare dettagli e contraddizioni. Non è facile, quindi, ma in classe possiamo provare qualche forma di allenamento: giochi di scrittura, di teatro, sulle percezioni, di comunicazione. La scrittura creativa è stata ampiamente usata nei tre anni di corso del nostro liceo (Sesto Properzio – Assisi). Tre gli obiettivi principali: divertire e creare in classe un clima positivo; avvicinare alla narrazione e alla sua capacità, come insegna Bruner, di costruire la realtà; permettere alla pluralità degli sguardi di emergere e lottare contro una visione stereotipata. Ricordo di aver appeso in classe, fin dai primi giorni di scuola di tre anni fa, un foglio su cui erano scritto un breve testo adattato da L’eccezione e la regola. «Osservate il contegno», scrive Brecht «trovatelo strano anche se consueto, inspiegabile, pur se quotidiano, indecifrabile, se pure è la regola. Anche il minimo gesto, in apparenza semplice, osservatelo con diffidenza. Investigate se proprio l’usuale sia necessario, e – vi preghiamo- quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale». Questo monito ha guidato molte attività: il corpo biologico e la sua trasformazione in un corpo sociale, l’invenzione delle tradizioni, i miti e i riti d’oggi, i confini. Questi argomenti sono stati affrontati con modalità simili: un primo momento creativo con laboratori ed esercizi in cui gli studenti venivano spinti ad esprimere il proprio punto di vista, poi una serie di riflessioni con l’inserimento e la discussione di alcuni modelli teorici.
Abbecedario
Tra i giochi di scrittura più usati e funzionali ce n’è uno che ha inventato Beniamino Sidoti che ha un bel titolo dal sapore antico: “abbecedario”, che ricorda Pinocchio e Cuore. Si gioca così: si sceglie un tema, un argomento e si scrive al centro di un grande foglio. Poi, nello spazio circostante, si scrivono le parole che hanno a che fare con l’argomento. Quindi ciascuno ne sceglie una e scrive un breve racconto, un ricordo, una poesia; infine si mettono le parole in ordine alfabetico. Tutto qui. Rimane un documento, un testo collettivo, un po’ frastornante, spesso contraddittorio. È un gioco prezioso che lambisce il territorio della lingua in cui le invenzioni individuali fanno i conti con la dimensione sociale e storica della lingua medesima, che abbina le certezze di una sintassi codificata con le modalità di una comunicazione urgente veloce ed estemporanea, che fa i conti con le piccole mutazioni del percepire e con le differenze degli sguardi individuali. È, secondo noi docenti di scienze umane, un bel campo di allenamento per provare a guardare «alla realtà sociale con gli occhi di un extraterrestre» come diceva Lévi-Strauss e come ripetiamo ad ogni occasione noi docenti. Poi è arrivato virus, l’emergenza sanitaria e l’interruzione dell’attività didattica.
Abbecedario a distanza
Abbiamo riproposto il gioco, questa volta on line. Ne è uscito fuori questo piccolo Prendersi cura delle parole al tempo del coronavirus, che narra lo sconquasso emotivo di un gruppo di adolescenti di fronte all’emergenza sanitaria. Gli studenti hanno scelto le parole e si sono immediatamente accorti che il loro peso, il loro valore è diventato altro e che la lingua, nella sua straordinaria capacità di adattamento a nuove situazioni, è in grado di raccontare la grande ferita del tempo presente. Si legge, nei testi che i ragazzi hanno scritto, la percezione di un cambiamento radicale, la sensazione che qualcosa di irrimediabile sia accaduto, ma c’è anche il desiderio di capire, di pensare, di comunità, di intimità e di riflessione. Sono testi che aprono mondi e ventagli di possibilità nel momento preciso in cui tutto si chiude e in cui il flusso delle informazioni sui social e sui vari canali istituzionali rischia di riempire e bloccare ogni capacità critica e di pensiero. «Siamo un po’ sempre lontani dalla realtà, ma non ce ne siamo mai accorti veramente». Questa non è una citazione di Levis – Strauss o di Brecht, è una frase di Agnese del 3BS: il mondo che conoscevamo è stato sospeso: tutti i nostri sguardi sono ora sguardi alieni, extraterrestri. Nei testi di questo piccolo libro c’è una grande attenzione alla realtà materiale e sociale intesa non come dato ma come processo, come costruzione. Nello scritto di Beatrice, Bollettino, leggiamo: «Vengono detti tanti “numeri”, che rimbombano nella testa. Mi sconvolge l’idea di come la vita di migliaia di persone diventi un semplice numero, di come dietro a quei numeri ci siano volti di persone con una famiglia, un lavoro, una casa». Stanno sorgendo nuove mappe di interpretazione della realtà, dobbiamo prestare attenzione a quello che queste nuove mappe lasciano fuori. «Il corpo», scrive Anna «è nostro. Così si dice. Ognuno ha il proprio corpo ed è qualcosa di strettamente privato, individuale, personale. Ma questa è solo un’ingenua teoria. (…) In questo periodo di totale reclusione, ecco che invece (questa teoria) torna. Nessuno ci vede, solo lo specchio. Come ci comportiamo? Lo curiamo, certamente, ci laviamo come al solito, ci vestiamo, ma molte attenzioni, legate all’apparire, spariscono. Ci si trucca, magari per divertimento, per passare il pomeriggio o per scattarsi foto da postare, ma non c’è l’urgenza, il mattino, appena svegliate, di rendere il viso perfetto, vestirci abbinate, indossare gioielli. E noi tutti, di sicuro, tra i profumi, non sprecheremo, se vogliamo provarli in casa, quello più buono, perché quello va riservato per quando dovremo stare in mezzo alla gente e qualcuno magari lo noterà e ci farà un complimento. Sembra qualcosa di banale, ma ciò fa riflettere su come cambia la relazione tra noi e il nostro corpo, se siamo da soli o meno». Anche la dimensione dell’appartenenza, usata con tanta abilità dalle agenzie pubblicitarie, viene messa in discussione. Scrive Chiara Maria: «Inno nazionale. Ho scelto questa parola perché significa tutto e nulla, ora. Quando la situazione era grave solo in Cina, l’Italia era unita nella paura dell’altro, magari anche in modo scherzoso; perciò non era inusuale vedere ostentato il nostro orgoglio nazionale.
Ora, però, le nazioni ed i loro confini hanno perso valore: per la prima volta siamo uguali e ce ne accorgiamo; siamo tutti impauriti, stanchi, in casa ad aspettare. Ho scelto questa parola per un’immagine che ho visto qualche giorno fa: a pensarci, mi fa ancora sentire un brivido lungo la spina dorsale; nonostante di scenari drammatici ne stiamo vedendo tanti, troppi. Stavo scrivendo gli appunti in salotto, con la tv dietro di me, perché i miei stavano vedendo un servizio, una scena abbastanza comune in questi giorni, fino a quando la presentatrice si blocca. Quel silenzio mi ha colpita, era inusuale, ma non posso biasimarla, le immagini erano un vero colpo al cuore. Il servizio inizia, senza la classica presentazione che lo introduce, se non un singhiozzo sommesso. Le immagini scorrono mute, registrate da un telefono, video un po’ mossi e tremolanti fatti da qualche militare o da qualcuno rinchiuso in casa; da essa il mondo che si propone all’anonimo cineamatore non è più quello che ricordava.
Questa anomalia era vera, troppo vera, e questo ti entrava dentro e ti sbatteva in faccia la realtà. Ciò che vedevo era accompagnato da una melodia funebre: un lungo corteo di camionette dell’esercito italiano carico di corpi, di madri, padri, amici, figli, che fino ad una settimana prima erano ancora lì, a vedere un film con i cari o a cucinare una pizza, a lamentarsi del clima o a canticchiare una canzone. Ma il punto che più mi è rimasto impresso non è questo, bensì l’inquadratura da dietro. Sarà che preferisco le inquadrature posteriori, perché sono meno viste, consumate da meno occhi e quindi ancora tutte da esplorare, ma sul retro vi era la bandiera italiana. All’interno di quelle vetture, infatti, vi era davvero l’Italia…Non solo uno sconosciuto alla quale dire un vuoto “mi dispiace”.
Quella era davvero la Nazione che salutava (e saluta ancora) le proprie vittime, un pezzo della nostra storia che si stacca, lasciando il posto solo ad un pesante drappo nero che ci serra la bocca, perché in tutte le parole che ho appena scritto, non ne trovo neanche una che possa esprimermi, solo un raccolto silenzio».
I ragazzi, attraverso questi scritti, hanno realizzato una sorta di “autoetnografia” nell’intimo delle loro vite, delle loro giornate, delle loro emozioni. Questo libro che li raccoglie, che va letto, a mio avviso, come un testo collettivo con tante vitali contraddizioni, è un mezzo per superare il proprio confinamento e sconfinare, con la propria, nell’intimità degli altri.
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